venerdì 27 ottobre 2017

Il grande comandamento

Rito Romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – 29 ottobre 2017

Rito Ambrosiano
II Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano



Una premessa.
Per capire bene il Vangelo di oggi, è utile ricordare in primo luogo che la prima domanda da porsi non è: “Che fare”, ma: “Chi sono? Perché e per chi vivo?”. In secondo luogo va tenuta presente questa domanda di Cristo: Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?” (Mt 16, 26).
La risposta alla domanda: “Chi sono” potrebbe essere, modificando la nota frase di Cartesio che diceva: “Cogito ergo sum” (Penso, dunque sono) in “Cogitor ergo sum”, che tradotto vuol dire: “Sono pensato [dall’amore di Dio], quindi sono”.
L’intelligenza amorosa di Dio ci ha creati, ma non ci ha lasciati soli sulla terra. Il Logos (Parola, Pensiero, Intelligenza, Senso della Vita), il Verbo si è fatto carne ed è venuto a noi gratuitamente, senza che abbiamo fatto nulla per meritarlo: accogliamo con fede lui e il suo grande comando ad amare. Consapevoli che "ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (Tt 3, 4).
Il nostro amare Dio non è la causa, ma l’effetto del suo amore per noi. “In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che lui ha amato noi…Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4, 10.19), e con il cuore dilatato da questo amore amiamo il nostro prossimo.

    Il comandamento grande.
Nel Vangelo di questa domenica, ancora una volta i farisei cercano di mettere in difficoltà Cristo, chiedendogli tramite un dottore della Legge: Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?” (Mt 22,36). E’ una domanda fondamentale perché nella Legge mosaica c’erano 613 precetti e divieti, che ponevano il problema di discernere quel fosse il comandamento più grande che li raccogliesse in unità. Gesù non ha nessuna esitazione, e risponde prontamente: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento” (Mt 22,37-38).
Su questa prima parte della risposta del Maestro i farisei sono certamente d’accordo. Anche loro pensavano che l'amore verso Dio vale più di tutti gli altri comandamenti. In effetti, Gesù risponde citando lo Shemà, la preghiera che il pio israelita recita più volte al giorno, soprattutto al mattino e alla sera (cfr Dt 6,4-9; Dt 11,13-21; Nb 15,37-41). In questa preghiera é proclamato l’amore integro e totale dovuto a Dio, come unico Signore. “L’accento è posto sulla totalità di questa dedizione a Dio, elencando le tre facoltà che definiscono l’uomo nelle sue strutture psicologiche profonde: cuore, anima e mente. Il termine mente, diánoia, contiene l’elemento razionale. Dio non è soltanto oggetto dell’amore, dell’impegno, della volontà e del sentimento, ma anche dell’intelletto, che pertanto non va escluso da questo ambito. E’ anzi proprio il nostro pensiero a doversi conformare al pensiero di Dio” (Benedetto XVI).
Ma nella seconda parte della sua risposta Gesù li sconvolge, perché il secondo comandamento, il più simile al primo, è l’amore per il prossimo. Non solo Cristo dice che Dio non si contrappone all’uomo, ma che Dio dilata il cuore dell’uomo che, in Dio, ama il suo prossimo. “Gesù opera uno squarcio che permette di scorgere due volti: il volto del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti: non sono precetti e formule; ci consegna due volti, anzi un solo volto, quello di Dio che si riflette in tanti volti, perché nel volto di ogni fratello, specialmente il più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio” (Papa Francesco)

