venerdì 29 novembre 2019

Attesa come elevazione degli occhi e del cuore.

Rito Romano
1ª Domenica di Avvento1 -  Anno A – 1 dicembre 2019
Is 2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14; Mt 24, 37-44
Da ottusi a tesi

Rito Ambrosiano
3ª Domenica di Avvento
Is 35,1-10; Sal 84; Rm 11,25-36; Mt 11,2-15
Le profezie adempiute
 

1) Attesa come attenzione e viaggio del cuore.
  Con questa prima domenica di Avvento 2019 inizia il nuovo cammino spirituale dell'anno liturgico 2019/2020.
L'Avvento è un tempo di grazia particolare che il Signore ci dona ogni anno per metterci in cammino verso il Natale  di Gesù, Redentore dell'uomo. Come tutti i cammini, specialmente quelli spirituali, hanno una meta, un fine da raggiungere, non solo nello spazio e tempo materiali, ma nel cuore, nella mente e nello spirito.
Per educarci ad accogliere la venuta (avvento) di Cristo, fine (parola da intendere non solo come termine ma anche come scopo e compimento) della nostra vita come risposta alla nostra domanda di vita, alla nostra ricerca, anche quest'anno la Chiesa ci fa celebrare l'avvento, come attesa non passiva, ma vigilante.
Nello scorrere del tempo, apparentemente sempre uguale, nel non senso della noia e dell'abitudine, irrompe l'Amore di Dio, inatteso, talvolta sconvolgente, a prima vista distruttivo e in realtà inizio di vita rinnovata: ma occorre guardare, vedere, essere attenti, non dare per scontato il senso della vita, che spesso è vissuta come routine, come abitudine annoiata.
L'importante che la nostra domanda di senso, la nostra ricerca di Dio  si trasformi in attesa di Dio. Di un Dio che ha sempre da nascere, sempre incamminato e sempre straniero in un mondo e un cuore distratti. La distrazione, appunto, da cui deriva la superficialità vizio principale - mi pare - della nostra epoca. "Come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla; mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito e non si accorsero di nulla". È possibile vivere così, da utenti della vita e non da viventi, senza sogni e senza mistero.
E' possibile vivere "senza accorgersi di nulla", di chi ci sfiora nella nostra casa, di chi ci rivolge la parola, dei migranti  o dei poveri alla porta.
Senza vedere la Terra, casa comune depredata dai nostri stili di vita insostenibili. Si può vivere senza volti: volti di popoli in guerra; volti di donne violate, comprate, vendute; di anziani in cerca di una carezza e di considerazione; di lavoratori precari, derubati del loro futuro.
In vari libri medioevali, questa Domenica, la prima del nuovo Anno Liturgico, è chiamatala Domenica Ad te levavi (A te elevo la mia anima, in te confido, che io non sia confuso [Sal 24, 1), dalle prime parole dell'Introito della Messa di oggi. E in questa Domenica il Papa celebrava la Messa in Santa Maria Maggiore. In questo modo, metteva sotto la protezione della Madonna quella bellissima Basilica che onora la Culla di Betlemme, e che perciò è chiamata negli antichi documento Santa Maria ad Praesepe, e la Chiesa Romana che ricomincia ogni anno il Ciclo liturgico. Non era possibile scegliere un luogo più conveniente per salutare l'avvicinarsi della divina Nascita che deve finalmente allietare il cielo e la terra, e mostrare il sublime prodigio della fecondità d'una Vergine. Trasportiamoci con il pensiero in quell'augusto Tempio, e ascoltiamo le letture che vi oggi vi sono lette e di cui presento ora un breve commento.
 
2) Vigilanza e discernimento.
Nel Cantico di Frate Sole e Sorella Luna2 (che è proposto fra i vari Inni della Liturgia delle Ore dell’Avvento), San Francesco d’Assisi esprime poeticamente la sua contemplazione del mondo e innalza la sua lode di Dio chiamandoLo : “Altissimo, Buono, Signore, Sapienza e Amore”. Ma nel libro dell’Apocalisse c’è un nome che Dio si dà e che risponde più precisamente a quello che è l'Avvento: Dio è “Colui che è, che era e che viene”.
È molto importante meditare sull'aspetto del Dio "che viene" in quanto Lui si è comunicato all'uomo e continua a comunicarsi a noi con amore costante. Noi aspettiamo l’avvento del Signore, e forse crediamo che questa avvenga solamente nel momento della nostra morte, oppure alla fine del mondo. Invece dobbiamo sapere che Dio non ha tempi successivi: Egli viene sempre, oggi, domani e per sempre nell'eternità. Per questo motivo la nostra anima deve vivere la continua sorpresa dell'incontro col Signore.
La prima cosa che s'impone a noi dunque è una viva attenzione, una costante attesa del Signore, una perseverante tensione a Lui, che è la Verità amorosa della nostra vita.
E per questo che la liturgia “romana” di oggi ci invita alla vigilanza, proponendoci il brano del Vangelo di San Matteo in cui ci è ricordato che l’incontro con Cristo non può essere programmato da noi: deve essere atteso, lasciando che nella nostra vita ci sia uno spazio anche per la sua presenza.
La vigilanza cristiana, che fatta con occhi aperti e capaci di stupore, permette di leggere in profondità i fatti per scoprirvi mediante il discernimento la “venuta” del Signore.
Vigilare non è tanto un rientrare in se stessi, quanto un uscire da sé per incontro a Dio che viene e che si dona, oserei dire che si abbandona al noi.
La parola “vigilanza” non indica direttamente qualcosa da fare, ma un modo di vivere e di guardare. Non si sa quando il padrone tornerà e perciò non si può programmare né l'imminenza del ritorno né il ritardo, è quindi da insensati fare come invece ha fatto il maggiordomo infedele della parabola di oggi il quale - contando sul ritardo della venuta del Signore - cominciò a “percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi” (Mt 24,49). In questo racconto l'assenza di vigilanza è indicata con due caratteristiche: una vita dissoluta, en viveur, e il far da padrone sugli altri uomini. Se siamo sazi di cose materiali chiudiamo gli occhi in una sonnolenza, che fa perdere l’appuntamento con Dio. Se dominiamo sugli altri, diventiamo schiavi del potere e anche se gli occhi sono aperti, il cuore è chiuso. Invece se siamo sobri e vegliamo gli occhi sono aperti, pieni di stupore e nuovi e, quindi capaci di vedere Cristo, nostra gioia che viene ad abitare nel nostro cuore.
  La gioia dell’Avvento è la gioia dell’attesa dell’incontro d’amore con l’Amore, che ci ha fasciati del suo calore ancor prima che nascessimo e ci ha portati alla luce, tramite nostra mamma.
Noi non siamo come quelli che sono senza speranza e lasciano sfumare il tempo nella sera di un sabato pieno di nostalgia perché non conosce domenica. Il cristiano sa che la Domenica eterna è alle porte. Il cristiano ne ha il gioioso presagio nella certezza, che scaturisce dalla partecipazione alla vita soprannaturale mediante i sacramenti e nella vita di comunione nella Chiesa.
Siamo nella gioia, perché siamo certi che l’Amato viene all’appuntamento, anzi ci precede. L’attesa di Cristo non è come l’attesa incerta dell’amante umano. Nell’amore terreno c’è l’inquietudine dell’attesa, perché non raramente c’è l’angoscia che l’amato non arrivi, c’è l’inquietudine che l’amato non ami più, che si sia voltato altrove, attirato da qualcun altro.
L’attesa cristiana è l’attesa piena di speranza sicura che l’Amato ci ama sempre e con pienezza di amore.

