martedì 30 ottobre 2012

Solennità di tutti i Santi, Commemorazione dei defunti e Domenica XXXI del Tempo Ordinario – Anno B –

Riflessioni per tre feste:
1 novembre 2012, Solennità di tutti i Santi, Ap 7,2-4.9-14; Salmo 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12  
2 novembre 2012, Commemorazione dei defunti,
4 novembre 2012, Domenica XXXI del Tempo Ordinario – Anno B –
Rito Romano
Dt 6,2-6 - Sal 17(18) - Eb 7,23-28 - Mc 12,28b-34 
Alla fine della vita saremo giudicati sull'amore (San Giovanni della Croce)
Rito Ambrosiano
II Domenica dopo la Dedicazione del Duomo
Is 56,3-7; Sal 23; Ef 2,11-22; Lc 14,1a.15-24
Il Signore si rivela a chi lo ama.

A - LA FESTA DI TUTTI I SANTI.
1) La Ognissanti, festa della felicità.
Le letture di questa festa ci aiutano a capire chi è veramente il cristiano. Cristiano è colui che come Cristo vive le beatitudini da Lui pronunciate nel gran discorso della montagna (Vangelo). Cristiano è chi porta il sigillo di Dio sulla fronte e indossa la bianca veste lavata nel sangue dell'Agnello (prima lettura). Cristiano è colui che è stato fatto figlio di Dio e vive con l'ardente speranza dell'incontro definitivo con il Padre (seconda lettura).

Penso sia giusto leggere o ascoltare le Beatitudini come autoritratto di Gesù e come indicazioni autorevoli per poter far parte di questo ritratto di una Persona felice che porta la felice notizia che Dio è presente tra noi e in noi.
“Beati...” cioè “Felici”; è la nostra vocazione; una vocazione che, sicuramente abbiamo visto realizzata in tante persone, che hanno fatto parte della nostra vita, della nostra piccola storia personale, o che sono ancora presenti in essa: persone che ci mostrano concretamente la via da percorrere, persone che ci incoraggiano e ci aiutano, con la loro testimonianza, a camminare sulla via di una santità quotidiana, seria e generosa.

2) Perché una festa di Ognissanti?
Per celebrare Dio, facendo memoria di uomini veri, che hanno accolto Dio pienamente nella loro vita. La festa di Ognissanti è un grandioso invito all’autenticità, è una presa di coscienza del mistero infinito della nostra vita: Dio è Amore, ci ama e siamo santi quando siamo radicati e fondati in questo vero Amore. Per fare memoria che “tutto è Grazia” e per rendere vera in ogni fedele la frase con la quale Bernanos termina il suo libro “Diario di un Curato di campagna”: “Ho una nostalgia sola, quella di non essere santo”.
Purtroppo oggi la parola “santo” sembra fuori moda, inadeguata all’oggi. Suona come un’eco di un mondo passato, lontano. Spesso viene usata in modo ironico, la parola santo viene usata per dire che uno è un ingenuo. Si preferisce l’espressione “buon uomo” per indicare che uno si dedica generosamente al bene comune, e “galantuomo” per dire che una persona è moralmente ineccepibile: un modello da imitare.
Per i cristiani il “modello” da imitare è il Santo, che non è solo un protettore a cui ricorrere in caso di bisogno. Un modello non solo di vita buona spesa per gli altri, ma di risposta all’amore di Dio. E’ un modello di uomo vero, autentico che aderisce a Cristo e con Cristo diventa pietra angolare per il mondo intero.
I santi non sono una categoria particolare di uomini, separati dagli altri da una grata e guardati da noi spettatori, che li osserviamo dal basso e dal di fuori. Essi mostrano con la loro vita che il programma dell’amore, che Gesù sviluppa nel Discorso della Montagna in cui enuncia pure le Beatitudini, è di una semplicità e chiarezza travolgente.


3) Come diventare santi?
Rispondo dando quattro suggerimenti.
Prima di tutto, domandandolo umilmente e quotidianamente al Signore. In secondo luogo, chiedendo al buon Dio la grazie di credere alle Beatitudini e di praticarle. Terzo, facendo nostra la frase di Paul Claudel nell’ “Annuncio a Maria” : “Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più alto”. Infine “contemplare il volto dei Santi e trovare conforto nei loro discorsi”, e capiremo che “tutto è grazia”. E’ una chiamata a riscoprire che noi siamo autentici, veri, che noi raggiungiamo il perfetto compimento della nostra vocazione di uomini quando entriamo in un dialogo d’amore in cui ci si “perde” in Dio, facendo la sua volontà cioè realizzando il suo amore.
Santa Teresa del Bambin Gesù (morta a 24 anni) ha mostrato che essere santi, non è il risultato di uno sforzo dell’uomo, ma un dono di Dio da condividere. Questa Santa Suora di Lisieux è universalmente conosciuta come la Santa che ha insegnato al mondo la "Piccola via dell’infanzia spirituale" e ha parlato spesso della necessità di "farsi piccoli davanti a Dio" e di aver trovato "una via tutta dritta, molto breve, una piccola via tutta nuova" per andare in cielo.

B) LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I MORTI
1) Ricordare i nostri morti anche come maestri.
La santità non è una anormalità, essa è la norma. La santità non è una connotazione morale, ma il frutto della grazia di Dio nella persona umana e nella Chiesa. Ma se i santi sono modelli e maestri di vita cristiani, non va dimenticato che anche i morti lo sono. Che senso avrebbe andare al cimitero per visitare le tombe dei nostri defunti, se non credessimo nella Risurrezione e se non coltivassimo la fede nella risurrezione nostra ed dei nostri cari, che ci hanno preceduto nella vita e nella fede?
Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, non grande paese della mia diocesi di Cremona, diceva che il cimitero può essere «la prima chiesa del villaggio, cioè una scuola, una casa di giustizia e una casa di riparazione. Se anche tacessero le campane sul campanile, se la chiesa domani non fosse più e il prete non potesse più parlare, finché rimarrà il cimitero in un paese, Dio avrà il suo profeta e la religione i suoi preti. Perché i morti sono i profeti e gli angeli di Dio, i quali gridano a noi: fratelli la vita non è qui, ma lassù».
Rechiamoci dunque al Cimitero non per commemorare i defunti come ombre, ma come persone che trovandosi al cospetto di Dio ci possono fare capire la sua parola d’amore, di Padre che tutti accoglie.
2) La preghiera santifica.
E preghiamo per i nostri morti. Anche S. Agostino sottolinea la grande importanza delle preghiere per i defunti dicendo: "Una lacrima per i defunti evapora, un fiore sulla tomba appassisce, una preghiera, invece, arriva fino al cuore dell’Altissimo". E stiamo sereni perché “non si perdono mai coloro che amiamo, perché possiamo amarli in Colui che non si può perdere” (Sant'Agostino).
Ricordiamo i defunti soprattutto con la Santa Messa, perché i morti sono santificati come i vivi dai doni dell’altare. A questo riguardo Nicola Cabasilas scrisse “Questo divino e sacro rito della Messa risulta doppiamente santificante. In primo luogo per l’intercessione. Infatti i doni offerti, per il solo fatto di essere offerti, santificano coloro che li offrono e coloro per i quali sono offerti e rendono misericordioso Dio nei loro riguardi. In secondo luogo santificano per mezzo della Comunione, poiché sono un vero cibo ed una vera bevanda, secondo la parola del Signore.
Di queste due maniere la prima è comune ai vivi ed ai morti, poiché il sacrificio si offre per entrambe le categorie. Il secondo modo vale per i soli vivi, poiché i morti non possono né mangiare né bere. Che dunque? Per questa ragione i defunti non beneficeranno di questa santificazione e sono meno avvantaggiati dei vivi? Per nulla. Poiché il Cristo si comunica a loro nel modo che egli sa” (Da “Spiegazione della Divina Liturgia”, cap. XLII).

C) XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno – 4 novembre 2012.

1) Il comando dell’Amore illumina il cuore e la mente.
La liturgia del 1° e del 2 novembre ci insegna che se crediamo all’Amore eterno di Dio, possiamo comprendere che Cielo e Terra sono aperti uno sull’altro. Il Vangelo di oggi ci insegna che Cristo ci comanda un amore aperto verso il cielo e verso la terra, un amore che si fa luce ai nostri passi.
All'interrogativo dello scriba «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». (Mc 12,28), Gesù risponde citando due testi che ricorrono nella meditazione di Israele: un passo del Deuteronomio («Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua forza»), e un passo del Levitico («Amerai il tuo prossimo come te stesso»). I doveri dell'uomo sono certamente molti, ma Gesù invita l'uomo a non smarrirsi nel labirinto dei precetti: l'essenza della volontà di Dio è semplice e chiara: amare Dio e gli uomini.
È giusto che la legge si occupi dei molti e svariati casi della vita, a patto però che non perda di vista quel centro, che dà vita e slancio a tutta l'impalcatura. Questo centro è l'amore. 
Gesù risponde allo scriba che il primo dei comandamenti non è uno solo, ma due, però strettamente congiunti, come due facce della stessa realtà. È nella capacità di mantenere uniti i due amori - l'amore a Dio e l'amore al prossimo - la misura della vera fede e della genialità cristiana.
C'è chi per amare Dio si estranea dagli uomini, e c'è chi per lottare a fianco degli uomini dimentica Dio.
A quale Dio ci riferiamo, se diciamo di amarLo e trascuriamo il prossimo, non avendo cura dei nostri fratelli e sorelle in umanità? Non certo al Dio di Gesù Cristo. E se diciamo di amare il prossimo e di essere al suo servizio, ma poi rifiutiamo di amare l'unico Signore, allora – ci insegna la Bibbia - cadiamo facilmente in potere degli idoli.
Senza dire - e questo è, in un certo senso, ancora più grave - che proprio mentre vogliamo aiutare l'uomo ad essere più uomo, rischiamo di allontanarlo dal suo bisogno più profondo, dalla sua ricerca più essenziale che è - appunto - la ricerca di Dio. 
L'evangelista Marco riporta alcune parole che invece Matteo e Luca tralasciano: «Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è l'unico Signore». Dio è l'unico Signore, Lui solo è da adorare. Il prossimo è da amare, ma non da adorare. La dedizione al prossimo non esaurisce la sete di amore dell'uomo. È l'apertura a Dio che conduce a compimento l'apertura al prossimo. È Dio infatti il punto a cui il nostro essere tende, del quale abbiamo un'insopprimibile nostalgia, come il seme tende con tutto se stesso a uscire dalla terra. E’ questo l’insegnamento che ci viene anche dal Vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana, il cui tema principale è che “Dio si rivela a chi lo ama”.
In conclusione.
A questo punto sorge spontanea la domanda come acquisire per noi e accrescere in noi la carità di Dio?
Per rispondere mi servo di San Tommaso d’Aquino, il quale insegna che
a) per acquisire la carità, dono di Dio occorre:
  1. l’ascolto diligente della Parola di Dio,
  2. il costante pensiero di cose buone,
b) per accrescere in noi la carità è necessario:
  1. il distacco dalle cose terrene (che implica almeno la separazione del cuore dei beni materiali),
  2. ferma pazienza nelle avversità.

Queste 3 feste celebrano la Carità, che santifica, che vivifica, che illumina il cammino nostro da qui all’eternità.



Queste tre feste ci richiamano la dimensione escatologica della Chiesa, dimensione che è particolarmente vissuta nell’Ordo Virginum, di cui il Beato Giovanni Paolo II ha detto: “È motivo di gioia e di speranza vedere che torna oggi a fiorire l'antico Ordine delle vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano, pur restando nel mondo. Da sole o associate, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l'amore per Cristo Sposo.” (Esortazione Ap. Post-Sinodale, Vita consacrata, n. 7, 25 marzo 1996).
Le Vergini consacrate hanno una spiritualità escatologica, perché la loro vita tende alla visione di Dio e loro sono chiamate a vivere e testimoniare in modo particolare un’esistenza che deve sempre essere ordinata alla realtà ultima e definitiva, cioè escatologica.