      Un comandamento così grande che ne contiene due.
E’ vero che Gesù usa due citazioni dell’Antico Testamento, ma, dicendo che il comandamento di amare il prossimo è simile a quello di amare Dio, fa un'affermazione sconvolgente e stupefacente: nella persona che ama Dio con tutto il cuore, resta ancora del cuore per amare il marito, la moglie, il figlio, il fratello, l’amico, il prossimo e perfino il nemico. Dio non ruba il cuore, lo dilata.
E’ pure vero anche che lo scriba chiede quale sia il più grande comandamento (al singolare), e Gesù risponde elencandone due. L’amore per Dio è il più grande e il primo: il primato di Dio è affermato senza esitazione. L'amore per l’uomo viene per secondo. Dicendo però che «il secondo è simile al primo», Gesù afferma che tra i due comandamenti c'è un legame molto stretto. Certo è diversa la misura: l'amore per Dio è “con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente”. L’amore per l’uomo è “come se stessi”. La totalità appartiene solo al Signore: Lui solo deve essere adorato. Ma l’appartenenza al Signore non può essere senza l’amore per l’uomo. E difatti Gesù dice: “Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti”. Non si tratta di due comandamenti paralleli, semplicemente accostati. E neppure basta dire che il secondo si fonda sul primo. Molto di più: il secondo (quello dell’amore al prossimo) concretizza il primo (quello dell’amore a Dio).
  Di per sé non c’è contrapposizione tra questi due amori. Purtroppo, però succede siano vissuti in un modo divaricato. C’è chi accentua il primato di Dio (quindi la preghiera, il rapporto col Signore, la conversione interiore personale) e c’è chi, in nome di Dio, attira l'attenzione sull'uomo (quindi la giustizia, la lotta per un mondo più giusto, la presa di posizione di fronte a strutture ingiuste). Si direbbe più religiosa la prima e più politica la seconda. Ma tale giudizio è superficiale e sbrigativo.
Una risposta ci viene da questo episodio della vita di San Vincenzo de Paoli che ad una suora delle Figlie della Carità (congregazione religiosa da lui fondata per aiutare i poveri) che gli chiedeva: “Cosa devo fare se, mentre sto facendo l’adorazione davanti al Ss.mo Sacramento, un povero bussa alla porta del Convento?”. Il Santo le rispose: “Non lasci Dio, se lasci Dio per Dio”.
Un’altra risposta ci viene da Santa Teresa di Calcutta, la Missionaria della Carità, che come abito religioso per sé e per le sue suore scelse il sahari bianco, che era indossato dalle povere vedove del Bengala, e sul velo anch’esso bianco, che è tessuto in un lebbrosario gestito dalle Missionarie della Carità, fece inserire tre strisce blu, per indicare i tre voti: castità, obbedienza e povertà. Ma volle la striscia della castità più grande delle altre due perché nell’amore a Dio, a cui un cuore si consacra totalmente, c’è l’amore per il prossimo al cui servizio la suora si pone lietamente.
Non si deve opporre Dio all’uomo né l’uomo a Dio; per Gesù non c'è concorrenza ne contrasto tra i due amori. Dichiarerà al giudizio finale: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40). San Giovanni scrive: “Se uno dicesse: Io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20-21). I Santi che ho citato non sono che due della lunga teoria di santi della carità, di cui la Chiesa è ricca.
Ma è utile ricordare che anche le vergini consacrate sono missionarie della carità perché hanno scelto Dio Carità. Queste donne sono chiamate ad essere insieme segni chiari e semi nascosti che si offrono a Dio in terra allo scopo di portare frutto di salvezza per tutti. Come Gesù presentato al tempio e offerto, così ogni consacrata è un’offerta accolta dalla Chiesa e presentata a Dio quale primizia di tutto il popolo cristiano.
La vergine consacrata si caratterizza per una vita condotta nella assoluta gratuità: da Dio ha ricevuto il dono dell’amore per vivere di Dio solo, e a Dio ritorna passando attraverso la preghiera di lode e di supplica e il servizio di carità verso il prossimo. La sua consacrazione la rende, nell’attuale società, testimone credibile e incisiva del Vangelo, “seminando comunione e andando fino nelle ‘periferie’, perché c’è un’umanità intera che aspetta” (Papa Francesco).
Con la sua esistenza la vergine consacrata mostra che il grande commando dell’amore è una grazia che permette una vita lieta radicata in Dio e praticata nel servizio al prossimo.