3) Vedere, camminare, illuminare.
Si attende il Signore perseverando e testimoniando, non fantasticando sulla vicinanza della fine del mondo. In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate.
Bisogna vigilare, dice Gesù. Può accadere di dormire per le cose di Dio; anche le Vergini della parabola dormivano tutte e per questo la nostra vita cristiana è così povera, così misera. Allora, anche se Dio viene, non ce ne accorgiamo. Una delle cose più gravi della vita spirituale è precisamente questa: dormire. L'anima deve mantenersi desta, attenta, vigilante nella preghiera per riconoscere che Cristo viene tra noi. Se apriamo gli occhi, purificati dal peccato che ci rende ottusi, possiamo riconoscere il volto buono e amoroso del Destino, anche se è ancora buio.
La parola chiave di tutto l’Avvento è la “vigilanza” che è, secondo me, l’atteggiamento fondamentale delle persone consacrate. Chi si addormenta nell’attesa, è chiuso in se stesso, non percepisce la realtà fuori di sé, e anche nei suoi sogni non è in grado di percepire la realtà, ma solo ombre riflesse della sua mente. Ma, se al grido “lo Sposo viene”, si sveglia e percepisce la realtà stessa che lo circonda si apre ad essa, lascia il bordo della via, dove si era assopito e si mette sulla Via. E in ciò le vergini consacrate ci sono di esempio.
Oggi siamo convinti di essere molto “svegli”, più di coloro che nei secoli ci hanno preceduto perché conosciamo meglio il mondo: il nostro occhio va fino alle distanze più lontane, distanze immense sia spaziali che temporali. E nello stesso tempo siamo capaci di entrare anche all’interno della materia, fino alle ultime particelle che la compongono. L’orizzonte si è allargato enormemente, come anche le nostre possibilità di agire in questo mondo. E nonostante ciò dobbiamo dire che questo nostro mondo, in un senso più profondo, dorme. È chiuso in sé, perché vede soltanto quanto può fare e avere, e si ferma alla facciata esteriore della realtà, alle cose materiali che possiamo prendere in mano.
La consacrazione verginale, soprattutto, ma già anche quella battesimale rende capaci di vedere la trasparenza della luce divina nella materia creata, in noi stessi.
Per mezzo dell’Avvento la Chiesa ci fa ascoltare la parola del Signore, che ci dice di risvegliarci, di uscire da questo carcere del materiale, dell’effimero, di aprire gli occhi del nostro cuore e cominciare a vedere la realtà più grande, il senso di Dio nel mondo, la presenza di Dio nel Signore Gesù Cristo, nella sua Parola e nei suoi sacramenti.


La conseguenza di questo invito è di andare avanti sulla Via che è Cristo, aprendo gli occhi del cuore e aiutando i nostri amici e nemici, i nostri contemporanei perché possano ricominciare a vedere la vera profondità e la vera grandezza della realtà.
Vedere è anche mettersi in cammino e così logicamente dalla parola vigilanza viene fuori l’altra, propria del cammino d’Avvento: “andare incontro al Signore”, come hanno fatto le Vergini della parabola.

La fede non è l’adesione ad un mucchio di idee, ma un’avventura della vita, un cammino, un mettersi in moto verso il Signore e il cammino esteriore dovrebbe essere nello stesso tempo e soprattutto un cammino interiore, un uscire da noi stessi per andare incontro a Dio, alla vera realtà, all’amore e al prossimo.


Ed ecco una terza azione da compiere nell’Avvento: illuminare. La Parola di Dio, chiamato Luce, ci invita ad accendere le lampade del nostro essere per arrivare al Signore. Cosa significa questo?

