venerdì 22 febbraio 2013

La Carità trasfigura l’umanità.

II Domenica di Quaresima – Anno C - 24 febbraio 2013

Rito Romano
Gn 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
Il Vangelo della Trasfigurazione

Rito Ambrosiano
II Domenica di Quaresima della Samaritana
Dt 6a;11,18-28; Sal18; Gal 6,1-10; Gv 4,5-42



1) La via della Croce è parte della via della Luce.
Nel cammino verso la Pasqua, la liturgia romana della seconda domenica di quaresima ci fa salire sul monte Tabor, dove Cristo si trasfigurò davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi 3 apostoli ebbero il dono di contemplare Gesù “trasfigurato” nello splendore della sua divinità, per poi poter reggere la vista del Maestro “sfigurato” dalla Passione, condizione ineliminabile della Resurrezione del Redentore, il cui amore appassionato ricrea e redime.
Tuttavia, secondo me, Gesù non vuole solo preparare i suoi seguaci alla passione che Lo attende e che loro stessi dovranno subire. La trasfigurazione di Cristo rivela ciò che Lui è già: il Figlio di Dio, per indicare una delle qualità più importanti per un discepolo: l’ascolto. Dio che in persona attesta che Gesù Cristo è suo Figlio: “Questi è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto” E conclude dicendo: “Ascoltatelo” (Lc 9, 35-36). Perché? Perché il discepolo che ascolta Gesù è trasfigurato, chi ascolta Cristo diventa come Cristo. L’ascolto di Gesù fa vivere di Gesù, fa vivere la vita del Figlio: la nostra vita è trasformata, dall’ascolto della Parola, in vita di figli di Dio. Quindi è indispensabile ascoltarlo nella sua Parola, custodita nella Sacra Scrittura, ma è pure importante: “Ascoltarlo negli eventi stessi della nostra vita cercando di leggere in essi i messaggi della Provvidenza. Ascoltarlo, infine, nei fratelli, specialmente nei piccoli e nei poveri, in cui Gesù stesso domanda il nostro amore concreto. Ascoltare Cristo e ubbidire alla sua voce: è questa la via maestra, l'unica, che conduce alla pienezza della gioia e dell'amore” (Benedetto XVI, all’Angelus del 12 marzo 2006).
Che questa Quaresima sia dedicata ad ascoltare Cristo per avere un cuore puro e una mente saggia, ad ascoltare Lui nella Sua Parola che quotidianamente viene annunciata e spezzata nelle nostre comunità. Se ascoltiamo Lui ci nutriamo di cibo sostanzioso per il nostro cammino verso la Pasqua del Risorto, che è Bellezza, Bontà e Verità. Dunque perseveriamo nell’essere “uditori della Parola” e non delle chiacchiere e dei rumori. Ascoltiamo il Verbo di Dio attentamente, contempliamolo piamente, e poi portiamolo devotamente giù dal monte tra gli uomini. Il discepolo porta questa Parola trasfigurata di luce, che sul volto di Cristo è come il sole e sui suoi abiti è bianca come neve (cfr Mt 17,2). Il Cristianesimo è la religione della luce. Il Verbo, che si è fatto carne, è luce che illumina ogni uomo. Luce mistica a Nazareth all’annunciazione. Luce a Betlemme con gli angeli e la stella. Luce al Giordano con la colomba dello Spirito. Luce sul Tabor. Luce di Pasqua: luce di eternità.

2) Non tre tende ma una sola.
La Chiesa con la scelta del Vangelo della Trasfigurazione ci invita oggi a ritemprare la nostra stanca e fragile fede nell’energia della luce. Dio offre un'anticipazione, ma poi bisogna fargli credito, senza limiti. Come ha fatto Abramo (prima lettura), che si è fidato della promessa di Dio giocando su di essa tutta la propria esistenza.
Noi assomigliamo molto a questi tre amici di Gesù, che Lui conforta dicendo a loro e a noi: “Coraggio, abbiate fiducia, alzatevi e non temete, io ho vinto il mondo” (cfr Gv 16,33).
Noi come il Capo degli apostoli siamo confusi (Pietro “non sapeva quello che diceva”) e intimoriti (i tre apostoli “ebbero paura”), ma in silenzio (essi “tacquero”) udiamo la parola del Padre che anche a noi dà l'imperativo amoroso: “Ascoltatelo”.
Noi come Pietro possiamo esclamare: “Signore, è bello stare qui, facciamo tre tende: una per Te, una per Mosè e una per Elia”, perché come questo apostolo vorremo prolungare la pace che viene dall’incontro con Cristo contemplato nella sua luce.
San Pietro fu affascinato da quella visione e, dicendo “bello stare qui”, lascia anche intuire le ragioni di una dimensione, forse troppo poco vissuta, della vita cristiana già in questo mondo: la contemplazione, cioè la preghiera fatta non per chiedere qualcosa a Dio ma per ammirare le sue meraviglie, per riconoscere la sua grandezza e la sua sconfinata bontà, per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha donato e di quanto ci garantisce che ci donerà.
La contemplazione è la preghiera che diventa sguardo. Se diamo del tempo alla contemplazione di Cristo, il Padre con la sua luce ci investe e questa luce da noi si irradia anche sugli altri.
In breve, se vogliamo che l’esperienza di luce duri in noi, non dobbiamo fare delle tende per Cristo: dobbiamo diventare tende in cui lui può dimorare e trasfigurarci tramite la partecipazione alla sua Croce e Risurrezione: “E’ proprio necessario che tu gli sia compagno nella passione affinché dopo tu possa essere partecipe della sua gloria. Là egli stesso accoglierà te e tutti i suoi nelle tende eterne. Là, veramente, preparerai non tre tende, una per Cristo, una per Mosè e una per Ella, ma una sola tenda, per il Padre, per il Figlio e per lo Spinto Santo: e questa tenda sarai tu stesso. Allora “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28), quando, come leggiamo nell’Apocalisse: “La dimora di Dio sarà con gli uomini ed essi saranno suo popolo ed egli sarà Dio-con- loro” (Ap 21,3).” (Pietro il Venerabile, abate di Cluny, Sermone sulla Trasfigurazione del Signore).