Sintetico commento etimologico
Come lo evidenzia G. Kittel nel Grande Lessico del Nuovo Testamento, III, 995-1000, la parola eschatos (ultimo), nelle sue differenti forme (aggettivo, sostantivo, avverbio) è varie volte usata nel Nuovo Testamento per indicare la definitività della salvezza in Cristo, nella tensione “presente-futuro”.
Il termine “escatologia” ha differenti sfumature, che lasciano intravedere l’insieme dei significati che la parola ha: dal significato classico di escatologia come discorso sulle realtà ultime a quello di discorso sul futuro della storia aperta all’uomo da Dio., a quella dell’escatologia come definitività alla riflessione teologica sulla Speranza.
Nelle “ultime cose” – Novissima, i Novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso – si ha la conclusione della vita dell’uomo nuovo, salvato da Cristo, e la sua ragione d’essere.

venerdì 26 ottobre 2012

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 28 ottobre 2012

Rito Romano
Ger 31,7-9; Sal 125 (126); Eb 5,1-6; Mc 10,46-52
La fede è il principio, la carità il compimento

Rito Ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione
At 8,26-39; Sal 65; 1Tm 2,1-5; Mc 16,14b-20
La salvezza del Signore è per tutti i popoli

1) Bartimeo, un cieco salvato, non solo guarito.
Il Vangelo di oggi è preparato dalla prima lettura tratta dal libro della consolazione di Geremia: sono pagine pervase da una speranza profonda. Dio annuncia al profeta ciò che sembra impossibile al cuore umano: il popolo in esilio potrà ritornare sui monti di Samaria. Ecco li riconduco dal paese del settentrione e li raduno all'estremità della terra;
fra di essi sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente;
ritorneranno qui in gran folla (Ger. 31,8). E’ Dio che agisce in prima persona, è Dio che guida, che conduce. Per assicurare che è opera Sua, Dio specifica che in questo popolo di salvati non spiccano i potenti e i nobili, ma piuttosto i sofferenti, (i ciechi, gli storpi), i deboli e coloro che, nella loro semplicità, racchiudono in sé il futuro del popolo: le donne incinte e le partorienti.
Nel brano evangelico poi ci propone l’esperienza del cieco Bartimeo, che quando “sente” Gesù, gli grida “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” e, essendo cieco, salta a tentoni nel buio verso Cristo gettando anche il poco che aveva: il mantello. E passò dalla cecità alla vista, quella vista grandiosa che è la fede nell’uomo (Figlio di Davide) in Gesù Cristo, Figlio di Dio salvatore.
Anche oggi passa Gesù di Nazareth per nostre strade di non vedenti. Ciechi siamo e, se non indifferenti alla realtà di Dio, distratti e disabituati a porre le stesse domande di senso e di destino, presi come siamo dalla corsa della vita. 
Eppure sentiamo che qualcosa ci manca: se la scienza e la tecnica ci hanno reso più comoda la vita, non le hanno però dato il significato, né hanno risolto l'interrogativo sul mistero e sul nostro futuro. Siamo come ciechi che "a tentoni nel buio" vogliono vederci chiaro, scavalcare i limiti del proprio orizzonte troppo piccolo e soffocante, aprirsi alla dimensione del divino che sentiamo in qualche misura connaturato a noi stessi da sempre.
Il cieco Bartimeo non è stato solo guarito, è stato salvato grazie alla sua fede. La fede fa camminare l'anima, anzi le fa fare passi da gigante: quanta strada ha fatto l'anima di Bartimeo! Grazie alla sua fede ha ottenuto addirittura la guarigione del corpo! E quanta strada farebbe la nostra anima se avessimo più fede: giungerebbe fino al cuore di Dio: e varcherebbe la soglia di ciò che è umanamente irraggiungibile. Ed è per questo che Dio si è incarnato, si è fatto prossimo all’intera umanità.

2) Il miracolo dei miracoli: Dio è nostro prossimo.
Cristo è l’Emmanuele, il Dio con noi, che ci da occhi per vedere Dio e un cuore per amarLo. Ecco allora che possiamo guardare al vedente Bartimeo come modello di credente. Il vangelo odierno di San Marco non vuole tanto raccontarci un miracolo, quanto parlarci di un cammino di fede che nasce dall'ascolto e, passando per il riconoscimento della propria infermità e impossibilità di farcela da soli, chiede pietà. Ma c'è di più: il neo-vedente risponde ad una chiamata lasciando d’impeto tutte le sue sicurezze (il mantello), per incontrare il Signore e, poi, seguirlo per le strade della carità missionaria. Travolto dalla pietà che aveva implorato, colmo della carità di Dio che si era fatto a lui prossimo, Bartimeo si mette al seguito di Cristo.
Con la vista e la luce Bartimeo aveva ricevuto Cristo, “per conoscere a un tempo Dio e l'uomo" (Clemente d'Alessandria, Esortazione ai pagani, 11) e gli è ovvio seguire Gesù "sulla strada" della passione, morte e resurrezione a Gerusalemme. 
Bartimeo rappresenta in questo contesto la "creazione che soffre e geme per le doglie del parto" (Rm 8) e che nel suo lamento produce un urlo di dolore che sale a Dio perché l'ascolti. Il "conoscere a un tempo Dio e l'uomo" di Clemente alessandrino sta così a ricordarci che è proprio dell'uomo implorare la guarigione, la nascita dell'uomo nuovo divinizzato dallo Spirito e dunque ritenere il pellegrinaggio terreno necessario a tal fine, mentre è proprio di Dio, il più prossimo di ogni nostro prossimo, ascoltare il gemito che gli proviene dalla più perfetta delle sue creature che necessita della grazia per portare a compimento il suo destino.

3) Un destino di amore.
Nella misura in cui noi guarderemo a Cristo, e affascinati Lo seguiremo sul suo cammino, ci trasformeremo in Lui. Saremo dono di amore: dono di amore a Dio, dono di amore agli altri. Ecco perché il matrimonio va celebrato davanti all'altare, ecco perché il matrimonio è un Sacramento: perché impegna l'uomo e la donna all'amore e questo amore vero diventa santo quando viene elevato nel cuore di Dio, che se ne fa anche il custode e il garante.
L'amore può nascere da una passione sensibile, da un istinto naturale (così l'amore di un ragazzo verso una ragazza), ma non sarà mai un amore che assicura la fedeltà, che assicura il dono di sé nella pazienza, nell'umiltà, che purifica ed eleva l’amore umano. Il dono vero di sé non è possibile, se Dio non vive nel cuore dell'uomo. 
Per questo il matrimonio deve essere un Sacramento che ci assicura la grazia; se non è un Sacramento, nell'unione dell'uomo con la donna si vive soltanto l'egoismo, e allora l'unione fatalmente si spezza. Solo il cuore di Dio è il nido della fedeltà.
Naturalmente anche le persone consacrate sono chiamate all’amore, sono destinate all’amore “sponsale” di Dio. Non sono handicappate dell’amore, anzi come disse Benedetto XVI alle partecipanti al Congresso dell’ "ORDO VIRGINUM", il 15 maggio 2008 : “Il vostro ideale, in se stesso veramente alto, non esige tuttavia alcun particolare cambiamento esteriore. Normalmente ciascuna consacrata rimane nel proprio contesto di vita. È una via che sembra priva delle caratteristiche specifiche della vita religiosa, soprattutto dell’obbedienza. Ma per voi l’amore si fa sequela: il vostro carisma comporta una donazione totale a Cristo, una assimilazione allo Sposo che richiede implicitamente l’osservanza dei consigli evangelici, per custodire integra la fedeltà a Lui (cfr RCV, 47)”.