Se guardiamo alla storia della Chiesa, a quella dei santi, vediamo queste numerosissime persone sante sono “lampade” accese che illuminano il mondo, e vediamo che esse non solo illuminano questo tempo, ma saranno decorazioni e luce nella festa eterna dell’amore di Dio.
Le vergini consacrate sono veramente lampade accese che illuminano, ci fanno vedere che c’è luce, che l’uomo non è una creatura fallita, ma può essere simile a Dio, conformandosi nella strada dell’amore perché Dio è Amore. E noi siamo simili a Dio nella misura in cui percorriamo la strada dell’amore.
 Preghiamo il Signore Gesù che ci illumini, che ci permetta di ascoltare e di realizzare la sua Parola. Così saremo sempre più consapevoli di essere suoi figli e figlie e faremo le sue opere, che sono opere di sapienza e carità divina.

1) Avvento significa "venuta, arrivo" ed è chiaro di chi aspettiamo l'arrivo, la venuta: del Signore Gesù.
Come ho già accennato, dal punto di vista della liturgia nel rito romano oggi comincia l’avvento, che nel rito ambrosiano è iniziato due domeniche fa. Ma non va dimenticato che tutta la vita del cristiano va vissuta nella dimensione dell’attesa e della speranza che il periodo liturgico dell’avvento “pedagogicamente” ci fare vivere. Tempo di concepimento di Dio che viene ogni giorno. Il tempo dell'Avvento svela, dunque, la nostra vocazione di pellegrini e di amici del Signore, chiamati a una comunione d'amore con Lui che deve realizzarsi ancora in pienezza.
2)  Il cantico di Frate Sole e Sorella Luna” conosciuto anche come “il Cantico delle Creature” è la prima poesia scritta in italiano. Il suo autore è San Francesco d’Assisi che l’ha composta nel 1226.La poesia è una lode a Dio, alla vita e alla natura che è contemplata in tutta la sua bellezza.


Discorso 5 sull’Avvento
di San Bernardo di Chiaravalle, abate:
Il Verbo di Dio verrà in noi
 
Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta si colloca infatti tra le altre due che sono manifeste. Nella prima il Verbo fu visto sulla terra e si intrattenne con gli uomini, quando, come egli stesso afferma, lo videro e lo odiarono. Nell’ultima venuta “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6) e vedranno colui che trafissero. Occulta è invece la venuta intermedia, in cui solo gli eletti lo vedono entro se stessi e le loro anime ne sono salvate. Nella prima venuta dunque egli venne nella debolezza della carne, in questa intermedia viene nella potenza dello Spirito, nell’ultima verrà nella maestà della gloria. Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all’ultima: nella prima Cristo fu nostra redenzione, nell’ultima si manifesterà come nostra vita, in questa è nostro riposo e nostra consolazione. Ma perché ad alcuno non sembrino per caso cose inventate quelle che stiamo dicendo di questa venuta intermedia, ascoltate lui: se uni mi ama – dice – conserverà la mia parola: e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui (Gv 14,23). Ma che cosa significa: se uno mi ama, conserverà la mia parola? Ho letto infatti altrove: chi teme Dio opererà il bene (Sir. 15,1), ma di chi ama è detto qualcosa di più: che conserverà la parola di Dio. Dove si deve conservare? Senza dubbio nel cuore, come dice il Profeta: “Conservo nel cuore le tue parole per non offenderti con il peccato” (Sal. 118, 11). Poiché sono beati coloro che custodiscono la parola di Dio, tu custodiscila in modo che scenda nel profondo della tua anima e si trasfonda nei tuoi affetti e nei tuoi costumi. Nutriti di questo bene e ne trarrà delizia e forza la tua anima. Non dimenticare di cibarti del tuo pane, perché il tuo cuore non diventi arido e la tua anima sia ben nutrita del cibo sostanzioso. Se conserverai così la parola di Dio, non c’è dubbio che tu pure sarai conservato da essa. Verrà a te il Figlio con il Padre, verrà il grande Profeta che rinnoverà Gerusalemme e farà nuove tutte le cose. Questa sua venuta intermedia farà in modo che “come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 cor 15,49). Come il vecchio Adamo si diffuse per tutto l’uomo occupandolo interamente, così ora lo occupi interamente Cristo, che tutto l’ha creato , tutto l’ha redento e tutto lo glorificherà.”
 
Dal «Commento sui salmi» di sant'Agostino, vescovo
(Sal 95, 14. 15; CCL 39, 1351-1353)