Lettura patristica
San Leone Magno (390 circa –461)
Tractatus, 90, 3-4


 I due amori: Dio e il mondo

       Vi sono due amori, dai quali derivano tutti i desideri, e questi sono così diversi per qualità, in quanto si distinguono per cause. L’anima razionale, infatti, che non può essere priva di amore, o ama Dio o ama il mondo. Nell’amore di Dio nulla è eccessivo, nell’amore del mondo, invece, tutto è dannoso. Per questo è necessario essere inseparabilmente attaccati ai beni eterni, e usare in maniera transitoria di quelli temporali, di modo che, per noi che siamo pellegrini e ci affrettiamo per tornare in patria, qualunque cosa ci tocchi delle fortune di questo mondo sia viatico per il viaggio e non attrattiva per il soggiorno. Per questo, il beato Apostolo così afferma: "
Il tempo è breve. Rimane che quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che godono come se non godessero, quelli che comprano come se non possedessero, e quelli che usano di questo mondo come se non ne usassero: perché passa la scena di questo mondo (1Co 7,29-31). Ma ciò che piace per aspetto, abbondanza, varietà, non viene facilmente evitato, a meno di non amare, nella stessa bellezza delle cose visibili, il Creatore piuttosto che la creatura. Quando infatti egli dice: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" (Mc 12,30), vuole che mai ci sciogliamo dai vincoli del suo amore. E quando con questo precetto del prossimo (cf. Mc 12,31ss) congiunge strettamente la carità, ci prescrive l’imitazione della sua bontà, affinché amiamo ciò che egli ama, e ci occupiamo di ciò di cui egli si occupa. Sebbene infatti siamo "il campo di Dio e l’edificio di Dio" (1Co 3,9), e "ne chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1Co 3,7), tuttavia esige in tutto il servizio del nostro ministero, e vuole che siamo dispensatori dei suoi doni, affinché colui che porta "l’immagine di Dio" (Gn 1,27), faccia la sua volontà. Per questo nella preghiera del Signore diciamo in maniera sacrosanta: "Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra" (Mt 6,10). Con tali parole cos’altro domandiamo, se non che Dio assoggetti chi non ha ancora assoggettato a sé, e, come [lo sono] in cielo gli angeli, così faccia ministri della sua volontà anche gli uomini sulla terra? Chiedendo dunque ciò, amiamo Dio e amiamo anche il prossimo, e in noi c’è non un amore diverso, ma unico, dal momento che desideriamo sia che il servo serva, sia che il padrone comandi.


       Questo affetto dunque, o carissimi, dal quale escluso l’amore terreno, si rafforza con la consuetudine delle buone opere, poiché è necessario che la coscienza si rallegri nelle azioni rette, e volentieri ascolti ciò che gode di aver fatto. Si sceglie di fare digiuno, si custodisce la castità, si moltiplicano le elemosine, si prega incessantemente, ed ecco che il desiderio dei singoli diventa il voto di tutti. La fatica alimenta la pazienza, la mitezza spegne l’ira, la benevolenza si mette sotto i piedi l’invidia, le cupidigie umane sono uccise dai santi desideri, l’avarizia è scacciata dalla generosità, e le ricchezze che costituiscono un peso diventano strumenti di virtù.

venerdì 20 ottobre 2017

La moneta di Dio

Rito Romano
XXIX Domenica del Tempo Ordinario – 22 ottobre 2017


Rito Ambrosiano
Domenica I dopo la Dedicazione - ‘Il mandato missionario’