3) La Samaritana
La liturgia della Quaresima illumina la figura di Gesù, perché ogni cristiano sia messo davanti alla Sua presenza e lo segua. Il rito romano lo fa con la solennità della trasfigurazione, la liturgia ambrosiana propone la quotidianità della Samaritana, che va al pozzo -come ogni giorno- per attingere l’acqua. Domenica scorsa ci aveva invitato a meditare su “piccolezza” di Zaccheo.
Per incontrare questo pubblicano Cristo “dovette” passare da Gerico, per incontrare la Samaritana “dovette” passare dalla Samaria. Non era banalmente a causa della geografia fisica della Terra Santa, ma a causa della geografia della carità, che ha strade obbligate come la Via Crucis.
Per andare a Gerusalemme, dove lo aspettava la Croce, Gesù fu “obbligato” a passare per la regione che divideva la Galilea dalla Giudea, per una terra abitata da gente che gli altri Ebrei consideravano infedeli, traditori, perché non volevano sacrificare a Gerusalemme, essendosi costruiti un Tempio sul monte Garizim e non avevano accettato la riforma di Nehemia.
Ma Gesù amava i Samaritani: ne guarisce uno che era lebbroso e tra i dieci miracolati, solo questo samaritano torna a ringraziarlo. Samaritano è il passante che soccorre l’uomo derubato e ferito da dei ladri. Samaritana è la donna che Gesù attende al pozzo di Giacobbe. Samaritano è Gesù (per questo e i due brevi paragrafi precedenti cfr Primo Mazzolari, La Samaritana, Brescia 1943). In effetti, un giorno i suoi compatrioti Gli dissero: “Non diciamo noi bene che sei un Samaritano?» (Gv 8,53), è Gesù trasformò questa accusa in sinonimo di “uomo di carità”.
Ognuno di noi è dunque chiamato a vivere questa quaresima, annunciando il vangelo dell’amore con la concretezza del samaritano, buono perché solidale e disposto ad entrare in un rapporto fraterno con il bisognoso. Nell’amore che apre all’altro ogni uomo può trovare la piena realizzazione di sé e dare senso alla propria vita.
Questo vale in particolare per le Vergini Consacrate, che sono chiamate ad attingere dal cuore di Cristo l’amore vero e puro che disseta e trasfigura.
Le vergini consacrate da buone samaritane sono chiamate a trasfigurare la terra con la carità che non si può comperare, si può solo domandarla, riceverla e condividerla. Nella loro preghiera queste donne che si sono donate completamente a Cristo preghino: Sposo di salvezza, speranza di quanti inneggiano a te, o Cristo Dio, concedi a noi oranti di trovare nelle nozze con te, come le vergini, senza macchia l'imperitura corona (Romano il Melodo, Cantici, Torino2002, pp. 318), da condividere nell’umile servizio al prossimo.

Lettura Patristica
Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino d’Ippona
Trattato 15, 10-12. 16-17; CCl 36, 154-156)

Arrivò una donna di Samaria ad attingere acqua
«E arrivò intanto una donna» (Gv 4, 7): figura della Chiesa, non ancora giustificata, ma ormai sul punto di esserlo. E' questo il tema della conversione. 
Viene senza sapere, trova Gesù che inizia il discorso con lei.
Vediamo su che cosa, vediamo perché «Venne una donna di Samaria ad attingere acqua». I samaritani non appartenevano al popolo giudeo: erano infatti degli stranieri. E' significativo il fatto che questa donna, la quale era figura della Chiesa, provenisse da un popolo straniero. La Chiesa infatti sarebbe venuta dai pagani, che, per i giudei erano stranieri.
Riconosciamoci in lei, e in lei ringraziamo Dio per noi. Ella era una figura non la verità, perché anch'essa prima rappresentò la figura per diventare in seguito verità. Infatti credette in lui, che voleva fare di lei la nostra figura. «Venne, dunque, ad attingere acqua». Era semplicemente venuta ad attingere acqua, come sogliono fare uomini e donne.
«Gesù le disse: Dammi da bere. I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani» (Gv 4, 7-9).
Vedete come erano stranieri tra di loro: i giudei non usavano neppure i recipienti dei samaritani. E siccome la donna portava con sé la brocca con cui attingere l'acqua, si meravigliò che un giudeo le domandasse da bere, cosa che i giudei non solevano mai fare. Colui però che domandava da bere, aveva sete della fede della samaritana. 
Ascolta ora appunto chi è colui che domanda da bere. «Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10).
Domanda da bere e promette di dissetare. E' bisognoso come uno che aspetta di ricevere, e abbonda come chi è in grado di saziare. «Se tu conoscessi», dice, «il dono di Dio». Il dono di Dio è lo Spirito Santo. Ma Gesù parla alla dottrina in maniera ancora velata, e a poco a poco si apre una via al cuore di lei. Forse già la istruisce. Che c'è infatti di più dolce e di più affettuoso di questa esortazione: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva»?
Quale acqua, dunque, sta per darle, se non quella di cui è scritto: «E' in te sorgente della vita»? (Sal 35, 10).
Infatti come potranno aver sete coloro che «Si saziano dell'abbondanza della tua casa»? (Sal 35, 9).
Prometteva una certa abbondanza e sazietà di Spirito Santo, ma quella non comprendeva ancora, e, non comprendendo, che cosa rispondeva? La donna gli dice: «Signore dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4, 15). Il bisogno la costringeva alla fatica, ma la sua debolezza non vi si adattava volentieri. Oh! se avesse sentito: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»! (Mt 11, 28).”

venerdì 15 febbraio 2013

Per cambiare la vita e non solo qualcosa

I Domenica di Quaresima – Anno C – 17 febbraio 2013

Rito Romano
Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

Rito Ambrosiano
Gl 2,12b-18; Sal 50; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11