Non opponiamo resistenza alla prima venuta 
per non dover poi temere la seconda

«Allora si rallegreranno gli alberi della foresta davanti al Signore che viene, perché viene a giudicare la terra» (Sal 95,12-13). Venne una prima volta, e verrà ancora in futuro. Questa sua parola è risuonata prima nel vangelo: «D'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64). Che significa: «D'ora innanzi»? Forse che il Signore deve venire già fin d'ora e non dopo, quando piangeranno tutti i popoli della terra? Effettivamente c'è una venuta che si verifica già ora, prima di quella, ed è attraverso i suoi annunziatori. Questa venuta ha riempito tutta la terra.
Non poniamoci contro la prima venuta per non dover poi temere la seconda.
Che cosa deve fare dunque il cristiano? Servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo. Che significa ciò? Vuol dire avere, ma come se non avesse. Così dice, infatti, l'Apostolo: «Del resto, o fratelli, il tempo ormai si è fatto breve: d'ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero; e quelli che godono, come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero, perché passa la scena di questo mondo. Io vorrei vedervi senza preoccupazioni» (1Cor 7,29-32).
Chi è senza preoccupazione, aspetta tranquillo l'arrivo del suo Signore. Infatti che sorta di amore per Cristo sarebbe il temere che egli venga? Fratelli, non ci vergogniamo? Lo amiamo e temiamo che egli venga! Ma lo amiamo davvero o amiamo di più i nostri peccati? Ci si impone perentoriamente la scelta. Se vogliamo davvero amare colui che deve venire per punire i peccati, dobbiamo odiare cordialmente tutto il mondo del peccato.
Lo vogliamo o no, egli verrà. Quindi non adesso; il che ovviamente non esclude che verrà. Verrà, e quando non lo aspetti. Se ti troverà pronto, non ti nuocerà il fatto di non averne conosciuto in anticipo il momento esatto.
«E si rallegreranno tutti gli alberi della foresta». È venuto una prima volta, e poi tornerà a giudicare la terra. Troverà pieni di gioia coloro che alla sua prima venuta «hanno creduto che tornerà».
«Giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13). Qual è questa giustizia e verità? Unirà a sé i suoi eletti perché lo affianchino nel tribunale del giudizio, ma separerà gli altri tra loro e li porrà alcuni alla destra, altri alla sinistra. Che cosa vi è di più giusto, di più vero, che non si aspettino misericordia dal giudice coloro che non vollero usare misericordia, prima che venisse il giudice? Coloro invece che hanno voluto usare misericordia, saranno giudicati con misericordia. Si dirà infatti a coloro che stanno alla destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). E ascrive loro a merito le opere di misericordia: «Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mt 25,35-40) con quel che segue.
A quelli che stanno alla sinistra, poi, che cosa sarà rinfacciato? Che non vollero fare opere di misericordia. E dove andranno?: «Nel fuoco eterno» (Mt 25,41). Questa terribile sentenza susciterà in loro un pianto amaro. Ma che cosa dice il salmo? «Il giusto sarà sempre ricordato; non temerà annunzio di sventura» (Sal 111,6-7). Che cos'è questo «annunzio di sventura»? «Via da me nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,41). Chi godrà per la buona sentenza non temerà quella di condanna. Questa è la giustizia, questa è la verità.
O forse perché tu sei ingiusto, il giudice non sarà giusto? O forse perché tu sei bugiardo, la verità non dirà ciò che è vero? Ma se vuoi incontrare il giudice misericordioso, sii anche tu misericordioso prima che egli giunga. Perdona se qualcuno ti ha offeso, elargisci il superfluo. E da chi proviene quello che doni, se non da lui? Se tu dessi del tuo sarebbe un'elemosina, ma poiché dai del suo, non è che una restituzione! «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1Cor 4,7).
Queste sono le offerte più gradite a Dio: la misericordia, l'umiltà, la confessione, la pace, la carità. Sono queste le cose che dobbiamo portare con noi e allora attenderemo con sicurezza la venuta del giudice il quale «Giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13).

venerdì 22 novembre 2019

Un Agnello come Re

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - Solennità di Gesù Cristo, Re dell'Universo
2 Sam 5, 1-3; Sal 121; Col 1, 12-20; Lc 23, 35-43


1) Un re strano: l'Agnello immolato


Il Regno di Dio è fondato sul suo amore e sul trono della Croce "siede" Cristo, innocente Agnello immolato per noi. Questo Re mostra che Dio è amore e il suo regno è fondato sul suo amore e si radica nel  cuore, conferendo a chi lo accoglie pace, libertà pienezza di vita. Tutti noi vogliano, pace, libertà e pienezza: lasciamo che Cristo regni nel nostro cuore e avremo pace, libertà e pienezza.
Per questo nella liturgia di oggi, Solennità di Cristo Re, il Vangelo ci presenta Gesù non come  un Re che regnerà con la forza  alla fine dei tempi ma ci mostra Cristo che è messo sul trono della Croce, dove comincia a regnare con l'amore. Infatti, comincia a regnare, compiendo il gesto regale di concedere al buon ladrone di essere "oggi con Lui in Paradiso". Questo peccatore è il primo uomo che entra in paradiso al seguito di Cristo Re.
Verso quel delinquente che lo implora e lo riconosce come Signore sulla Croce, Cristo concede il suo perdono e la sua amicizia. 
Questa Croce, questo atto d’amore infinito, che con tanta superficialità e presunto civismo abbiamo tolto dai luoghi pubblici e dalle scuole, continua ad essere l’unica risposta vera alla sofferenza profonda dell’uomo, continua ad essere la chiamata definitiva di Dio all’uomo a farsi dono, a farsi, come Dio, offerta all’altro. Senza di essa rimane solo l’amarezza degli ultimi, dei poveri, degli sconfitti. Se l’uomo non si fa dono per l’altro, si fa, anche non volente, strumento di tortura. Questo perché: o sotto la croce ne siamo schiacciati, o sulla croce regniamo con Cristo (come canta la liturgia: “Dio regna dal legno della croce”).Certo il Regno di Cristo non è di questo mondo, ma dell'altro mondo, del mondo vero e santo, ed è il regno della verità, dell'amore e della vita eterna.
Quindi, prima di continuare la nostra meditazione, facciamo nostre le parole di San Giovanni Paolo II: "Mentre preghiamo che il tuo regno venga, noi ci accorgiamo che la tua promessa diventa realtà: dopo averti seguito, veniamo a Te, nel tuo regno, attirati da Te innalzato sulla croce (cfr Gv 12,32); a Te, innalzato sulla storia e al centro di essa, alfa e omega, principio e fine (cfr Ap 22,13), Signore del tempo e dei secoli! A Te ci rivolgiamo con le parole di un antico inno:
E' per la tua morte dolorosa, Re di eterna gloria,
che hai ottenuto per i popoli la vita eterna, 
perciò il mondo intero ti chiama Re degli uomini. 
Regna su di noi, Cristo Signore!".