1) Le tasse allo Stato, l’uomo a Dio. 
Il contesto del Vangelo di questa 29° Domenica è il dibattito di Gesù con i farisei e gli erodiani, che gli tendono una trappola, facendogli una domanda sul tributo da pagare ai romani. Sotto l’apparenza di fedeltà alla legge di Dio o a quella dell’Imperatore romano, costoro cercano motivi per accusarlo. Se alla loro domanda: “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?”, Gesù rispondesse dicesse: “Dovete pagare”, potrebbero accusarlo, insieme al popolo, di essere amico dei romani. Se il Messia desse come risposta: “Non dovete pagare”, potrebbero accusarlo, presso le autorità romane, di essere un rivoluzionario. Insomma, lo vogliono mettere in una situazione che i farisei pensano che sia senza uscita. Invece, Cristo trova una via di uscita rispondendo alla questione del tributo a Cesare con un sorprendente realismo politico. La tassa va pagata all’imperatore perché l’immagine sulla moneta è la sua. Ma, l’uomo, ogni essere umano, porta in sé l’immagine di Dio e, quindi, è a Lui, e a Lui solo, che ognuno deve “pagare” il tributo perché gli è debitore della propria esistenza.
Nella sua risposta : “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, Cristo non resta al solo piano politico ma afferma chiaramente che ciò che più conta è il Regno di Dio. Le parole di Cristo illuminano la linea di condotta del cristiano nel mondo. La fede non gli chiede di emarginarsi dalle realtà temporali, anzi diviene per lui uno stimolo maggiore perché si impegni con laboriosa generosità nel trasformarle dall’interno, contribuendo così all’instaurazione del Regno dei cieli.
Dunque, se la prima riflessione che nasce dalla lettura del Vangelo di oggi è che il Messia non contrappone lo Stato a Dio e dice di contribuire al bene comune anche pagando le tasse, perché il convivere richiede solidarietà, la seconda riflessione che mi viene alla mente è che la frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”  non solo non contrappone Cesare a Dio (o l’uomo o Dio), ma neppure lo giustappone Cesare a Dio (e l’uomo e Dio), ma è come se dicesse “Date all’uomo quello che è dell’uomo, così che possa sentire e vivere la gioia di dare a Dio quel che è di Dio”.
Riferendosi all’immagine di Cesare impressa sulla moneta, di cui i farisei e gli erodiani parlano, Gesù ricorda a loro come a noi che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, che se a Cesare spettano i loro tributi, a Dio appartiene la loro vita. Gesù parte dal dovere di restituire il denaro a Cesare, la cui immagine è impressa sul metallo per arrivare all’obbligo di restituire l’uomo a Dio, la cui immagine è “impressa” nella natura umana. E’ giusto rendere  a Cesare il denaro con la sua immagine, è giusto e doveroso rendere a Dio l’uomo, fatto a Sua immagine.
Proponendo queste riflessioni mi metto nel solco dei Padri della Chiesa, uno dei quali scrisse: “L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria” (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (Ennarrationes in Psalmos, Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ibid., Salmo 4, 8). Perché l’uomo non solo non è riducibile alla materialità ma, anzi, proprio quella spirituale costituisce la dimensione prevalente di ogni esistenza.