1) La Quaresima: perché?
In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo ci porta nel deserto con Gesù, luogo dell'incontro e dell'intimità con Dio, ma anche luogo della lotta suprema con il tentatore. Lo scopo di questi 40 giorni è: la Chiesa sull’esempio di Gesù Cristo il quale si ritirò nel deserto per digiunare 40 giorni, ci fa vivere lo stesso periodo di tempo, al fine di prepararci “a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2013). Lo scopo della Quaresima non è per la mortificazione, è per l’incontro con il Cristo a Pasqua. Certo in questo cammino verso il Crocifisso Risorto è necessaria la purificazione degli occhi, del cuore e della mente, per guardare, amare e capire se stessi e gli altri come fa Dio. In questo esodo verso la “terra” di Dio è necessaria la preghiera, “che è l'effusione del nostro cuore in quello di Dio” (P. Pio da Pietrelcina), E’ necessario che noi preghiamo, perché la preghiera ci da’ un cuore puro ed un cuore puro sa amare” (M. Teresa di Calcutta) e un cuore puro ha occhi puri per vedere Dio.
Se è utile conoscere il fine del numero 40 legato ai giorni, è utile conoscerne anche l’origine, che non è nel Vangelo, essa si trova già nell’Antico Testamento.
Nel libro della Genesi leggiamo che, a causa del diluvio, l’uomo giusto Noè trascorse quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. E attese altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione (cfr Gen 7,4.12; 8,6).
Il libro dell’Esodo ci racconta di Mosè che restò quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai alla presenza del Signore e ricevette la Legge. In tutto questo tempo digiunò (cfr Es 24,18). Anche il Deuteronomio ci ricorda che il cammino del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa durò quarant’anni e fu un tempo privilegiato in cui il popolo eletto sperimentò la fedeltà di Dio. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni», disse Mosè al termine di questi quarant'anni di deserto (Dt 8,2.4).
Quaranta furono gli anni di pace di cui godette Israele sotto i Giudici (cfr Gdc 3,11.30). Purtroppo, passato questo tempo, prevalse la mancanza della memoria dei benefici di Dio e la mancata osservanza della Legge.
Quaranta furono i giorni necessari al profeta Elia per raggiungere il monte Oreb, sul quale incontrò Dio (cfr 1 Re 19,8).
Quaranta furono i giorni richiesti da Giona ai cittadini di Ninive perché facessero penitenza, ed ottennero il perdono di Dio (cfr Gn 3,4).
Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul (cfr At 13,21), di Davide (cfr 2 Sam 5,4-5) e di Salomone (cfr 1 Re 11,41), i tre primi re d’Israele.
Infine, nel Nuovo Testamento leggiamo che quaranta giorni dopo la sua nascita Gesù fu portato al Tempio e Simone al tramonto della sua vita poté incontrare il Figlio di Dio, all’aurora della sua vita tra gli uomini. E quaranta furono i giorni che senza mangiare Gesù passò nel deserto, dove era andato sotto la guida dello Spirito (Lc 4, 1-13). Gesù nella preghiera si nutrì della Parola di Dio, usandola come arma per vincere il diavolo. Dopo questi quaranta giorni il Redentore cominciò la sua vita pubblica. E ancora quaranta furono i giorni durante i quali Gesù risorto istruì i suoi, prima di “concludere” la sua umana avventura e salire al Cielo e inviare lo Spirito Santo (cfr At 1,3) per continuarla con noi e in noi.
Quaranta, dunque, è il numero simbolico con cui la Sacra Scrittura rappresenta i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. Questo numero non rappresenta tanto un tempo cronologico, scandito dalla somma dei giorni, quanto piuttosto un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi.  (Questi pensieri sui quaranta giorni “biblici” si ispirano a Benedetto XVI, Udienza Generale del 22 febbraio 2012).

2) Un tempo provvidenziale.
Oltre alla preghiera, per vivere questo tempo quaresimale quale tempo propizio e provvidenziale la Chiesa dà come indicazione anche il digiuno e la carità.
Per spiegare brevemente il digiuno userai le parole mortificazione e sacrificio nel loro significato del linguaggio corrente. In tal senso esse significano una temperanza nell’impeto, nell’istinto, una temperanza nell’uso dell’istinto. “Temperare”, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, allo scopo, perciò, di mantenere nell’ordine. Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, l’invito alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà a ciò che è “più significativo” nella cosa. C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa sul cibo; uno prova affezione, e “usa” l’altra persone per il suo istinto. C’è l’amore di completezza, il desiderio di essere riconosciuti che se non è “temperato” diventa vanagloria, orgoglio, sete di possesso. C’è un’ ingordigia nell’istinto, una non-temperanza nell’istinto. La Chiesa ci invita al “digiuno” perché, nella temperanza, il cibo sia vissuto come mezzo per il cammino, e perché ci rapportiamo con le persone come compagni nello stesso pellegrinaggio della vita, guardandole come icone di Dio.
Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna. E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto.

3) Elemosina uguale a carità?
Se si volesse essere rigorosi la risposta è: no. L’elemosina non è sinonimo di carità, è un’opera di carità. Ma c’è del vero in questa equipollenza popolare perché elemosina (che viene dal greco e vuole dire avere pietà, come Dio l’ha nei nostri confronti sempre e in particolare quando preghiamo: “Signore, pietà” Kyrie eleison) è un gesto di carità, di compassione verso il povero.
Tuttavia non bisogna ridurre la “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. Un missionario comboniano (P. Tiboni, 88 anni), che ha speso la sua vita in Uganda diceva spesso: “La più grande carità che noi possiamo avere verso gli africani è di annunciare loro che Cristo è risorto”. Non c'è gesto più caritatevole verso il prossimo che “spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l'evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2013).
Fare l’elemosina vuol dire vivere la riparazione del peccato altrui, sentirci solidali con il mondo per riparare. Si tratta anche di metter mano alla tasca, ma non crediamo di risolvere tutto con l'elemosina, con la carità spicciola, perché questa è una carità ma non è la Carità. La Carità vera è dare Dio alle anime. Non è cambiare alcune cose, è cambiare la vita vissuta in sacrificio di comunione.
Sant’Agostino nel capitolo undicesimo del De civitate Dei dice che l’unico sacrificio è la comunione. L’unico sacrificio è il passaggio alla comunione, arrivare a dire: “il mio io sei tu”. L’unico sacrificio, perciò, è l’amore. È la grande rivoluzione portata nella storia del mondo prima dai profeti e poi da Gesù. Il suo amore rende possibili tutti i sacrifici per affermare l’altro, anche il sacrificio della vita. Per questo la Chiesa identifica i vergini e i martiri con la forma più alta di amore, perché verginità e martirio sono la testimonianza che la gioia più grande della vita è affermare l’altro, affermare che il tutto è l’altro nell’“elemosina”. Questa parola deriva dal greco eleèo (=ho compassione), da cui attraverso l'aggettivo eléemon (=compassionevole) passò al latino (cristiano) eleemosyna e da lì alle altre lingue (per es.: francese aumône, spagnolo limosna, catalano almoina) e non (inglese alms, tedesco Almosen). Dunque “fare l’elemosina” nel senso etimologico e cristiano del termine vuol dire donare compassione, misericordia condividendo non solo il pane materiale ma il Pane Vitale: Cristo Gesù.
Commentando la parabola delle vergini prudenti San Giovanni Crisostomo esorta tutti, lui compreso: “Laviamo nell’elemosina la nostra anima” e rivolgendosi alle vergini continua “Il fuoco della verginità si spegne se non si versa su di esso l’olio dell’elemosina e questo olio è in vendita presso i poveri” (San Giovanni Crisostomo, Omelia III, 2-3).
Le Vergini Consacrate sono quelle vergini prudenti di cui parla il vangelo, perché tutta la vita è spesa per donarsi a Dio e servire il prossimo, nella compassione. Esse non solo fanno l’elemosina, con la loro consacrazione “sono” l’elemosina di Dio al mondo.




Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Discorso 209
QUARESIMA


http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_265_testo.htm


È tempo di eliminare le inimicizie.
1. È arrivato il tempo sacro nel quale mi sento in dovere di esortare caldamente la vostra Carità a pensare più diligentemente all'anima e a contenere gli stimoli del corpo. Questi quaranta giorni sono i più sacri sopra tutta la terra, e il mondo intero, che Dio ha riconciliato a sé in Cristo , approssimandosi la Pasqua, li celebra solennemente con una pietà encomiabile. Se ci sono delle inimicizie che non dovevano sorgere o che dovevano estinguersi subito, ma che tuttavia han potuto perdurare tra fratelli fino ad ora sia per negligenza sia per ostinazione sia per una specie di vergogna non umile ma superba, almeno ora abbiano termine. Sopra di esse il sole non avrebbe dovuto tramontare ; almeno ora, dopo tante levate e tramonti di sole, si estinguano anch'esse finalmente col loro tramonto e non si rinnovino mai più con la loro levata. Chi è negligente si dimentica di estinguere le inimicizie, chi è ostinato non vuol concedere il perdono quando viene pregato di farlo, chi si vergogna per superbia si rifiuta di chiedere perdono. Le inimicizie vivono di questi tre vizi e recano la morte a quelle anime nelle quali non vengono fatte morire. Vigili contro la negligenza la memoria, contro l'ostinazione la misericordia, contro la superba vergogna una prudenza umile. Chi si ricorda di essere negligente nel cercare la concordia scuota il suo torpore ridestandosi; chi pretende di rivendicare i suoi diritti da chi è in debito con lui pensi bene che anch'egli è in debito con Dio; chi si vergogna di chiedere al fratello di perdonarlo vinca con un salutare timore la sua perversa vergogna: affinché, terminate e uccise queste dannose inimicizie, voi possiate vivere. Tutto questo lo compie la carità che non si vanta . Riguardo alla carità, fratelli miei, per quanta è già in noi la si eserciti vivendo bene, per quanta ne manca la si ottenga chiedendola.
Sostenere la preghiera con l'elemosina.
2. Dobbiamo sostenere le nostre preghiere con adeguati aiuti. E poiché in questi giorni dobbiamo pregare con più fervore, cerchiamo anche di erogare elemosine con più fervore. Aggiungiamo ad esse quanto risparmiamo digiunando e astenendoci dai soliti cibi. Tuttavia deve fare maggiori elemosine soprattutto chi per qualche esigenza del proprio corpo e per assuefazione ad alcuni alimenti non può astenersene e quindi non può aggiungere all'elemosina che dà al povero quanto nega a se stesso. Proprio perché non può mortificarsi il buon fedele deve dare di più al povero; cosicché, avendo minore possibilità di sostenere con i sacrifici del corpo le sue preghiere, introduca una elemosina più abbondante nel cuore del povero affinché essa possa intercedere per lui. È, questo, un salutarissimo consiglio che ci viene dalle sacre Scritture e che dobbiamo ascoltare: Chiudi l'elemosina nel cuore del povero ed essa pregherà per te .
Come mortificarsi.
3. Esortiamo inoltre coloro che si astengono dalle carni a non evitare i recipienti in cui sono state cotte come fossero immondi. L'Apostolo infatti dice: tutto è puro per i puri . Secondo la sana dottrina infatti quanto si compie in questa osservanza quaresimale non lo si compie per evitare una impurità legale ma per tenere a freno le passioni. Per cui sbagliano di molto anche coloro i quali si astengono dalle carni però vanno in cerca di altri alimenti che richiedono una preparazione raffinata o che costano di più. Agire così non significa fare astinenza ma trovar varianti alla voluttà. Come potremo dire a costoro di dare ai poveri quanto sottraggono a se stessi se si privano del cibo abituale ma aumentano la spesa per comprarsene un altro più costoso? In questi giorni dunque digiunate con più frequenza, spendete di meno per voi e date con più larghezza ai bisognosi. Questi giorni richiedono una certa continenza anche riguardo ai rapporti coniugali: Per un tempo determinato - dice l'Apostolo - per attendere alla preghiera; poi ritornate di nuovo insieme, perché satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza . Non sarà arduo e difficile per gli sposati far questo per pochi giorni, se si pensa che le vedove consacrate si sono impegnate a farlo da un certo momento della loro vita fino alla fine e che le vergini consacrate lo fanno per tutta la vita. E in tutte queste cose siate fervorosi nella pietà evitando però l'orgoglio. Nessuno si compiaccia di essere generoso così da perdere l'umiltà. Tutti gli altri doni di Dio non giovano a nulla se manca il vincolo della carità.


venerdì 8 febbraio 2013

La vocazione è un dono dato col perdono.