       2) L’importante non è essere come Gesù, ma essere con Gesù, come il buon ladrone.

      Gesù durante la sua vita terrena regnò[1], sostenne i suoi dicendo loro parole di verità, compiendo gesti di carità, servendoli fino a lavare loro i piedi e mostrando il suo infinito amore andando sul trono della Croce, dopo essere stato incoronato di spine da Ponzio Pilato. Gesù in questo modo risponde alla chiamata di guidare il popolo di Dio, ad esserne condottiero (cfr. prima lettura “romana” di oggi). La sua regalità è di origine divina ed ha il primato su tutto, perché in lui il Padre ha posto la pienezza di tutte le cose (seconda lettura), e pure il vangelo di Luca presenta la regalità di Gesù riportando l’umanamente scandalosa investitura a re dei Giudei sulla croce. Due pezzi di legno incastrati uno sull’altro sono il trono paradossale del Signore della pace e dell’unità, che –non dimentichiamolo- ebbe come culla una mangiatoia in un povera stalla, dove fu onorato come uomo, come Dio e come Re dai pastori e dai Re Magi (mirra per l’umanità, incenso per la divinità e oro per la regalità).
Non dimentichiamo però che se Cristo Re va in croce non è per dare uno spettacolo di umiltà, ma per rivelare l’amore appassionato di Dio per noi. La sua passione non è tanto la flagellazione, a cui sono seguiti gli sputi e i chiodi, quanto il suo cuore, che è tutto e solo amore “passionale” per ciascuno di noi. La Croce è la conclusione rigorosa e necessaria del discorso sul Monte delle Beatitudini del Regno dei cieli.
Chi porta l’Amore è in balìa dell’odio e non si vince l’odio che accettando la condanna e perdonando. Chi è Amore perdona e lo dichiara: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Secondo me, quando il ladrone, che era in croce accanto alla Croce-Trono di Cristo, sentì questa dichiarazione di amore, credo che ne fu sconvolto al punto che si convertì[2] e domandò a Cristo di ricordarsi di lui. Possiamo considerarlo l’ultimo convertito da Gesù durante la sua vita terrena.
Questa preghiera di Cristo Re che perdona era così nuova per il ladrone che si sentì richiamato a sentimenti così estranei al suo spirito e a tutta la sua vita. Questa intercessione di perdono riportò il “buon” ladrone” all'età più dimenticata dell’infanzia, quando era innocente anche lui e sapeva che c’era un Dio al quale si poteva chiedere la pace come i poveri chiedono il pane alla porta dei signori. Ma in nessun luogo, per quanto si ricordasse, c’era una  domanda di perdono come quella, così fuori dell'ordinario, così assurda sulla bocca ad uno che sta per essere ammazzato. Eppure quelle parole inverosimili trovavano, nel cuore disseccato del Ladro, una connessione con qualcosa alla quale avrebbe voluto credere, specie in quel  momento che stava per comparire dinanzi a un Giudice più terribile di quello dei tribunali.
Gli ritornò in mente quel che aveva sentito raccontare di Gesù; poche cose e, per lui, poco chiare. Ma sapeva che aveva parlato di un Regno di pace e che lui stesso sarebbe tornato a governarlo. Allora, in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso  momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: “Signore, ricordati di me nel tuo Regno!”. E Gesù, che non aveva risposto a nessuno che lo interpellava sotto la Croce, volse la testa, quanto poteva, verso il Ladrone pietoso, e gli rispose: “Io ti dico in verità che oggi sarai con me in Paradiso”. L’umile domanda del buon Ladrone bastò per ottenere l’assoluzione.
Questo uomo si salvò perché seppe trasformare la condanna in croce in un gesto di pietà. Fu con Cristo e Cristo da subito (oggi, gli disse Gesù) lo accolse nella sua pietà[3].


      3) La continuazione della via amorosa della Croce.
      La Chiesa e noi con questa grande e bella Madre, se vogliamo festeggiare la regalità del Signore, dobbiamo ripercorrere la via della Croce.
Gesù è un re condannato innocente. E agli occhi degli uomini la sua sembra una regalità da burla: gli uomini sono abituati a ben altri re e a ben altre manifestazioni della regalità. Questo Gesù lo aveva fatto già capire in precedenza: «I re delle genti le signoreggiano e coloro i quali dominano su di esse si fanno chiamare benefattori. Ma non così voi" io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27). C'è dunque una radicale differenza fra la regalità del mondo e la regalità di Dio, fra le manifestazioni della prima e le manifestazioni della seconda. La scena della crocifissione del Vangelo di oggi (Lc23,33-43) raduna i motivi dispersi portandoli a compimento. Anzitutto la regalità di Cristo è affermata. San Luca usa una costruzione enfatica: «Questi è il re dei giudei» (v. 38). È il motivo della condanna che vorrebbe significare, nella mente dei capi, la fine dell'assurda pretesa di Gesù: invece è l'affermazione inconsapevole che proprio lì, sulla Croce, la regalità di Gesù si manifesta in tutto il suo splendore.
Gesù muore fra due condannati (lungo la sua vita egli fu sempre accusato di andare con pubblicani e peccatori): uno non comprende, prigioniero - come tutti - dello schema mondano della regalità («Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi»); ma l'altro intravede, dietro la debolezza della Croce, la potenza dell'amore che vi traspare: “Ricordati di me quando verrai nella tua regale maestà” (v. 42). Ora il motivo centrale ci è chiaro: la regalità di Gesù risplende nell'ostinazione dell'amore, nel rifiuto della potenza per salvare se stesso e per sottrarsi alla contraddizione.
Ecco ciò che è inaudito: Gesù non si serve della sua potenza divina per salvare se stesso, per sottrarsi al completo dono di sé, per costringere coloro che lo rifiutano ad ammettere il loro torto. Gesù si abbandona totalmente all'apparente debolezza della non violenza e dell'amore.
Dunque la regalità di Gesù è legata alla Croce. Tuttavia anche quegli aspetti che noi indichiamo come splendore, gloria, vittoria e potenza, non sono assenti. E difatti il Crocifisso è risorto e il Figlio dell'uomo tornerà nella maestà della sua gloria. Ma si tratta sempre della gloria dell'amore, del trionfo della via della Croce. Risurrezione e ritorno di Gesù sono la rivelazione dello splendore e della forza vittoriosa che la via della Croce nasconde. È in questa prospettiva che va compresa l'affermazione di San Luca, che cioè il Cristo, crocifisso e risorto, regna già ora: oggi.