4) Un amore di verità per tutti.
Il brano del Vangelo di San Marco proposto oggi nella liturgia ambrosiana consente di ribadire l’importanza, anzi la necessità dell’essere missionari, ossia portatori di Cristo e della sua amorosa verità a tutto il mondo. La caratteristica specifica dell’invio missionario in Mc 16,9-20 sta nel fatto che viene riportata una serie di segni che accompagneranno coloro che credono: tra essi i più importanti sono quelli di scacciare i demoni e guarire i malati. San Marco in questo brano sottolinea che effettivamente è avvenuto così. Questa sottolineatura mostra chiaramente che la salvezza annunziata dai missionari si manifesta fin d’ora in un cambiamento che riguarda sia la società (espulsione dei demoni) che l’individuo (guarigione). È proprio questa trasformazione che testimonia l’attendibilità del vangelo e in ultima analisi garantisce la presenza in questo mondo del Risorto, il quale dimostra così di essere diventato veramente partecipe del potere stesso di Dio.


Tre consigli pratici:
1 – Pregare davanti al Crocifisso.
Se preghiamo frequentemente davanti a Cristo in Croce, con gli occhi fissi sul suo costato trafitto, faremo l’esperienza della gioia di essere amati, del desiderio di amare e di essere strumento di misericordia e riconciliazione (Cfr Benedetto XVI, Angelus della Giornata Mondiale Missionaria 2006).
2 - Meditiamo spesso questo racconto di Bartimeo: ci aiuterà ad andare oltre le difficoltà. Tutti noi, nella vita, che tante volte si presenta come un difficile cammino su una strada che non conosciamo, siamo messi alla prova se abbiamo o no la fede-fiducia di Bartimeo. 
Ci sono per tutti momenti o fatti in cui pare che Dio si nasconda fino a farci dubitare della sua esistenza. Sono quei momenti che i santi, tutti, a cominciare da S. Teresina del Bambino Gesù, chiamano 'la notte dell'anima'. 
Non è che il Padre non sia presente, ma semplicemente ci mette alla prova. 
Ecco perché Bartimeo, cieco, si presenta oggi a noi come esempio di fede assoluta, cieca, e commuove Gesù. 
Non dobbiamo avere paura della cecità di certi momenti, ma conservare la serenità interiore, sicuri che Dio ci è vicino come non mai, attendendo la nostra domanda.


3 – Con Sant’Agostino preghiamo spesso così:
"Signore Gesù, conoscermi conoscerTi,
non desidero null'altro da Te. 

Odiarmi ed amarTi: agire solo per amor tuo, 
abbassarmi per farTi grande, non avere altri che Te nella mente. 

Morire a me stesso per vivere di Te.
Tutto ricevere da Te. 

Rinunciare a me stesso per seguirTi, desiderare di accompagnarTi sempre.
Fuggire da me stesso, rifugiarmi in Te per essere da Te difeso. 

Temere me e temerTi per essere fra i tuoi eletti. 

Diffidare di me stesso, confidare solo in Te, voler obbedire a causa tua: 
non attaccarmi a null'altro che a Te, essere povero per Te.
Guardami e Ti amerò, chiamami perché Ti veda e goda di Te per sempre".

venerdì 19 ottobre 2012

XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 21 ottobre 2012

Rito Romano
Is. 53,10-11; Sal 32; Eb. 4,14 – 16; Mc. 10,35-45
Il servizio dell’amore.

Rito Ambrosiano
Dedicazione del Duomo di Milano
Is 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a opp. Ap 21,9a.c-27; Sal 67; 1Cor 3,9-17; Gv 10, 22-30
Dare gloria a Dio nel suo santuario.

1) Una prospettiva nuova: il servizio come carriera.
Oggi, San Marco nel Vangelo ci presenta i discepoli Giacomo e Giovanni che domandano a Gesù di concedere loro di poter sedere vicino a lui uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel suo Regno di Gloria. Gesù risponde loro preannunciando la sua passione e morte, e fa loro una domanda: “Potete voi bere il calice che io devo bere ed essere battezzati come io sono battezzato?” Alla risposta affermativa dei discepoli Gesù replica che un posto vicino a lui non può concederlo, perché è destinato a coloro per i quali è stato creato. Poi, sentito che fra i dieci restanti discepoli c'era un certo malcontento, disse a tutti loro che colui, che vuole essere il primo, deve essere l'ultimo. 

Il brano evangelico di oggi (Mc 10,35-45) non fa un discorso nuovo. Riprende parole che Gesù ha già detto tempo prima: «Chi vuole essere grande si faccia servo di tutti»: cfr. Mc. 9,35 – (Si veda il commento di domenica 23 settembre 2012), che però i discepoli continuano a non comprendere.
Per far meglio comprendere il suo pensiero ai discepoli, Gesù si serve di due paragoni, uno negativo e uno positivo. Li invita a non esercitare la loro autorità come fanno i principi del mondo (questo è il paragone negativo), poi continua chiedendo loro di comportarsi come Lui, che è «il Figlio dell'uomo (ecco il paragone positivo) il quale non è venuto a farsi servire, ma a servire e dare la propria vita in riscatto per le moltitudini».