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 10 febbraio 2013

Rito Romano:
Is 6, 1-2.3-8; Sal 137; 1Cor 15, 1-11; Lc 5, 1-11

Rito Ambrosiano
Sir 18,11-14; Sal 102; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10
Ultima Domenica dopo l’Epifania detta «del perdono»
 


1) Da un incontro la vocazione.
Oggi le letture della Messa ci parlano di tre persone che hanno avuto un incontro vero, in cui è emersa la loro vocazione. Grazie all’incontro con Dio, Isaia si offrì di diventare Suo profeta, San Paolo accettò di esser il testimone del Vangelo a tutti i pagani e San Pietro aderì alla proposta di Cristo di diventare pescatore di uomini.
Per queste tre sante e vere persone quello del loro incontro con Dio non fu un giorno come un altro, per loro quel giorno fu come nessun altro: fu un avvenimento, che cambiò la loro vita e loro la misero a servizio di Dio.
E’ importante notare che in tutti e tre questi casi la vocazione fu per una missione di salvezza e che per Dio il peccato e la fragilità dei tre chiamati non furono un’obiezione alla chiamata che Lui faceva a loro. Li perdonò, li purificò e diede loro la forza per il compito a cui li invitava.
Tutti e tre ricevettero la pace del perdono e divennero missionari tra gli uomini, facendosi portavoce di Dio e del Suo Regno, che è regno di libertà, di giustizia, di verità, di pace e soprattutto di amore.
A Isaia che accolse il grido divino: «Chi manderò e chi andrà per noi?», il Signore cambiò il cuore perché potesse rispondere: «Ecco manda me». Questo grande profeta poté rispondere così perché il Serafino aveva purificato con il carbone incandescente le sue labbra. Ma questo gesto angelico è la conseguenza del fatto che Isaia aveva incontrato Dio ed aveva riconosciuto la sua condizione di peccatore.
A Paolo Cristo diede la sua grazia e gli disse “Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora.”(At. 26, 16b). Anche per l’Apostolo delle genti l’incontro con il Signore fu la condizione per cambiare il senso della vita e per viverla come missione. Da persecutore accanito Paolo divenne annunciatore infaticabile di Cristo.
A Pietro Gesù diede la forza salda come una pietra perché il primo degli apostoli lo seguisse senza cedimenti. Essendo stato co-protagonista della pesca miracolosa, Pietro disse a Gesù: “Signore, vattene via da me che sono peccatore. Non sono degno di avere un Santo nella mia barca” (cfr. Lc 5,8). Ma il Redentore gli rispose: “Non avere paura. Vieni con me, credi alla mia parola e ti farò pescatore di uomini” (cfr. Lc 5,10).E quell’umile pescatore di Galilea divenne colui che lavorò alla pesca degli uomini, tirandoli fuori dall’acqua avvelenata del peccato per metterli nell’acqua pura dell’amore di Cristo.
2) La vita come vocazione.
Lo stupore del miracolo, delle parole e soprattutto dell’incontro con Cristo non invase solo Pietro, ma tutti quelli che erano con lui per la pesca: in particolare Andrea, suo fratello, come pure Giacomo e Giovanni, soci di Pietro.
Gesù non era più solo. Quattro uomini, due coppie di fratelli che diventarono ancor più fratelli nella fede comune, lasciarono tutto, lavoro e famiglia, per diventare compagni di cammino di Cristo. Quattro poveri pescatori, quattro semplici uomini del lavoro, che non erano illetterati non erano certo laureati furono chiamati da Gesù per condividere la sua missione di salvatore della grande famiglia umana.
Ma perché questi pescatori lasciarono tutto per seguire quest’Uomo che non prometteva né soldi né onori e parlava “solamente” di amore, di perfezione, di povertà e di gioia: “Beati i poveri, perché di loro è il Regno dei Cieli” ?
Lasciarono tutto, perché Cristo era diventato il centro affettivo della loro vita e solo Lui aveva parole di vita eterna. Lui è Vita della vita. L’incontro con Cristo aveva travolto la loro nullità. La scoperta di Cristo come centro di tutto eliminò la paura. Sperimentarono che chi segue Gesù non cammina nelle tenebre e si misero a servizio del Regno di Dio. Seguirono Cristo e vissero in comunità con Lui, che descriveva se stesso con la parabola del Buon Pastore, in cui la carità si manifesta in tutta la sua capacità di iniziativa, creatività e forza (cfr Lc 15, 4-6).
In breve, gli Apostoli accettarono la vita come vocazione e la missione di Cristo divenne la loro vocazione.

3) La vocazione di Zaccheo.
La profonda disponibilità di mettere la loro vita al servizio dell’amore di Cristo fu essenziale per capire la loro personale vocazione. Ma non sembra il caso di Zaccheo, di cui ci parla il vangelo ambrosiano di oggi (Lc 19,1-10).
Zaccheo era solo curioso di vederlo, non aveva intenzione di andare vicino a Cristo, anche perché essendo un pubblicano era accomunato con i peccatori e quindi non poteva accostarsi a un santo. Non sapeva ancora che Gesù era venuto a “chiamare” i peccatori, a dare loro la vocazione, cioè la proposta di essergli vicino per condividere la sua vita e la sua missione. Dunque, nel giorno in cui Cristo passava da Gerico questo uomo, attaccato ai soldi, salì su un albero per vedere il Messia, senza avvicinarsi.
E quel giorno per lui non fu un giorno come un altro. Fu il giorno dell’incontro tra lui e Cristo, che guardandolo con amore (Cristo ama i peccatori, è venuto per loro, quindi per noi) gli disse: “Oggi vengo a casa tua”. Chissà se Cristo non si è ispirato a Zaccheo per la parabola del fariseo e pubblicano, che non aveva il coraggio neanche di alzare gli occhi, pareva si vergognasse di comparire davanti al Signore, Sospirava e si picchiava il petto e non diceva altre parole che queste: “Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Forse per Zaccheo la domanda di perdono era implicita nel desiderio di vedere Gesù. Il resto lo fece il Signore, il cui sguardo salva. Lo sguardo di Cristo va oltre le apparenze, vede il cuore di chi anela risorgere. Non chiede a Zaccheo: “Cosa hai fatto?”, non gli rinfaccia il suo peccato. Lo chiama per chiedergli di essere ospitato in casa sua. E Zaccheo capisce che è una chiamata alla comunione con Gesù.
E’ naturale allora che quest’uomo si metta a disposizione dell’Uomo-Dio e della Sua missione messianica. Questo pubblicano “accolse Gesù con gioia” perché l’invito di Cristo aveva dato nuovo e vero senso alla sua vita. E imparò a guardare gli altri, come Gesù aveva guardato lui: fraternamente. Il prossimo non era più gente da sfruttare ma uomini con cui instaurare rapporti di giustizia, di perdono e, quindi, di fraternità vera.