      4) Spose di Cristo Re crocifisso.

     Un Re così vale  davvero la pena seguirlo e  rispondere alla vocazione sponsale che rende le persone corredentrici, portando, reggendo con lui in Croce il peso del mondo. A Dio che dice “Non avere paura, non temere perché io sono con te e ti amo” (Is 43, 45), la risposte più naturale è “sì”. In questo ci sono esempio e testimonianza : “Le vergini consacrate che celebrano nozze mistiche con Gesù Cristo figlio di Dio e si dedicano al servizio della Chiesa” (Canone 604 del Codice di Diritto canonico). Nel rito della consacrazione delle vergini il Vescovo chiede alla candidata: «Vuoi consacrarti ed essere sposata solennemente con nostro Signore Gesù, sommo figlio di Dio? » E, nell’orazione di consacrazione, il Vescovo le dice: «Che tu rimanga sempre fedele a Cristo tuo sposo e imiti la fedeltà che si esige agli sposati ». E poi prega così: «Signore, che ti glorifichi con la santità del corpo e con la purezza dell’anima... Sii tu il suo amore, la sua gioia, il suo volere, tu il conforto nel dolore, tu il consiglio nell’incertezza, tu la difesa nell’ingiuria, la fortezza nella tribolazione, l’abbondanza nella povertà, il nutrimento nel digiuno, la medicina nell’infermità. Essa, che ha scelto te, soprattutto in te trovi tutto» (n 24).
Santa Teresa di Gesù, parlando della professione religiosa, scriveva:
«Oh matrimonio consacrato!
Il re della maestà è stato sposato.
Oh fortunata quella fanciulla,
poiché ha preso, come marito,
colui che regna e che deve regnare.
Ricchi gioielli vi darà questo sposo,
re del cielo, che è re e farlo ben potrà.
Oh che splendida sorte
vi era stata preparata!
Che Dio vi volesse per amata!
Nel servirlo siate molto forti,
poiché l’avete professato.
Che il Re della Maestà
è già da voi sposato!»
Non dimentichiamo però che noi tutti siamo scelti da tutta l’eternità (cfr. Ef 1, 4) perché regnassimo con Lui, “a lode della sua gloria” (Ef 1, 12). A ciascuno di noi dice: “Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17, 10), e noi preghiamo: “Venga il tuo Regno” nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra volontà per sostenere con Cristo il mondo che anela risollevarsi.  Quali figli e figlie del Re preghiamo: “Venga il tuo Regno” cioè la Tua potenza di amore, o Signore, salvi il mondo intero.

NOTE
[1] Regnare deriva dal verbo latino “règere” = 1. reggere, governare, dominare, amministrare, comandare; 2. dirigere, guidare; 3. regolare, correggere, guidare sulla retta via; 4. stabilire, fissare, tracciare i confini.
[2] Convertirsi in greco è indicato con due verbi. Il primo è epistréfo che vuol dire voltarsi verso, il secondo è metanoéo che vuol dire “cambiare mentalità, pensiero”. La conversione cristiana implica le due cose: il voltarsi verso Cristo e assumere la Sua mentalità.
[3] La parola pietà vuol dire prima di tutto “consuetudine di amore”, tant’è vero che con l’espressione “pratiche di pietà” si intende le “preghiere”.


LETTURA PATRISTICA 
Venga il tuo regno
Dall'opuscolo «La preghiera» di Origene, sacerdote 
 (Cap. 25; PG 11, 495-499)
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del
Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre « membra che appartengono alla terra» ( Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria? » ( Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di « incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

venerdì 15 novembre 2019

Il Vangelo non anticipa le cose ultime, svela il senso ultimo delle cose

Rito romano
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 17 novembre 2019
Ml 3, 19-20; Sal 97; 2 Ts 3, 7-12; Lc 21, 5-19
Fedeltà nell'attesa vissuta come a di Cristo
 
Rito ambrosiano
I Domenica di Avvento[1] – Anno A
Is 51, 4-8; Sal 49; 2Ts 2,1-14; Mt 24,1-31
Avvento: tempo di attesa della tenerezza di Dio. 
 
Premessa:
Alla fine dell'anno liturgico, la parola di Dio di questa penultima domenica ci fa riflettere, soprattutto nel Vangelo, sulla fine del mondo, sulla seconda e definitiva venuta di Cristo sulla terra, per giudicare i vivi e i morti. Questa venuta, da sempre è stata vista come imminente, a scadenze temporali, segnati da veggenti o altre figure che dicono di prevedere il futuro. E ciò in seguito a fatti drammatici che hanno attinenza con i fenomeni naturali, ma anche con il comportamento umano, quali le guerre, o i terremoti, di particolare attualità in questi mesi. Gesù ci mette in guardia da facili profezie che parlano della fine.
Il brano del vangelo di questa domenica, riguarda, infatti, l'inizio del discorso di Gesù sulla fine dei tempo.
Il Vangelo di Luca nell'odierna liturgia, ci dice che non c'è rapporto alcuno tra la distruzione del tempio di Gerusalemme, come si credeva da parte di giudei e cristiani suoi contemporanei, e la fine del mondo. Questo vangelo annunzia che, prima della consumazione dei secoli, i discepoli di Gesù devono andare incontro a molte persecuzioni, le quali, se superate, diventano garanzia di salvezza, perché mettono in evidenza la costanza della fede, la quale è assolutamente necessaria in ogni circostanza e momento della storia. Anche se molte cose crollano, rimanere saldi nel Signore è ciò che non delude. In effetti, Gesù ci rivela che la fine ultima del mondo non è la morte, ma è la vita.

