venerdì 7 agosto 2015

Il Pane vero è il Corpo di Cristo.

Domenica XIX del Tempo Ordinario – Anno B – 9 agosto 2015
Rito Romano
1 Re 19, 4-8; Sal 33/34; Ef 4,30-5,2; Gv 6, 41-51


Rito Ambrosiano
1Re 18,16b-40a; Sal 15; Rm 11,1-15; Mt 21, 33-46
XI Domenica dopo Pentecoste


1) Pane di Vita eterna.
Due domeniche fa abbiamo visto il dono del pane che Gesù fa sul lago di Tiberiade, moltiplicando cinque pani per condividerli con numerosa gente che lo seguiva. Domenica scorsa, abbiamo visto questa gente cercare perché voleva ancora mangiare di quel pane moltiplicato e condiviso. Oggi, il Messia spiega che l’importante non è il pane della terra, ma il Pane del cielo, cioè Lui stesso. Di fronte a questa affermazione di Gesù: “Sono io il pane disceso dal cielo” (Gv 6, 48), i giudei reagiscono mormorando. Non riescono a convincersi dell’origine divina di Gesù. Per loro che pensano di conoscerlo bene, è solamente il figlio di Giuseppe e allora come poteva essere sceso dal cielo? Di fronte alle mormorazioni dei giudei, Gesù non discute, ma riafferma: “Sono io il pane disceso dal cielo”, “Sono io il pane della vita”.
Non è il pane di Mosè che dà la vita per sempre: “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto, eppure sono morti” (Gv 6, 49). Gesù - e solo Gesù - è il “Pane”, la Parola e la sapienza di cui l’essere umano ha fame. Più avanti si comprenderà che il pane è anche l’Eucaristia, ma ora - a questo punto del discorso – l’insistenza è sulla Parola. L’Antico Testamento è tutto percorso da un'ansiosa ricerca della Parola di Dio che rischiara il cammino della vita e ne rivela il senso. Nella tradizione giudaica la manna era divenuta il simbolo della Parola. E i giudei lo attendevano di nuovo in dono, abbondantemente. Il nostro passo evangelico afferma che proprio Gesù, il figlio del falegname, riassume in sé tutta questa attesa e la porta a compimento. Di fronte al rifiuto dei giudei Gesù non si limita a denunciare l’incredulità, né si accontenta di indicarcene la ragione. Ci svela l’origine e le condizioni della fede. Il pensiero è tanto importante che Gesù lo ripete due volte: “Chi ascolta il Padre e si lascia da lui istruire viene a me”, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”. Nessuno può andare da Cristo, se il Padre non lo attira. Non si diventa cristiani se non per questa attrazione, non certo per via di indottrinamento. Noi diventiamo cristiani per attrazione: siamo attirati da un Dio buono come il pane, umile come il pane, cibo inesauribile che alimenta la vita, ogni vita, tutta la vita.
Nel cuore di ogni uomo c’è l’attrazione al Figlio, esercitata dal Padre. La struttura fondamentale dell’uomo è essere figlio. Anche il desiderio di fraternità indica la necessità di un padre (Gesù è la prima persona che ha vissuto nel corpo la realtà di Figlio del Padre e di fratello di tutti.). E cosa vuole un figlio dal padre? Vuole la vita nell’amore. Vuole essere amato incondizionatamente dal Padre. Tutto ciò è inscritto nel cuore di ogni persona umana ed è questo desiderio dell’amore del Padre che ci fa figli e ci attira al Figlio, fratello nostro, fonte inesauribile di vita, di bene e grazia.
Il Padre ci attira non con la costrizione ma con il dono di suo Figlio, un’offerta che suscita la libertà del destinatario: la manna è dono e domanda (manna viene da man hu: che cos’è?); il dono che Gesù è, suscita a sua volta alcune domande sulla sua identità (“chi è?”: cfr. Gv 6,42). Così, le domande incredule di coloro che conoscendo l’origine umana di Gesù non accedono alla fede in lui quale rivelatore di Dio, non dicono solamente il peccato di chi le formula, ma esprimono anche il carattere non coercitivo e non obbligante del dono che Gesù è e fa. Il vero dono si espone alla libertà del destinatario, anche al possibile rifiuto. Anche all’umiliazione dell’indifferenza o del rigetto.