4) La vocazione all’amore.
Questa nativa e fondamentale vocazione all'amore, propria di ogni uomo e di ogni donna, può realizzarsi pienamente nel matrimonio e nella verginità: essi sono «i due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'alleanza di Dio con il popolo» (Familiaris Consortio, n 11).
Il matrimonio e la verginità non sono in contrapposizione tra loro; sono piuttosto due doni diversi e complementari che convergono nell'esprimere l'identico mistero sponsale dell'unione feconda e salvifica di Cristo con la Chiesa.
Ma è importante ricordare che la Verginità è nella Chiesa la vocazione più alta, essa è il vertice dell’amore, è la risposta piena alla predilezione di Cristo, dentro la quale si guarda alle persone come le ha guardate Cristo. Di questo amore di predilezione le Vergini sono chiamate ad essere martiri (parola greca che vuole dire =testimoni), spose e madri nello spirito, capaci di dare la vita con passione perché Cristo sia conosciuto e l’incontro con lui cambi la vita.
«Voi che siete vergini per Cristo – esorta il Vescovo secondo il Rito di consacrazione dell’Ordo Virginum – diventerete madri nello spirito, facendo la volontà del Padre, cooperando con amore, perché tanti figli siano generati o ricuperati alla vita della grazia» (CV 29); «Il Signore Gesù Cristo / [...] renda feconda la vostra vita / con la forza della sua parola» (CV 56). «La Santa Madre Chiesa – si legge nell’omelia rituale – vi considera un’eletta porzione del gregge di Cristo; in voi fiorisce e fruttifica largamente la sua soprannaturale fecondità» (CV 29). In questo modo le Vergini consacrate collaborano alla pesca divina, generando e recuperando tanti figli e figlie alla vita di grazia e di amore portata da Cristo.



Lettura Patristica

DISCORSO 93
SULLE PAROLE DEL VANGELO DI MT 25, 1-13:

IL REGNO DEI CIELI SARÀ SIMILE ALLE DIECI VERGINI”

il testo integrale è su:

Ecco l’inizio:

Quali sono da intendere le dieci vergini della parabola.
1. 1. Voi che ieri eravate presenti vi ricordate che vi abbiamo fatto una promessa; ebbene oggi sarà adempiuta, con l'aiuto di Dio, non solo per voi ma anche per gli altri numerosi fedeli che si sono qui riuniti. Non è facile indagare quali sono le dieci vergini, di cui cinque sono prudenti e cinque stolte. Tuttavia attenendoci al contenuto dello stesso passo, che ho voluto fosse letto anche oggi alla Carità vostra, per quanto il Signore si degna di farmi capire, non mi pare che questa parabola o similitudine si possa riferire alle sole vergini che si chiamano così nella Chiesa per la loro particolare e più alta santità e che, con un termine più comune, siamo abituati a chiamare "Santimoniali", [ossia monache]; ma, se non vado errato, questa similitudine si riferisce a tutta quanta la Chiesa. D'altro canto, anche se intendessimo come vergini quelle sole che si chiamano "santimoniali", sono forse soltanto dieci? Dio non voglia che una sì grande moltitudine di vergini sia ridotta a un numero così piccolo! Qualcuno forse potrebbe dire: "E che dire se molte sono tali di nome ma tanto poche lo sono realmente da trovarsene appena dieci?". No, non è così. Poiché se il passo volesse farci intendere che solo dieci sono buone, non ci mostrerebbe tra esse cinque stolte. Se infatti sono molte quelle chiamate vergini, perché la porta del palazzo viene chiusa solo in faccia alle cinque stolte?
Le dieci vergini sono qualunque anima della Chiesa.
2. 2. Dovremo dunque, carissimi, intendere che questa parabola si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, non ai soli superiori, dei quali abbiamo parlato ieri, né ai soli fedeli laici, ma a tutti assolutamente. Ma perché allora cinque vergini sagge e cinque stolte? Queste vergini, cinque sagge e cinque stolte, sono assolutamente tutte le anime dei cristiani. Ma, per dirvi ciò che pensiamo per ispirazione di Dio, non sono le anime di qualsiasi specie, ma le anime che hanno la fede cattolica e si vedono praticare le opere buone nella Chiesa di Dio, eppure di esse cinque sono sagge e cinque stolte. Prima dunque vediamo perché sono indicate come cinque e come vergini e dopo consideriamo il resto. Ogni anima nel corpo è denotata col numero cinque perché fa uso dei cinque sensi. Noi infatti col corpo non percepiamo alcuna sensazione se non attraverso una porta di cinque sportelli: o con la vista, o con l'udito, o con l'odorato, o col palato, o col tatto. Orbene, chi si astiene dal vedere, dall'udire, dall'odorare, dal gustare o dal toccare cose illecite, riceve il nome di vergine.
Non basta né la verginità, né le opere buone.
2. 3. Ma se è un bene astenersi dai moti illeciti dei sensi e perciò qualunque anima cristiana ha ricevuto il nome di vergine, per qual motivo cinque di esse vengono fatte entrare e cinque sono respinte? Sono vergini eppure sono respinte. Non basta che siano vergini, ma hanno anche le lampade. Sono vergini in quanto si astengono dalle sensazioni illecite, hanno le lampade in quanto fanno le opere buone. Di queste opere il Signore dice: La vostra luce risplenda davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro ch'è nei cieli . Ai discepoli dice ugualmente: Siate sempre pronti con la cintura ai fianchi e le lampade accese . Nei fianchi legati con la cintura è denotata la verginità, nelle lampade accese le opere buone.
È vergine ogni anima cristiana.
3. 4. È vero che non si è soliti parlare di verginità a proposito di persone coniugate, eppure anche nel matrimonio esiste la verginità della fedeltà, la quale produce la pudicizia coniugale. Mi spiego: perché la Santità vostra si convinca che ciascuno o ciascun'anima è chiamata, in modo non inopportuno, vergine in relazione ai sentimenti intimi e all'integrità della fede, con cui ci si astiene dalle cose illecite e si compiono le opere buone; [ricordatevi che] tutta la Chiesa, formata di ragazze e ragazzi, di donne maritate e di uomini ammogliati, è chiamata con il nome di vergine al singolare. Come proviamo quest'affermazione? Ascolta l'Apostolo che dice, non solo alle donne consacrate a Dio, ma assolutamente a tutta la Chiesa: Vi ho promessi in matrimonio a un solo sposo, a Cristo, per presentarvi a lui come una vergine pura . E poiché bisogna tenersi lontani dal diavolo ch'è il corruttore di tale verginità, lo stesso Apostolo, dopo aver detto: Vi ho promessi in matrimonio a un solo sposo, a Cristo, per presentarvi a lui come una vergine pura, soggiunge subito e dice: Temo però che, come il serpente con la sua malizia ingannò Eva, così i vostri pensieri vengano traviati dalla purezza riguardo a Cristo . Quanto al corpo sono pochi ad avere la verginità, ma tutti debbono averla nel cuore. Se dunque è cosa buona l'astensione dalle azioni illecite, e da ciò ha preso nome la verginità, e sono lodevoli le opere buone simboleggiate dalle lampade, perché mai sono fatte entrare solo cinque e le altre cinque sono respinte? Se uno è vergine e porta le lampade e tuttavia non vien fatto entrare, dove potrà veder se stesso chi non conserva la verginità astenendosi dalle cose illecite e, trascurando di praticare le opere buone, cammina nelle tenebre?
Oltre alla continenza e alle opere buone si richiede la carità.
4. 5. Di costoro, dunque, fratelli miei, di costoro piuttosto cerchiamo di trattare. Chi non vuol vedere né udire ciò ch'è male, chi distoglie l'odorato dagli effluvi illeciti che esalano dai sacrifici pagani e il palato dagli illeciti cibi dei sacrifici, chi fugge l'amplesso con la donna d'altri, spezza il pane agli affamati, ospita in casa i forestieri, veste gl'ignudi, mette pace tra i litiganti, visita i malati, dà sepoltura ai morti: ecco chi è vergine, chi ha le lampade. Che cosa vogliamo di più? Desidero qualcosa di più. "Che cosa vuoi ancora?" si dirà. Desidero ancora qualcosa. Ha destato la mia attenzione il santo Vangelo. Le stesse vergini che portavano anche le lampade, alcune le chiama sagge, altre stolte. Ma come possiamo discernerle? da che cosa possiamo distinguerle? Dall'olio. L'olio è il simbolo di qualcosa di grande, di molto importante. Non è forse la carità? Questa che vi faccio è una domanda, anziché un'affermazione precipitosa. Vi dirò perché mi pare che l'olio sia simbolo della carità. L'Apostolo dice: Io v'indico una via più sublime . Quale via più sublime addita? Se sapessi parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come una campana che suona o un tamburo che rimbomba. Ecco la via più sublime, cioè la carità, che a giusto titolo è simboleggiata dall'olio. L'olio infatti rimane al di sopra di tutti i liquidi. Se si mette dell'acqua in un vaso e vi si versa sopra dell'olio, l'olio rimane alla superficie. Se ci metti olio e vi versi sopra acqua, l'olio rimane a galla. Se lo lasci al suo posto naturale l'olio sta sempre al di sopra; se tu volessi cambiare la sua posizione naturale tornerebbe sempre a galla. La carità non cadrà mai .