2) Restituire l’uomo a Dio.
Comandando di versare il tributo a Cesare, Gesù Cristo riconosce il potere civile e i suoi diritti, ma in modo altrettanto chiaro ricorda che si devono rispettare i superiori diritti di Dio (cfr Dignitatis humanae, 8). Dicendo: “Rendete a Dio quel che è di Dio”, il Messia insegna chiaramente che ciò che più conta è il Regno di Dio.
Quindi, se da una parte, alla luce del Vangelo, che racconta di questa diatriba sul tributo da dare a Cesare (cfr. Mc 12,13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26), i cristiani riconoscono e rispettano la distinzione e l’autonomia dello Stato, considerandola un grande progresso dell’umanità e una condizione fondamentale per la stessa libertà della Chiesa e l’adempimento della sua universale missione di salvezza tra tutti i popoli. Dall’altra parte, i credenti in Cristo prendono sul serio il comando di restituire a Dio quello che è di Dio, cioè tutto “perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene” (1 Cor 10, 26). Restituiamo a Dio i nostri cari, il nostro prossimo, tutti gli uomini onorandoli, cioè prendendoci cura di loro come di un tesoro prezioso. Ogni donna e ogni uomo sono talenti d’oro offerti a noi per il nostro bene, sono nel mondo le vere monete d’oro che portano incisa l’immagine e l’iscrizione di Dio.
Un modo peculiare di restituire tutto a Dio è quello delle vergini consacrate che grazie alla consacrazione sono “spazio umano abitato dalla Trinità” (VC 41) e testimoniano come il dono totale di se stesse a questo Amore le spinge “a prendersi cura dell’immagine divina deformata nei volti dei fratelli e sorelle” (VC 75d) e rivelano così il Mistero di un Dio che si mette a servizio dell’uomo.
La vita di queste donne si fonda su almeno tre pilastri.
Il primo è la “Consacrazione” stessa, che è determinata dall’iniziativa dell’amore gratuito di Dio che chiama e dalla fede in Lui come risposta a questa chiamata. La Consacrazione è vita incentrata in Dio, in abbandono totale e amorosa fiducia, vita di gratuità e di gratitudine, di particolare manifestazione del Mistero di Dio in una semplice ed umile persona.
Il secondo pilastro è l’amore verso i fratelli e sorelle di tutto il mondo. La donna consacrata è chiamata a condividere l’Amore, perché il dono ricevuto è dono da donare, da con-dividere, in riconoscenza e amore a Dio, che per primo l’ha amata. Il dono del Signore fatto a lei non esclude gli altri, ma attraverso di lei è destinato a circolare anzitutto tra tutti coloro con i quali vive e lavora, per poi arrivare al mondo intero.
Il terzo pilastro, o meglio, la meta della Vita Consacrata è una missione da compiere in favore degli uomini che abitano in questo mondo che è di Dio: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16, 15). La missione del cristiano di andare, racchiusa nel cuore del Vangelo e risuonata solennemente nel giorno di Pentecoste, ha un suo segreto custodito anch’esso come perla preziosa nel Vangelo: Rimanete nel mio amore. Andare e rimanere: sono le due coordinate evangeliche in cui si muove la vergine consacrata, e da cui trae quotidianamente la sua linfa vitale. Questo “andare in tutto il mondo” è la continuazione del dono di sé agli altri vissuto nell’interno della Chiesa e che, dall’interno della comunità, si estende a tutti gli altri esseri umani. In questo gesto di donazione gli altri sono percepiti anch’essi come dono di Dio per noi, con cui con-vivere e con-dividere i doni, che abbiamo ricevuto dal Signore. In questo cammino nel mondo, l’impegno fondamentale è la lode di Dio, la testimonianza di Gesù a livello personale e comunitario e l’annuncio esplicito del suo Nome alle nazioni, vivendo una vera dimensione missionaria e restituendo il mondo a Dio.


Letture patristiche
San Clemente di Roma
Ad Corinth. 60, 4 - 61, 3


Preghiera per i governanti

       Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità (
1Tm 2,7). Rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.

       Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza perché noi conoscendo la gloria e l’onore loro dati ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza per esercitare al sicuro la sovranità data da te.

       Tu, Signore, re celeste dei secoli concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza per esercitare con pietà nella pace e nella dolcezza il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

       Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen.


Teofilo di Antiochia
Ad Auct. 1, 11


       Onorerò l’imperatore: non lo adorerò, ma per lui pregherò. Solo il Dio reale, il Dio vero adorerò, sapendo che da lui l’imperatore è stato fatto. Certo mi chiederai: perché non adori l’imperatore? Perché non è stato fatto per essere adorato, ma per essere onorato con l’ossequio delle leggi: non è infatti un Dio, ma un uomo costituito da Dio non ad essere adorato, ma a fungere da giusto giudice. In un certo senso gli è stata affidata da Dio l’amministrazione; ed egli stesso non vuole che chi a lui è subordinato si chiami imperatore: imperatore è il nome suo e a nessun altro è lecito chiamarsi così. Egualmente anche l’adorazione è unicamente di Dio. Dunque, o uomo, sei davvero in errore: onora l’imperatore amandolo, ubbidendogli, pregando per lui: facendo così, farai il volere di Dio. Dice infatti la legge divina: "
O figlio, onora Dio e l’imperatore, e non essere disubbidiente né all’uno né all’altro. Subito infatti puniscono i loro nemici" (Pr 24,21s).


venerdì 13 ottobre 2017

Un paradosso: il rifiuto dell’invito a nozze

Rito Romano
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – 15 ottobre 2017



Rito Ambrosiano
Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani.