2) Mangiare.
Il Vangelo di oggi, nei versetti finali, 48-51, parla di carne da mangiare. E credere sarà sostituito dal mangiare e dal bere. Credere è qualcosa di molto concreto: è mangiare. Mangiare è il processo di assimilazione, così anche il bere. L’Eucaristia è l’assimilazione del Figlio e vedremo come avviene.
Credo, dunque, che sia corretto dire che il verbo principale del Vangelo di oggi è “mangiare”. Esso indica un gesto semplice, quotidiano, ma vitale. Mangiare è questione di vita o di morte e Dio è questo: è una questione di vita o di morte. Ne va della nostra vita. Il segreto, il senso ultimo nel tempo e nell’eterno è vivere di Dio. Cristo non si dà da mangiare solo per farci diventare più buoni, ma per farci diventare Dio, figli nel Figlio. Mangiare il corpo e il sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo (Leone Magno).
Il corpo di Cristo, il suo essere uomo tra noi, la povera umanità che ha assunto, è il Pane che dà la vita eterna. E l’uomo è strappato alla morte ed è risuscitato “nell'ultimo giorno”, ma già ora chi crede in Cristo possiede la vita eterna. “Come il legno della vite, piantato in terra, dà frutto a suo tempo, come il grano di frumento, caduto in terra e marcito, sorge molteplice, allo stesso modo i nostri corpi, nutriti dell'Eucaristia, deposti in terra e qui dissolti, risorgeranno a suo tempo perché il Verbo di Dio elargirà loro la risurrezione a gloria di Dio Padre. Dio non ha... tollerato che ci dissolvessimo nella terra” (Ireneo di Lione).
Gesù è venuto a portare molto più del perdono dei peccati: ha portato se stesso, ha dato se stesso, offrendosi come cibo. Tutta la vita del Figlio fu ed è Eucaristia, quindi tutto è da Lui visto come Eucaristia. Mangiare la carne e il sangue di Cristo, non si riduce perciò al rito della Messa. Il corpo di Cristo non sta solo sull’altare - del suo Spirito è piena la terra - Dio si è vestito d’umanità, al punto che l’umanità intera è la “carne” di Dio. Infatti Lui disse: “Quello che avete fatto a uno di questi l’avete fatto a me”. “Mangiare il pane di Dio” è nutrirsi di Cristo e di Vangelo, è mangiare quel pane buono, costantemente.
Domandiamoci allora: noi di che cosa ci nutriamo? Di che cosa alimentiamo cuore e pensieri? Stiamo mangiando generosità, bellezza, profondità? O stiamo nutrendoci di superficialità, miopie, egoismi, intolleranze, insensatezze? Se accogliamo in noi pensieri degradati questi ci riducono come loro; se accogliamo pensieri di Vangelo, di bontà e di bellezza essi ci fanno uomini e donne della bellezza. Se ci nutriamo di Vangelo, il Vangelo dà forma al nostro pensare, al sentire, all’amare. Se ci nutriamo del Corpo di Cristo, ci assimiliamo a Lui e diventiamo ciò che ci abita.
Un esempio particolare di vita eucaristica è quello che ci è offerto dalla Vergini Consacrate nel mondo. Queste donne sono consapevoli che “la vita consacrata ritrova la sua identità quando lascia trasparire nei fatti la "memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli. Essa è vivente tradizione della vita e del messaggio del Salvatore” (Vita Consecrata, n. 22). Per questa ragione aderiscono a Cristo, loro Sposo in modo speciale mediante la comunione. Alcuni Maestri spirituali distinguono tre tipi di comunione che permettono di aderire a Dio: l’Eucarestia, la contemplazione e l’obbedienza.
Questi tre tipi non si oppongono tra di loro e la vita delle Vergini consacrate mostra come essi siano tra loro uniti e fruttuosi.
Prima di tutto la comunione eucaristica quotidiana che assicura alla Consacrate la presenza e l’azione vivificante del Corpo e del Sangue, dell’anima e della divinità di Cristo che si immola, che, dunque, diffonde la sua vita. In secondo luogo la contemplazione. Essa è la preghiera che diventa sguardo e con essa la persona consacrata si espone alla luce del Verbo fatto carne, luce che ci trasforma di chiarore in chiarore. Infine, l’obbedienza che non è vissuta dalle Vergini consacrate come sottomissione esteriore o come semplice esecuzione di un ordine, ma il ripetere nella vita di ogni giorno il “sì” di Maria al Signore che chiede di dimorare in loro e, tramite loro, nel mondo.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Comment. in Ioan., 26, 2.4.10.13



Solo un cuore che ama può comprendere

       "Non mormorate tra voi: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato" (Jn 6,43-44).

       Con queste parole il Signore ci annunzia una grande grazia. Nessuno va a lui se non è attirato. Non cercare di giudicare chi è che sarà attirato e chi è che non lo sarà, né di stabilire perché uno sarà attirato e un altro non lo sarà, se non vuoi sbagliare. Accetta queste parole e cerca di capirle. Non sei attratto dal Signore? Prega per esserlo. Cosa veniamo a dire, fratelli? Che se siamo attirati a Cristo, allora crediamo nostro malgrado, cioè è per effetto della costrizione, non per effetto della nostra libera volontà? In verità, si può entrare nella chiesa contro la propria volontà, e, contro la propria volontà si può essere indotti ad avvicinarci all’altare e a ricevere i sacramenti; ma non si può credere contro la propria volontà...

       Quando ascolti: «Nessuno viene a me se non è attirato dal Padre», non pensare di essere attirato tuo malgrado. La tua anima è attirata anche dall’amore. Non dobbiamo temere di essere rimproverati da quanti stanno attenti alle parole, ma restano lontanissimi dalla interpretazione delle cose divine, i quali, a proposito di questo passo delle sante Scritture, potrebbero dirci: In qual modo credo di mia volontà se sono attirato da Dio? Io rispondo: Non sei attirato per mezzo della volontà, ma per mezzo della gioia. Che significa essere attirati per mezzo della gioia? "Metti nel Signore la tua gioia, ed egli ti darà ciò che domanda il tuo cuore" (Ps 36,4). Si tratta di una certa qual gioia interiore, cui è nutrimento quel pane celeste.