venerdì 1 febbraio 2013

Il Profeta: un uomo che dice parole cariche di una Presenza.

IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 febbraio 2013

Rito romano
Ger 1,4-5.17-19; Sal 70; 1 Cor 12,31-13,3; Lc 4,21-30

Rito ambrosiano
Penultima Domenica dopo l’Epifania
Dn 9,15-19; Sal 106; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17
Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre

1) Una premessa sulla voce: il profeta , e sulla- Parola: Gesù.
I brani di oggi, il racconto di Geremia e l'esperienza di Gesù nel Vangelo (nel Rito Romano), mettono in risalto la vocazione e l'opera del profeta che parla della vita dell'uomo secondo il progetto di Dio e della sua realizzazione.
Quindi, penso che sia utile - come premessa - ricordare che il termine profeta deriva dal greco προφήτης (pronuncia: profétes), che è parola composta dal prefisso προ- (pro, “davanti, prima”, ma anche “per”, “al posto di”) e dal verbo φημί (femì, “parlare, dire”). Letteralmente quindi significa “colui che parla davanti” o “colui che parla per, al posto di” , sia nel senso di parlare “pubblicamente” (davanti ad ascoltatori), sia in quello di parlare “prima” (anticipatamente sul futuro).
E’ altrettanto utile sapere che il termine ebraico che designa il profeta, “nabi”, può significare sia “colui che è chiamato”, sia “colui che parla”: in questo duplice significato è inscritto tutto il senso della missione del profeta: un chiamato che diventa un porta-voce, un “porta-parola”, un servo della Parola di Dio. Inoltre Il profeta non è chiamato semplicemente a parlare in nome di Dio, ma a viverne l’amore divenendo profeta del Cuore di Dio, che è misericordia.
Il profeta non è la variante biblica dell’indovino, perché non ha lo scopo di comunicare gli avvenimenti di domani e così mettersi al servizio della curiosità o del bisogno di sicurezza degli uomini.
L'elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l'avvenire nei suoi dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere”. (Joseph Ratzinger, Intervista con Niels Christian Hvidt, 1997).
Per questo Cristo è il Profeta rivelatore definitivo (cfr Ebr. 1, 1-2) ed eminente. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e con l'Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che, nelle sue radici, la profezia è presente e continua nella Chiesa, popolo di Dio regale, sacerdotale e profetico (cfr Lumen Gentium, 12).


2) Un porta-voce e la Parola.
Cristo era veramente un profeta differente da quelli precedenti. Anche da Geremia (cfr I lettura di oggi), a cui il Nuovo Testamento allude mostrando le numerose corrispondenze tra lui e Gesù. Come l'antico profeta (Ger 11,18) anche Cristo, nella sua patria di Nazareth, viene contestato dai propri concittadini (Lc 4,29).
La delicatezza di Geremia (Id. 1,6), poi, lo avvicina al Gesù descritto da San Luca. Come Gesù (Id 23), questo profeta attaccò i detentori del potere religioso (Id 26,28) e il tempio (Id. 7,11 e Mt 21,13). Sono celibi entrambi, ed entrambi amanti dei semplici e dei puri di cuore (Ger 35). Flagellato (Id. 20,2), il profeta è condotto come agnello (Id. 11,19) alla sua passione. E persino il suo lamento su Gerusalemme (Id. 32,28), infine, si potrebbe accostare al pianto di Gesù sulla città prediletta (Mt 23,37).
Ma mentre Geremia era un porta-voce, che portava la Parola di Dio, un messaggero che si rivolgeva a chi aveva smarrito la via, Gesù Cristo è la Parola di Verità, che è Via che conduce alla vita.
Il lieto Messaggio del “profeta” Cristo è Lui stesso, fiore che germoglia a Nazareth (= giardino), frumento che si fa pane di vita e di misericordia a Betlemme (=Città del pane), sguardo che legge nel cuore tanto è penetrante, voce che scaccia il diavolo tanto è potente, parola che incanta i bambini tanto è dolce, agnello che porta il peccato e che assolve i peccatori tanto è forte di grazia e perdono.
L’insegnamento di Gesù era affascinante e autorevole e la gente accorreva ad ascoltarlo, ovunque Lui si trovasse, in una sinagoga (cfr il Vangelo del rito romano Lc 4, 21-30) o in riva al mare (cfr il Vangelo del rito ambrosiano Mc 12, 13-17).
Ma che cosa insegnava Gesù? Insegnava Dio. Annunciando la Buona Novella, parlava di Dio, ma ne parlava in modo nuovo. Ne parlava partendo dalla sua esperienza, dall’esperienza che lui stesso aveva di Dio e della vita. Gesù viveva in Dio. Egli rivelava un Dio che è Giudice di misericordia, un Dio che è vicino, sempre. Cristo, l’Uomo che vive tra gli uomini per rivelare il Cuore di Dio, è profeta della felicità (cfr le Beatitudini).