  1. Bastano le feste umane?
Come la parabola dei vignaioli e quella dei figli invitati a lavorare nella vigna del Signore, così la parabola di oggi che racconta dell’invito del Re per partecipare al banchetto di nozze del Figlio ci è rivelato il grande desiderio del Padre di averci con Sé. Nelle domeniche precedenti siamo stati invitati a stare con lui e lavorare per lui come “vignaioli” e come figli nella Sua “vigna”. Oggi ci è rivolto l’invito a fare festa con lui partecipando al Suo banchetto nuziale, che paragona la fede ad un vero incontro “conviviale” divino.
Sorprendentemente questo invito è rifiutato dai primi destinatari.
Perché accade questo rifiuto? Perché quando c’è una festa umana tutti fanno a gara per parteciparvi e quando la festa la “organizza” Dio c’è tanta gente che rifiuta, come è testimoniato dal fatto che molti non vanno a Messa, non vanno cioè al banchetto domenicale in cui Cristo si fa cibo e bevanda per ciascuno di noi? Molti, purtroppo, credono di non aver bisogno di questa mensa. Se i nostri occhi conoscono solo la ricchezza materiale, alla quale il mondo ci abitua, non riescono a vedere che nel “pezzetto di pane” e nel “sorso di vino”, che ci vengono offerti, si nasconde il Cielo. Si nasconde Dio che si fa nostro cibo per rivestirci della sua stessa divinità.
Dio è generoso verso di noi, ci offre la sua amicizia, i suoi doni, la sua gioia, ma spesso noi non accogliamo le sue parole, mostriamo più interesse per altre cose, mettiamo al primo posto le nostre preoccupazioni materiali, i nostri interessi. L’invito del re incontra addirittura reazioni aggressive.
Perché facciamo così fatica ad accogliere l’invito a partecipare ad un evento di gioia così importante per la nostra vita o, addirittura, reagiamo in modo ostile?
Per orgoglio e perché  si dà la preferenza ai propri interessi, come dice Cristo raccontando che i primi invitati rifiutarono e : “andarono chi ai propri campi, chi ai propri affari”. Lo ha ricordato anche Papa Francesco in un'omelia di alcuni mesi fa: “Dimenticare il passato, non accettare il presente, sfigurare il futuro: questo è quello che fanno le ricchezze e le preoccupazioni”. Sono tanti, troppi, quelli che anche oggi rifiutano l’invito. È la storia della superbia, della autosufficienza umana, che riesce solo a vedere l’angolino del proprio io, illuminato da luci dell’effimero ed incapace di spalancare gli occhi sulla vastità del sole, che è il Regno di Dio.
Ora, più l’uomo è attaccato alle feste umane, meno è disposto ad accogliere un invito che comporta l’abbandono delle feste che hanno sapore dato dalle ricchezze terrene per dirigersi verso una festa che ha sapore di cielo. Ecco perché Cristo dice: È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli (Mt 19, 24). Il ricco, infatti, crede di poter colmare con le ricchezze l’abisso del suo cuore. Il povero di spirito crede a Dio e nella sua povertà si riconosce vicino a Dio. Il povero nella sua umiltà è vicino al cuore di Dio, al contrario i ricchi con la loro superbia contano solo su se stessi. Lo spirito di questi poveri di Dio fa aprire le loro mani vuote non per afferrare o stringere qualcosa o qualcuno, ma per donare e per ricevere la bontà di Dio che dona.
I mendicanti di Dio, coloro che non hanno nulla o “sentono” di non aver nulla e, come i santi, non hanno paura a mostrare la loro povertà di spirito, ossia un cuore aperto a Dio e custode vero della terra. A questi poveri non pare vero di poter partecipare al banchetto del Re e “corrono” alla festa per rispondere all’invito.