          Il problema è capire cosa fare adesso, non sapere cosa succederà alla fine.
            Dunque, leggendo il brano del Vangelo di Luca di questa domenica (21,5-19) è facile pensare esclusivamente, o quasi, agli avvenimenti della fine del mondo che chiuderanno la storia umana: la fine del mondo, la vittoria del Signore, il giudizio ultimo. Invece lo scopo di questo dialogo di Gesù non è quello di soddisfare la curiosità di chi aspira a conoscere come sarà questo “al di là” del tempo e dello spazio, ma di illuminare il presente. L’ascolto di queste parole permette al discepolo di Cristo di “vedere” il mondo – che passa e finisce – come “segno” di una realtà che rimane per sempre. Gesù, la sua persona, la sua parola, sono la chiave interpretativa di tutta la realtà e della storia: Egli è il Figlio di Dio che si è fatto uomo, è la Parola incarnata, è la fragilità che passa, è la vita eterna che rimane, Egli è “il nuovo Tempio, [2] in nuovo luogo dove si incontra Dio” (Benedetto XVI), è l’Amore che si rivela come passione e compassione sulla Croce.
            La Croce, che grazie a Cristo non è più uno squallido legno di morte, ma uno splendido trono, che irradia l’Amore, la Croce di Gesù è il momento più intenso della rivelazione del senso di tutto ciò che esiste: è il punto più drammatico della oscurità, della fragilità, dell’assurdo non senso e pure è il momento della luce più intensa, della vita che risorge, che vince al di là della morte. La Croce di Gesù è la rivelazione che il senso finale di tutto è l’Amore: l’amore che si annienta, che muore per diventare veramente amore, che si svuota di sé per accogliere il dono più grande.
            L’Amore è il senso più vero di questo mondo che passa e che muore, per poter entrare nell’infinito dell’Amore che non passa più. Così, non sappiamo come sarà l’“oltre”, l’“al di là”, ma sappiamo che sarà la pienezza dell’amore che è già la vita del mondo nell’“al di qua”.
            Gesù invita i suoi discepoli (vale a dire: noi) a non attaccarsi alle cose che passano, a non farsi illusioni, a non crearsi idoli, ma a vivere intensamente l’“oggi” che passa incominciando a gustare l’amore che non passerà mai, e che diventerà sempre più grande. Vivere l’amore, liberare, dilatare gli spazi dell’amore, è il messaggio di Gesù attraverso il suo discorso escatologico[3]: solo l’Amore rimane per sempre.
            E’ per questo che il Redentore invita a “camminare nella carità” (espressione usata per indicare gli Esercizi spirituali prima fatti e poi scritti da S. Ignazio di Loyola e ripresa da Papa Francesco)
            Ma non dimentichiamo che la carità non è solo fare la carità ai poveri dando loro soldi o altri aiuti materiali, ma è crescere rivestiti della speranza cristiana nel vincolo dell’amore fraterno e nella fede salda (cfr 1 Gv 2,14). La via amoris dolorosa(cioè il cammino dell’amore nel dono completo di sé) che è la Via Crucis, è per il cristiano quella strada che lo porta alla piena configurazione nel Cristo. A questo riguardo Santa Chiara disse di San Francesco d’Assisi innamorato di Cristo: “Lo amò fino ad assomigliarGli fisicamente” e si chiese: “Potrò anch’io fare così?”.
            La vita di questa Santa Suora mostra che è possibile assomigliare a Cristo, se ci si mette alla sua scuola di carità., se si cammina costantemente dietro l’Amato tanto atteso. Qui intendo la parola attesa nel senso originario di “tendere a”, “essere alla ricerca di”.
          
  Quindi si “attende” il Signore:
–       cercandolo. Sulla ricerca di Dio è molto chiaro un apoftegma[4] dei Padri del deserto che dice: “Un uomo alla ricerca di Dio chiese a un cristiano: “Come posso trovare Dio?”. Il cristiano replicò: “Ora te lo mostro”. Lo portò sulla riva del mare e immerse la faccia dell’altro nell’acqua per tre volte. Poi gli chiese: “Cosa desideravi più di ogni altra cosa quando la tua faccia era nell’acqua?”. “L’aria”, replicò l’uomo che cercava Dio. “Quando desidererai Dio come hai desiderato l’aria, lo troverai”, disse il cristiano”.
–       Perseverando nel suo amore. “Come l’amore è forte nelle grandi difficoltà,così è perseverante nella grigia, noiosa vita quotidiana. Esso sa che per piacere a Dio una cosa è necessaria:Fare con grande amore le cose più piccole.” (SSuor Faustina Kowalska).
–       testimoniando la sua verità, e non fantasticando sulla vicinanza della fine del mondo.
            In questa testimonianza ci sono di esempio le Vergini Consacrate. In effetti la consacrazione verginale fa crescere in loro un atteggiamento di fiducia nei confronti del mondo, dell’umanità e uno stile di ascolto della storia e delle problematiche umane congiungendola, per consuetudini di lavoro e di vita, ad ogni uomo e donna per cui si fanno compagne di viaggio, strumenti di comunione e testimoni di amore.
      Questa donne consacrate partecipano all’opera creativa di Dio attraverso il lavoro che permette loro di provvedere al proprio sostentamento e di aprirsi alla condivisione dei beni.
         Inoltre con la loro vita danno voce all’invocazione dello Spirito e della Chiesa: “Maranathà, Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20), tenendo viva un’attesa vigilante e profetica.[5]
       Infine le vergini consacrate richiamano il desiderio di Dio agli uomini e alle donne del proprio tempo e svelano una modalità con cui Dio oggi si fa presente nella storia e la redime.