3) Profeti piccoli, non minori.
Se come Geremia, il profeta più solo e tra i profeti il più simile a Cristo (almeno secondo me), risponderemo alla nostra vocazione dicendo a Dio Padre: “Mi hai sedotto ed io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7), anche noi saremo profeti, magari non grandi, non famosi, ma non meno importanti. Noi cristiani siamo chiamati ad essere profeti – non importa se piccoli o grandi -, l’importante è che siamo veri testimoni di Gesù, Profeta del Volto di Dio.
Se stiamo davanti a Dio con la semplicità dei bambini e la domanda del povero, vivremo il Vangelo e ci accorgeremo che altri “vangeli piccoli”, altre buone notizie apparentemente poco rilevanti sono, con Cristo, tra noi: la bontà dei nostri familiari e amici, la bellezza seminata nelle valli e nelle montagne, sui mari e nelle foreste. Anche questo, come i gigli del campo e l’acqua trasformata in vino, fa parte del Vangelo cioè della lieta Notizia che Cristo è il Redentore dell’uomo e del cosmo, che l’incarnazione ha fatto della Parola una presenza di verità e di salvezza.
Il grande pittore Van Gogh diceva che amava guardare i bambini nella culla, perché i loro occhi innocenti riflettono il cielo. Se diventeremo come bambini potremo avere gli occhi pieni di cielo e sguardi di Vangelo, allora scorgeremo la presenza evangelica di Cristo nelle piccole e grandi cose della vita, e diventeremo suoi profeti.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega “Il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo. Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il popolo, laici e gerarchia, quando « aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi » e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo” (CCC, n 785).
Dentro questo popolo ci sono persone che sono chiamate in modo particolare a vivere questa dimensione profetica nel quotidiano, in ciò che più che storia sembra polvere di storia: si tratta delle Vergini Consacrate.
Il matrimonio è un grandissimo valore, ma la verginità è una profezia tale che, lungi dall'essere contro gli sposati, è invece anzitutto per loro, a loro beneficio. Ad essi ricorda che il matrimonio è santo, è bello, è creato da Dio e redento da Cristo, è immagine dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa, ma che non è tutto. Con una chiamata particolare Dio chiama queste donne consacrate a vivere una più grande intimità con Lui e ad essere nel mondo le testimoni profetiche di questa presenza divina mediante la verginità.
Mi sembra che questo sia uno dei compiti principali della verginità consacrata. E in ciò mi sono di conforto
  • San Cipriano (n. ca 210 – m. 258) che alle prime vergini cristiane scriveva: Voi avete cominciato a essere ciò che noi tutti un giorno saremo (S. Cipriano, Sul comportamento delle Vergini, cap. 1),
  • il Rituale della Consacrazione delle Vergini che dice: “Il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo” (dalle Premesse al Rito di Consacrazione, n. 2, 1970) e
  • il Papa Benedetto XVI che afferma: “La vita consacrata è chiamata a tale testimonianza profetica, legata alla sua duplice attitudine contemplativa e attiva. Ai consacrati e alle consacrate è dato infatti di manifestare il primato di Dio, la passione per il Vangelo praticato come forma di vita e annunciato ai poveri e agli ultimi della terra. “In forza di tale primato nulla può essere anteposto all’amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive. ... La vera profezia nasce da Dio, dall’amicizia con Lui, dall’ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia” (Giovanni Paolo II, Esortazione post-sinodale ‘Vita Consecrata’, 84). In questo modo la vita consacrata, nel suo vissuto quotidiano sulle strade dell’umanità, manifesta il Vangelo e il Regno già presente e operante” (Benedetto XVI, Omelia per i Vespri – Festa della Presentazione di Gesù al Tempio, 2 febbraio 2011).



Lettura Patristica

S. Ambrogio alle Vergini
Tu che sei una di quelle vergini che fanno risplendere d'una luce spirituale la bellezza stessa del loro corpo; tu che giustamente sei paragonata alla Chiesa, tu, dico, che vegli durante la notte nella tua stanza: pensa sempre a Cristo e spera a ogni istante la sua venuta. Cristo entra a porte chiuse e non può mancare di venire perché l'ha promesso. Abbraccia dunque colui che hai cercato; avvicinati e ne sarai illuminata. Trattienilo. Pregalo di non partire subito, di non allontanarsi. La parola di Dio se ne va rapida; non si lascia prendere dai sonnolenti, né ritenere dai negligenti. La tua anima le vada incontro. Segui le tracce della parola divina poiché passa via rapidamente. [...] Colei che cerca così Cristo, può dire: Lo abbracciai e non lo lascerò più finché non lo introdurrò alla casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha generata (Ct 3,4). La casa di tua madre o la sua stanza è l'intimità più segreta del tuo cuore. Conoscila questa casa e tienila pulita. Quando sarà pulita e la tua coscienza sarà pura da ogni macchia, questa casa spirituale si innalzerà poggiata sulla pietra angolare e lo Spirito Santo abiterà in lei. Chi cerca così Cristo e lo prega, non è abbandonata, ma, al contrario, viene spesso da lui visitata.
(da Ambrogio, La verginità, 12-13)