2) Servizio come autorità perché servizio d’amore.
Servire non vuol dire semplicemente e solamente fare delle cose a chi ce le chiede o perché pagati o perché obbligati, la parola latina “servus” poi vuol dire “schiavo”. Servire vuol dire essere utili in modo gratuito, senza calcolo, disinteressatamente. Servire significa organizzare la propria intera esistenza in modo da prendersi a carico l’altro fino al completo dono di sé. Servire con autorità vuol dire mettersi a disposizione della persona amata perché cresca (autorità viene dal latino ‘augere’ che vuol dire far crescere). E’ un servizio d’amore che opera «in riscatto» della moltitudine, come fanno, in modo meraviglioso i missionari.
L'espressione «in riscatto» non va intesa anzitutto come se significasse «per saldare il debito», bensì come «solidale con» o «al posto di»: cioè l'idea prevalente non è quella del debito, che deve assolutamente essere pagato, costi quello che costi, bensì l'idea della solidarietà che intercorre tra il Figlio dell'uomo e le moltitudini (Gesù, in altre parole, è il Fratello maggiore, buono –nulla impedisce di pensare con Benedetto XVI che ci sia un terzo figlio oltre ai due, di cui parla la parabola del Padre Misericordioso- che si sente coinvolto e prende sulle proprie spalle la situazione del fratello minore, prodigo). Il Figlio di Dio e dell'uomo è venuto per vivere questa solidarietà, divenendo in tal modo la trasparenza visibile, toccabile con mano, dell'amore di Dio e della sua alleanza. E come mi diceva una volta un missionario: “La più grande solidarietà, la più grande carità che noi possiamo fare agli altri è di annunciare loro che Cristo è risorto” e cambia la vita, perché l’amore di Cristo risorto non è “qualcosa di individualistico, unicamente spirituale, riguarda la carne, riguarda il mondo e deve trasformarlo” (Benedetto XVI, 28 giugno 2007). Il primato della carità e della verità che il Papa ha è soprattutto un essere il primo nell’amore di Cristo (“Pietro, mi ami più degli altri”. “Sì, Signore”. “Pasci le mie pecore”). Pascere il gregge di Cristo e amare il Signore sono la stessa cosa. E’ l’amore di Cristo che guida le pecore sulla strada buona e vera. “L’essenza del Cristianesimo è Cristo, non una dottrina, ma una persona, ed evangelizzare è condurre all’amicizia con Cristo, ad una comunione di amore con il Signore, che è vera luce della nostra vita” (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, p. 132).
La questione, quindi, non è il desiderio di grandezza, ma la domanda di vera grandezza e di come ottenerla. 
Non è un male voler esser i primi, basta che diventiamo primi a perdonare, primi ad accorgerci di chi sta male, primi nel dare una mano a chi ne ha bisogno. Perciò se pensiamo che la grandezza venga dal potere che schiaccia il prossimo, allora siamo fuori dal Vangelo e siamo opposti alla logica di Gesù. Se invece cerchiamo la via della grandezza e della realizzazione di noi stessi nell’amore a Cristo, nel servizio del prossimo amandolo anche con il dono della vita, allora siamo nella scia di Gesù, il quale ha insegnato questa strada con le parole e con l'esempio. E questo non ci mette accanto a Gesù, alla sua destra o sua sinistra, ma ci mette "in" Gesù, ci fa essere come lui, ci fa essere lui, come dice San Paolo: “Non sono più io che vivo è Cristo che vive in me”. Non è facile servire ogni giorno, custodire germogli, vegliare sui primi passi della luce, benedire ciò che nasce. Il cuore è subito stanco. Non resta che lasciarsi abitare da lui e irradiare di vangelo. Basta dire come la Madonna: “Ecco la Serva del Signore. Avvenga di me secondo la tua Parola”.
3) Autorevolezza dell’amore, servizio della speranza.
Dio, attraverso l’annuncio dell’Angelo, rivelò il suo amore alla Vergine Maria. La Madre di Dio e di ciascuno di noi -grazie alla sua fede- non solo diede carne a questo amore, ma visse per esso e in esso. Si fece serva dell’amore, accogliendolo senza riserve, portandolo in sé e nelle case del mondo (si pensi a quando andò a visitare la cugina Elisabetta), lo accompagnò per le strade del mondo (si pensi alla fuga in Egitto ed alla Via Crucis). E, pur nelle avversità, fu lieta, perché aveva creduto alle parole dell’Angelo che le aveva detto “Non temere, tu porterai in te il Figlio dell’Altissimo”, non avere paura perché la tua vita è destinata a portare in sé la salvezza di Dio, la speranza della vita del mondo intero. Fu sempre lieta, la Madonna, perché credette al fatto di essere voluta bene. La gioia per Lei non era uno stato d’animo, un’emozione, era l’esperienza di appartenere all’Amore e di avere la missione di donarlo al mondo.
Se ci sforzeremo di immedesimarci con la memoria della Madonna, con la coscienza di questa giovane donna, che viveva la consapevolezza di portare il Destino buono per lei, per il suo popolo e per il mondo intero, saremo come lei missionari lieti del vangelo della gioia.
Preghiamo la Madonna di essere liberi e sinceri come quando lei ha detto “sì”, e diventeremo anche noi grandi di una grandezza vera, divina. Il Signore nel Vangelo di oggi e con l’esempio di Maria Vergine ci insegna che non dobbiamo forzare noi stessi a pensare a cose grandi, tanto meno a farle, perché diventiamo ridicoli nella nostra presuntuosità. Dobbiamo riconoscere e accettare la presenza di un Altro nella nostra vita e offrirla al mondo intero come ha fatto la Mamma di Gesù, testimone servizievole dell’amore.
Al n. 17 del Rituale della Consacrazione delle Vergini, la donna che si consacra fa suo il sì di Maria in questo modo: “Vuoi perseverare per tutta la tua vita nella tua decisione di verginità consacrata al servizio del Signore nella sua Chiesa?”, “Sì, lo voglio”. Vuoi seguire Cristo secondo il Vangelo in modo tale che la tua vita appaia come testimonianza di amore e segno del Regno che verrà?”. “Sì, voglio”. La consacrazione non è semplicemente una cerimonia, ripetendo preghiere prefabbricate. Ci si consacra non tanto per salvarsi, ma per salvare il mondo offrendosi a Dio perché faccia di noi semplici e umili strumenti della sua carità, secondo la sua Parola di Verità.