NOTE

[1] Il tempo d’Avvento Ambrosiano comincia dai primi vespri della domenica che segue immediatamente l’11 novembre, festa di San Martino, ragione per la quale nella tradizione ambrosiana prende anche il nome di Quaresima di San Martino. Non è formato da quattro settimane, come nel Rito Romano, ma da sei settimane. Termina con le feriae de Exceptato (“ferie dell’Accolto”) che costituiscono in sostanza la novena di Natale. La domenica precedente il Natale è detta Domenica dell’Incarnazione; in essa il sacerdote veste paramenti bianchi anziché morelli. In terra ambrosiana la benedizione delle case è fatta durante questo periodo, mentre in terra “romana” si fa nel periodo pasquale.

[2] Etimologicamente, la parola “TEMPIO” discende dal latino “TEMPLUM”, a sua volta derivato da “TEM-LO”, un antico termine di radice indoeuropea che significa “tagliare”. “TEM-LO” è affine al greco “TéMNO”, avente identico significato, da cui “TéMENOS”, che significa “recinto sacro”. In sintesi, l’etimologia della parola “TEMPIO” sta a designare un’area, una porzione di spazio ritagliata dal mondo, recintata e destinata ad ospitare  una presenza sovrumana, un luogo speciale consacrato al culto di Dio.
Il Tempio è la casa di Dio. Abitando in mezzo al suo popolo, Dio si rende presente ai suoi fedeli. Nel mondo bibliico il tempio occupa il centro della vita religiosa e nazionale e gode di una forte carica simbolica. Dunque, la fine del Tempio di Gerusalemme, luogo di Dio e principio di vita, è simbolo della fine del mondo.
Il Tempio per il Cristiano è il Corpo di Cristo ed è anche la Chiesa, l’assemblea dei fedeli.  Il termine Chiesa nella lingua italiana e francese dal latino ecclesĭa, che a sua volta viene dal greco classico ἐκκλησία (ekklēsía). In greco classico, per ἐκκλησία si intendeva un’assemblea politica, militare o civile. La parole inglese “church” viene dall’antico inglese cirice, derivante dal germanico “kirik”, che a sua volta viene dal Greco κυριακή kuriakē, che vuol dire “del Signore” ” (forma possessiva di κύριος kurios “, cioè “lord”.
L’espressione è ripresa nelle parti più recenti della Bibbia detta dei Settanta (la versione in greco della Bibbia) per tradurre i termini ebraici qāhāl e ‛ēdāh, con il senso di “adunanza” del popolo ebraico, adunanza religiosa e politica allo stesso tempo. È dunque nella Bibbia dei Settanta che il termine ἐκκλησία inizia ad assumere in greco un significato specificamente “cultuale e giuridico”. Gli scrittori del Nuovo Testamento non hanno ricavato questo termine dall’uso che se ne faceva in Grecia, ma dal testo biblico dei Settanta.

[3] Escatologia, con l’aggettivo escatologico, vuol dire discorso (logos) sulle cose ultime (eschaton), quindi sulla morte e sulla vita eterna.  Circa dimensione escatologica della Chiesa si può sinteticamente dire che la Chiesa contiene in germe ciò che, attraverso il passaggio degli uomini e del cosmo, raggiungerà la piena e definitiva maturazione nella vita eterna. La visione beatificante del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sarà il premio di chi, nella ferialità della vita quotidiana, spesso intrisa di sofferenza, ha cercato di accogliere, vivendola, la  Parola di Dio.
Nella tradizione catechistica della chiesa si utilizza il termine “novissimi” (dal latino novissima, “le cose ultime”) per indicare quattro parole chiave del destino finale dell’uomo:
 - Morte: ultima cosa che accade in questo mondo. Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21 ). “Non muoio, entro nella vita” (Santa Teresa del Bambino Gesù).
- Giudizio di Dio: l’ultimo giudizio che ognuno dovrà sostenere.
- Inferno: lo “stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1031);
- Paradiso: il sommo bene che avranno “coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati” (Ibid., n. 1023).

[4] Apoftegma (o apotegma, in greco αποφθεγμα) è un sostantivo di origine greca il cui significato va rintracciato in relazione ai verbi apophthénghesthai, che significa “enunciare una sentenza”, o apophtheggomai che significa “enunciare una risposta in forma definitiva”. La parola, quindi, assume il significato di “detto”, “sentenza”, “massima” e si usa per una frase o sentenza di tipo aforistico che reca in estrema sintesi una verità profonda ed al contempo stringente. In particolare l’apoftegma ha dei tratti in comune con l’aneddoto, con la sentenza e con il proverbio, pur non essendo completamente riconducibile ad alcuno di essi.

[5] A questo proposito si veda l’articolo di Maryvonne Gasse (o.v.) La femme en ligne de front. Un combat eschatologique, pp. 395-398 du livre “L’Ordre des Vierges – Une vocation ancienne et nouvelle – Don du Seigneur à son Eglise”, Imprimerie Saint Josephe 2013, pp 463.