       Se il poeta ha potuto dire: «Ciascuno è attirato dal suo piacere» (Virgilio, Egl., 2), - ho detto piacere, non necessità, gioia, non costrizione -, con quanta maggior ragione possiamo dire noi che l’uomo è attirato a Cristo, in quanto in esso trova la gioia della verità, della beatitudine, della giustizia, della vita eterna, tutto ciò insomma che è Cristo medesimo? Se il corpo ha i suoi piaceri, perché l’anima non dovrebbe avere i suoi? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: "I figli dell’uomo spereranno sotto la protezione delle tue ali; si inebrieranno per l’abbondanza della tua casa, e, tu darai loro da bere alla fonte delle tue delizie; perché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce vedremo la luce" (Ps 35,8ss).

       Dammi un cuore che ama, ed egli capirà ciò che io dico. Dammi un cuore che desidera, un cuore affamato e assetato che si sente in esilio in questa solitudine terrena, un cuore che sospira la fonte della sua eterna dimora ed egli confermerà ciò che dico. Ma se io parlo a un cuore gelido, egli non potrà capirmi. E tali erano coloro che mormoravano...

       "In verità, in verità vi dico, chi crede in me ha la vita eterna" (Jn 6,47). Ha voluto rivelare la sua natura. Avrebbe potuto dire più brevemente: Chi crede in me avrà me stesso. Cristo è infatti vero Dio e vita eterna. Chi crede in me, egli dice, viene in me; e chi viene in me, ha me stesso. Cosa intende, Cristo, dicendo «ha me stesso»? Intende, avere la vita eterna.

       Colui che è vita eterna accettò la morte, ha voluto morire: ma nella tua natura, non nella sua. Egli ha ricevuto la natura carnale da te, in modo da morire per te. Ha preso la carne dagli uomini, ma non nel modo in cui la prendono gli uomini. Egli, che ha il Padre nel cielo, scelse una madre in terra: in cielo è nato senza madre, in terra è nato senza padre. La vita ha accettato la morte, affinché la vita uccidesse la morte. Dunque «chi crede in me - dice - ha la vita eterna»; non la vita che appare manifesta, ma quella che sta nascosta. Perché la vita eterna, cioè il Verbo, «in principio era presso Dio, ed era Dio il Verbo, e la vita era la luce degli uomini».

       Lui che è vita eterna, ha dato la vita eterna alla carne che aveva assunto. È venuto per morire e nel terzo giorno è risuscitato. Tra il Verbo che accetta di farsi carne, e la carne che risuscita, la morte è annientata...

       "Io sono il pane vivo, io che sono disceso dal cielo" (Jn 6,51). Cioè sono vivo perché discendo dal cielo. Anche la manna era discesa dal cielo: ma la manna era un simbolo, questo pane è la verità. "Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo ()".

       Come la carne, cioè gli uomini, potevano comprendere il Signore che dava al pane il nome di carne? Egli chiamava carne ciò che la carne non può comprendere, e tanto meno lo comprende in quanto chiama il pane carne. Per questo essi inorridirono, e dissero che era troppo, e che non era possibile. «È la mia carne - disse -per la vita del mondo».

       I fedeli conosceranno il corpo di Cristo, se non trascureranno di essere essi stessi il corpo di Cristo. Che divengano il corpo di Cristo, se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Solo il corpo di Cristo vive del suo Spirito. Cercate di capire, fratelli, quanto ho detto. Tu sei un uomo, hai lo spirito e hai il corpo. Chiamo spirito ciò che è chiamato anima, grazie alla quale l’uomo è uomo: infatti l’uomo consta di anima e di corpo. Hai dunque uno spirito invisibile, mentre il corpo è visibile. Dimmi: è il tuo spirito che vive del tuo corpo, o il tuo corpo che vive del tuo spirito? Mi rispondano coloro che vivono (e chi non può rispondere, io non so se egli vive); è il corpo che vive del mio spirito. Tu vuoi vivere dello Spirito di Cristo? Sii nel corpo di Cristo. Forse che - obietti - il mio corpo vive del tuo spirito? Il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. Questo ci dice l’apostolo Paolo quando ci spiega la natura di questo pane: "Un solo pane, un solo corpo siamo noi, anche se siamo molti" (1Co 10,17).

       Oh, grande mistero d’amore! grande simbolo di unità! grande legame di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, e ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri nel corpo, e parteciperà alla vita. Non fugga la unione con gli altri membri, non sia un membro corrotto che merita di essere tagliato, non sia un membro difforme di cui il corpo debba vergognarsi, sia bello, sia composto, sia sano, si unisca al corpo e viva di Dio e per Dio: si affaticherà sulla terra, ma per regnare, dopo, in cielo.

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