4) Il Tempio di Dio.
Oggi per la liturgia ambrosiana è la festa della Dedicazione del Duomo. Il che mi spinge ad usare le parole del salmo 121(122) che al versetto 1 proclama “Quale gioia, quando mi dissero: ‘Andremo alla Casa del Signore’”. In effetti, è fonte di gioia il saperci attesi nella Casa del Padre, dove riceviamo la Sua pace. Pace che al versetto 8 è invocata: “Per i miei fratelli e i miei amici io dirò su te : ‘Su di te sia pace!’”, e al versetto 9 è unita al bene: “Per la casa del Signore nostro Dio chiederò per te il bene”. Andiamo alla Casa di Dio, alla dimora della Carità e avremo pace e bene, gioia e amore.
Dio ci ha rivelato il suo Amore, la Madonna ha dato carne a questo Amore, divenendone l’umile serva. Per credere a questo amore e dargli carne abbiamo bisogno di un luogo, che è la Chiesa. Il tempio della potenza umana è il lavoro, il tempio di Dio è il credente, pietra viva impiegata nella costruzione dell’edificio spirituale (cfr 1 Pt 2,5).
In un edificio una pietra sostiene l’altra, perché si mette una pietra sopra l’altra e chi sostiene un altro è a sua volta sostenuto da un altro. Così, proprio così nella santa Chiesa ciascuno sostiene ed è sostenuto. I più vicini si sostengono a vicenda, e così si innalza l’edificio della carità”(San Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, 2,1,5), che è vissuta, celebrata, edificata nel Duomo e in ogni chiesa del mondo.
Nelle chiese, cattedrali o parrocchiali che siano, si ascolta Dio, si loda Dio, si contempla Dio e si diventa “teologi” non tanto perché si parla di Dio, ma perché ciascuno di noi diventa una parola di Dio, una pietra vivente della Chiesa, Casa di Dio, dove la fede è imparata, celebrata e praticata in una trama di fraternità e di condivisione. “Il primo amore è desiderare la verità per chi si ama” (Luigi Giussani) e fargliela incontrare nella Chiesa.


Consigli pratici:
  1. Recitare l’Angelus Domini al mattino, per ricordare il sì di Maria Vergine alla Risurrezione, a mezzogiorno per dire di sì a Cristo in Croce, alla sera per far nascere in noi Cristo, come Betlemme.
  2. Meditare l’inno di dedicazione della Chiesa “Christe cunctorum”, magari con l’aiuto del commento fatto da Mons. Luigi Giussani, per es., in Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, Milano 1995, pp. 128.

venerdì 12 ottobre 2012

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 14 ottobre 2012.

Rito romano
Sap. 7, 7-11; Sal 89; Eb. 4,12-13; Mc. 10,17-30
Seguire il Signore è il migliore affare della vita.

Rito ambrosiano
VII Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore
Is 43,10-21; Sal 120; 1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43
La Parola di Dio è il Seme buono da accogliere con amore.


1) La povertà è un investimento.
Domenica scorsa abbiamo riflettuto sulla creazione dell’uomo e della donna. Dio li creò maschio e femmina, li creò l’uno per l’altra ed uguali in dignità, perché formassero nel mondo la famiglia a immagine della Trinità. “Il matrimonio, costituisce in se stesso un Vangelo, una Buona Notizia per il mondo di oggi, in particolare per il mondo scristianizzato. L’unione dell’uomo e della donna, il loro diventare «un’unica carne» nella carità, nell’amore fecondo e indissolubile, è segno che parla di Dio con forza, con un’eloquenza che ai nostri giorni è diventata maggiore” (Benedetto XVI, 7 ottobre 2012). Poi nella seconda parte del vangelo di domenica scorsa abbiamo visto l’importanza che Gesù dà ai bambini, che con la loro semplicità meritano di entrare nel Regno dei Cieli.
Oggi, il Vangelo di San Marco ci presenta un giovane che corre incontro a Gesù e, chiamandolo "Maestro buono", gli chiede cosa deve fare per avere la vita eterna, poiché sempre, fin dall’adolescenza, ha osservato i comandamenti.
Gesù lo guarda e lo "ama" e gli dice che gli manca una cosa sola per avere la vita eterna, la vita vera: "Va', vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi".

 Per qual motivo questo giovane uomo respinge le parole di Colui che pochi istanti prima aveva chiamato “Maestro buono”? Perché il giovane aveva molti beni.
L’invito di Gesù a lasciare tutto e la severità del suo giudizio sulle ricchezze suscitano anche nei suoi discepoli paura e perplessità: «E chi mai si può salvare?». In effetti, la risposta che Gesù dà al giovane ricco salta -come spesso Lui fa - i passaggi intermedi e va al nocciolo della questione: “Solo affidandosi completamente a Dio, abbandonandosi a lui totalmente, possiamo entrare nel suo Regno”.
I discepoli hanno -in un certo senso- ragione: se questa è l’esigenza del Regno, non è possibile all'uomo salvarsi. Essi commettono l'errore di considerare il problema da una prospettiva sbagliata: la prospettiva della conquista anziché del dono, dell'uomo abbandonato a se stesso anziché dell'uomo animato dallo Spirito di Dio. Non c'è modo di salvarsi, ma c'è modo di essere salvati. Se così, tutto si riduce a una questione di fede. I grandi santi che hanno abbandonato tutto per il Regno non erano più coraggiosi di noi: avevano più fede. 
Il discepolo ha un secondo interrogativo da porre: se lascio tutto, che cosa avrò? (10,28). L'interrogativo tradisce il timore che il distacco richiesto sia un prezzo troppo alto da pagare. La risposta di Gesù non potrebbe essere più netta, quasi una sfida: la vita eterna nel futuro e il centuplo nel tempo presente. Infatti, Gesù dice: “Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (Mc 10,18).
Forse se Cristo avesse detto al ricco: “Dammi i tuoi averi”, Glieli avrebbe consegnati. Sarebbe stato in investimento sensato. Ma credere che dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati era fare un prestito a Dio non è così logicamente evidente.
Sant’Agostino insegna: “Nessuno sia esitante a dare l’elemosina ai poveri, nessuno creda che la riceva colui del quale vede la mano; la riceve Colui che ha comandato di darla. Non affermiamo ciò in base a un nostro sentimento o a una congettura umana; ascolta Colui che non solo ti esorta a farlo, ma ti firma anche la garanzia. Avevo fame - è detto - e mi avete dato da mangiare. Dopo l’enumerazione dei loro servizi [i giusti] chiederanno [al Signore]: Quando mai ti abbiamo visto affamato? ed egli risponderà: Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me” (Discorso 86, 3,3)
E' un problema di fede. Ma non solo di una fede che crede a ciò che Gesù insegna, ma all’amore che lui ci dona. Il problema è credere all’amore. Credera a Cristo, Amore incarnato, misericordia offerta, pace stabilmente donata. Cristo chiede di entrare in comunione con lui.
Il Salvatore, il Maestro buono insegna che la vita eterna consiste nella comunione con Dio e con i fratelli. 
Gesù propone all'uomo ricco la comunione, ma egli preferisce la solitudine. Cristo propone un tesoro di persone che vivono insieme per lodare Dio, per seguire Cristo, ma l’uomo ricco preferisce essere ricco di cose. Il Redentore propone se stesso: «segui me, la mia vita è sorgente di vita buona, bella e beata». Ma l'uomo segue la ricchezza, vuole l’avere, non l’essere, preferisce il buon senso a Cristo senso della vita.
L’uomo, ciascuno di noi fa molta fatica a capire che si può essere senza avere. Ma Gesù dice: “Tutto è possibile presso Dio”. L’amore infinito e appassionato di Dio è moltiplicare per cento quel poco che abbiamo e che Gli offriamo, quel nulla che siamo e riempirci la vita con il centuplo e l’eternità.
Gesù non ci chiede di vivere in povertà, ci chiede di vivere mettendo lui al primo posto nella nostra vita. Se al centro del nostro cuore mettiamo il Cristo, sarà facile amare e troveremo posto anche per tutti i nostri cari: non esisterà in noi l'egoismo. Le ricchezze di per sé non sono un male, altrimenti Gesù avrebbe lodato solo la povera vedova che aveva offerto nel Tempio ciò che le restava, e non anche Zaccheo che gli offriva metà dei suoi beni. Il male sta nell'accumulare per possedere senza condividere soprattutto con chi è meno fortunato di noi. 

Esistono poi anche coloro che pur non avendo ricchezze sono però ricchi di cultura e per questa loro caratteristica si sentono su di un piedistallo, un metro più su degli altri, si appagano del loro sapere e non riescono a creare la vera comunità.

Un esempio di come vivere la povertà ci viene dall’Ordo Virginum, le cui appartenenti professano la loro confessio laudis, nella quale esprimono la loro sequela a Cristo (accogliendo la croce) donando il loro quotidiano con le sue povertà per amore di Cristo Risorto. Con la verginità la Vergini consacrate sono chiamate a vivere anche la sobrietà di vita, la condivisione con i poveri e l’obbedienza, che vuol dire abbandono alla volontà divina e apertura alle esigenze della Chiesa universale e della Chiesa locale, la propria diocesi.

2) La fede nell’amore.
Tutta la vita cristiana è nel credere di essere amati, scrisse una volta il Card. Giacomo Biffi. E don Divo Barsotti aggiunse: “Noi dobbiamo cercare di comprendere come tutta la vita cristiana veramente ha il suo fondamento nella fede, e la fede è soltanto la fede nell'amore di Dio.
 Non lasciamoci turbare da nulla. Non permettiamo che il timore, l'angoscia debbano prendere il nostro cuore, debbano turbare il nostro spirito. Dio ci ama ed è con noi. Dio ci ama e non ci abbandona. Si tratta dunque di credere nell'amore.” Come? Vivendo nella gioia, perché chi vuol vivere la vita Cristiana, non può, senza rinunciare ad essere Cristiano, abbandonarsi alla tristezza e al timore, non può. Lo dice anche san Giovanni; la carità getta via, allontana da sé ogni timore, esige l'abbandono di tutto l'essere nostro in un Dio che è presente e ci ama! Questo dobbiamo vivere, soltanto questo. È una cosa semplice.” Sì! Avere fede nell’Amore è semplice, ma non vuol dire che sia facile, ma rende certamente felici.
Impariamo dalla parabola del Figlio prodigo, che per essere felice chiese i soldi dell’eredità al Padre. Li usò così male che si trovò a fare il custode di porci. Allora si ricordò della sua dignità di figlio e tornò con abiti e cuore di mendicante da suo Padre. Questi gli corse incontro. Abbracciò il figlio che, in ginocchio, aveva messo il suo capo sulle ginocchia paterne e, secondo me, ci fu questo dialogo: “Figlio mio, ti ho aspettato tanto e finalmente sei tornato!”. “Papà, come hai fatto ad aspettarmi, se io fuggivo da te?". "Dove tu fuggivi, io ero già là ad aspettarti!” E il figlio visse nella gioia di questa rinnovata esperienza di sentirsi amato.
In effetti il figlio prodigo ha creduto all’amore del Padre, e tornò a casa sua, dimora felice di vita beata. Se il figlio del Padre misericordioso non avesse creduto nell’amore di Chi gli aveva dato vita e soldi, non sarebbe tornato a casa e la sua vita sarebbe stata un’avventura infelice, come successe al giovane ricco che triste lasciò Cristo, perché non voleva lasciare le ricchezze che aveva.
Noi dobbiamo essere come ci insegna il vangelo ambrosiano di oggi che parla del seme buono di Dio e della zizzania del diavolo. Dobbiamo avere la massima fiducia nella verità della parola di Dio, nonostante la persistenza del male nel mondo. La chiesa non va immaginata come una comunità di perfetti separati dal mondo, ma di peccatori salvati nel mondo dalla misericordia di Dio, che è paziente nel dare a tutti la possibilità di tornare a casa, felici per sempre.

venerdì 5 ottobre 2012

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 7 ottobre 2012

Rito Romano
Gen 2, 18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16  
Amore di sposi e di bambini.

Rito Ambrosiano
VI Domenica dopo il Martirio di Giovanni il Precursore
Is 45,20-24a; Sal 64; Ef 2,5c-13; Mt 20,1-16
Mostraci, Signore, la tua misericordia

1) Domanda sincera o un tranello?
Nelle domeniche precedenti ci è stato proposto l’insegnamento di Gesù sul servizio, sull'accoglienza e sullo scandalo. Oggi abbiamo un'istruzione sul matrimonio e sui piccoli.
In effetti, nel Vangelo di oggi (Rito romano) ascoltiamo i farisei che fanno a Cristo una domanda all’apparenza giuridica, di fatto è un domanda-tranello, per spingere Gesù a schierarsi a favore di una delle varie interpretazioni della legge sul divorzio. Dunque gli chiedono: "E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?"
A questo riguardo va ricordato che la Torah, la legge mosaica, consentiva il divorzio in certi casi, ma le scuole rabbiniche non erano unanimi nello stabilire quali fossero le condizioni richieste per farlo: l'infedeltà coniugale era il fattore determinante e ammesso da tutti. Ma c'erano anche posizioni più radicali che non ritenevano legittima questa prassi e paragonavano il divorzio all'adulterio. I farisei comunque ammettevano il divorzio e il tranello teso a Gesù consisteva proprio nel volergli far dire un sì o un no. Se diceva sì, perdeva il favore del popolo o, perlomeno, gli risultava sgradito. Se diceva no, perdeva il favore dei potenti come era accaduto non molto tempo prima a Giovanni Battista con Erode.
Gesù non dà una risposta giuridica e, come tutte le altre volte in cui è coinvolto in un dibattito, Lui supera i termini angusti in cui gli uomini pongono il problema e va alla radice. Nel caso di oggi, Cristo non dice come deve essere interpretato di preciso il passo di Mosè, ma spiega quale è l'intenzione originaria e fondamentale di Dio. Non basta appellarsi alle tradizioni, bisogna valutarle in base a quella intenzione iniziale che le ha generate e che esse a modo loro e per il loro tempo (ma spesso anche pagando il tributo alla debolezza degli uomini e alla loro poca fede) hanno cercato di esprimere.
La prima lettura, presa dal libro della Genesi, mostra questa intenzione originaria del Creatore che ha fatto l'uomo e la donna uguali e complementari per accogliere l’amore, per essere icona dell’Amore: sempre nel libro della Genesi leggiamo: "Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza: maschio e femmina li creò".
Brano biblico che mi pare ben illuminato dal profeta Osea: “Così dice il Signore: Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d'Egitto. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore.” (Os 2,16-17b.21-22)
 
La fedeltà dell'uomo e della donna deriva dalla fedeltà di Dio, che non ritratta mai l'alleanza conclusa con i suoi una volta per sempre. 

Dio non ha pensato a uomini e donne fuori del comune, ma a persone come ciascuno di noi che solo con la sua grazia possono realizzare la fedeltà nel sacramento che hanno celebrato e che celebrano ancora ogni giorno.
 Insomma, la fedeltà ha il suo nido nel cuore di Dio.
Questo amore è amore nuziale. Una madre può anche amare e non chiedere amore, ma uno sposo non può amare se l’altra non ama. L’amore di uno sposo, l’amore di una ragazza che si dona a un altro, esige una risposta. L’amore nuziale è sempre un amore vicendevole che implica il dono dell’uno all’altro. Questo è l’amore fedele che Dio offre e chiede a ciascuno di noi: preti, suore, laici sposati e non, giovani o vecchi che siamo. Un amore che perdona e chiede di perdonare, per essere così l’icona della tenerezza di Dio. Un amore fecondo, che deve essere praticato castamente anche da chi ha fatto il voto di verginità. Infatti il voto di castità non vuol dire rispondere ad una vocazione di infecondità, di sterilità, ma di fare della vita consacrata la culla del Dio vivente, il quale poi rende padri e madri nello spirito. Non è una pura e semplice formalità ecclesiastica chiamare la suora o il prete: madre o padre. E ciò vale per tutti, non solo per Madre Teresa di Calcutta o per Padre Pio da Pietrelcina.
Rispondendo alla loro vocazione: La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro” (RCV, 30), le Vergini consacrate fanno in modo che la loro persona irradi sempre la dignità dell’essere sposa di Cristo, esprima la novità dell’esistenza cristiana e l’attesa serena della vita futura. Così, con la loro vita retta, possono essere stelle che orientano il cammino del mondo e si identificano con quella sposa che, insieme allo Spirito, invoca la venuta del Signore: “Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’ (Ap 22,17).

2) I bambini nel Vangelo.
Nella seconda parte del brano evangelico odierno vediamo che Gesù Cristo, dopo essere andato contro la mentalità corrente degli adulti, va contro la mentalità dei suoi apostoli, per i quali i bambini non sono importanti per la missione del Maestro. Eppure aveva già detto loro che occorre diventare come bambini (si veda la riflessione proposta per la XXV domenica – 23 settembre 2012). L'episodio di oggi mostra che gli apostoli non hanno ancora capito l’insegnamento che Gesù aveva dato in precedenza: «I discepoli sgridarono i bambini ... Gesù vedendo ciò, si indignò...». Con grande e rinnovata meraviglia dei discepoli, Gesù accoglie i bambini, “perde tempo con loro?!?!”. No, non perde tempo, continua coerentemente quello che cominciò a fare dalla nascita a Betlemme. In questo episodio Gesù è adulto ma ricorda che il giorno di Natale a Lui “bambino tutti gli possono parlare: qualche cosa tutti Gli dicono, perché quand'Egli nasce «nel mezzo della notte si fa un gran silenzio, e alla Parola onnipotente che discende dalle sue sedi regali» le povere voci create s'accostano e parlano.
Volete che non Gli parlino il bue, l'asino, le pecore del Presepio? E la paglia del suo giaciglio non Gli dirà nulla? E gli Angeli non volete che Gli portino il desiderio delle stelle e i sospiri della notte?
Capisco adesso perché l'Onnipotente si fa bambino e sta coi bambini: perché l'onnipotenza si veste della più grande impotenza, e chiede a tutti, ed ha bisogno di tutto, anche di una stalla abbandonata, del fiato di un asino, di un po' di paglia, di una taverna ...Capisco adesso perché il Signore entra nella taverna di Emmaus. La taverna, come il Presepio, è la casa dell'Accondiscendente, la scuola che confonde i savi e depone i potenti. Che strana maniera di confonderci e di deporci!
Che povera forza una forza che uccide! Mentre il Forte si veste di povera carne, una carne che ha freddo, che ha fame. Già piange, già sanguina questa povera carne di un Dio fatto bambino, di un Dio fatto pellegrino”(Primo Mazzolari, Tempo di Credere, pp. 194-195), che –fortunatamente- ha tempo per i bambini, sempre.
Gesù ci propone il bambino non solo e non tanto come modello di innocenza, ma come esemplare del povero, di colui che non conta, non ha potere, ricchezza, considerazione, di colui che è debole e indifeso. Ecco perché il bambino diventa qui l'emblema del discepolo, chiamato ad essere povero "in ispirito". Egli è cosciente della propria povertà e dipendenza da Dio a tutti i livelli. Si lascia amare, si lascia servire da Dio, accogliendo in tal modo il suo amore. Il suo sguardo non è rivolto a sé, ma a Dio, ed è capace - come la Vergine - di ammirarne le opere, che trova meravigliose, e di esaltarsi per la gratuità e la bellezza del suo amore.
Come suggerisce la liturgia ambrosiana di oggi, non ci resta che restare appesi a questo cardine dell’amore di Dio misericordioso, che ricompensa con vera giustizia tutti, compresi gli operai dell’ultima ora.