2) La condizione per partecipare alla festa: avere la veste nuziale.
Dio non frena la sua generosità. Lui non si scoraggia, e manda i suoi servi ad invitare molte altre persone, che la mentalità umana ritiene indegne: i poveri, i disgraziati. Tutti possono entrare, ma c’è una condizione che Gesù pone nella parabola di oggi e pone pure a noi, che in Lui abbiamo fede
Lui esige la veste nuziale, che è la carità, l’amore. “Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale, la carità, vivere un profondo amore a Dio e al prossimo” (Papa Francesco). E ciò è nel solco dell’insegnamento di San Gregorio Magno che affermava: “Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr. ibid.,10: PL 76,1288). Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale: la carità, che è la misura della nostra fede. Non possiamo separare la preghiera, l’incontro con Dio nei Sacramenti, dalla vicinanza al prossimo e, soprattutto, alla sue ferite
Ma perché Cristo parla della veste nuziale? Perché secondo l’uso in vigore in Israele ai tempi della vita terrena di Gesù, lo Sposo donava agli invitati il “kittel”, una veste speciale da indossare per il suo matrimonio. Bastava che gli invitati l’indossassero prendendola prima di entrare nella sala della festa.
Chiunque arrivava alla soglia della stanza del banchetto riceveva un mantello bianco, un abito di festa donato gratuitamente, che indicava l’aver risposto liberamente “sì” all’invito del re. Anche il vestito di nozze basta accettarlo e indossarlo, non va meritato né comprato.
L’interpretazione spirituale di ciò è che, se si vuole entrare nella festa, occorre mettere una veste intessuta di “sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”. Solo se ci rivestiamo della carità di Dio possiamo entrare da Lui e vivere in comunione con Lui.
 Come il matrimonio, anche la consacrazione verginale è alleanza e festa nuziale, ma stretta con Dio in modo esclusivo ed assoluto, senza la mediazione di un’altra persona. Per questo essa è una primizia della vita celeste e rende il religioso o la religiosa già appartenenti al mondo futuro, e fa di essi, per tutti, un “segno escatologico”, un ‘indicazione della meta verso cui l’intera umanità redenta da Cristo è in cammino. 
Lei è infatti la sposa che Lui attira a sé, unendola con un vincolo di amore eterno. Alle vergini consacrate è dato di vivere già durante la vita terrena un anticipo delle nozze eterne e di essere, in certo modo, nel tempo quello che tutti sono chiamati a diventare nell’eternità.
La grazia del matrimonio rende sacra la “vita ordinaria”: trasfigurando l’amore umano, lo orienta ad un fine soprannaturale e lo apre a una dimensione interpersonale che lo libera da quella che potrebbe essere una ricerca egoistica di piacere personale, istintivo e passionale.
La vita consacrata è un carisma “ eccezionale”, nel senso che è come un passo oltre, è come una presa di possesso di una realtà che nella norma è ancora e soltanto una promessa. Non si tratta però di un privilegio che forma delle differenze, ma di una chiamata che impegna ad essere maggiormente, anzi esclusivamente, dediti a Dio e, di conseguenza, al prossimo.
Inoltre la vergine consacrata svolge anche il ruolo di mettere in evidenza il valore dell’amore delle nozze umane. Queste, infatti, benché abbiano un fine terreno ben preciso, sono ultimamente in ordine alle nozze divine per una festa senza fine.
  Tra i doni dello Spirito alla santa Chiesa di Dio si deve riconoscere l’Ordo Virginum: “È motivo di gioia e di speranza vedere che torna oggi a fiorire l’antico Ordine delle Vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano; pur restando nel mondo, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l’amore per Cristo Sposo” (S. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica “Vita Consecrata”, n.7, 25 marzo 1996).
«La castità “per il regno dei cieli” (Mt 19,12) libera in maniera speciale il cuore umano, così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini» (Concilio Vaticano II, Decreto Perfectae caritatis, n. 12).



Lettura patristica
San Gregorio Magno (540 – 604)
Hom. 38, 3.5-7.9.11-14


1. Gli inviti di Dio

       "
Il regno dei cieli è simile a un re che fece le nozze per suo figlio" (Mt 22,2)...

       Dio Padre fece le nozze per Dio Figlio quando lo congiunse alla natura umana nel grembo della Vergine... Mandò dunque i suoi servi perché invitassero gli amici a queste nozze. Li mandò una volta, e li mandò di nuovo perché fece diventare predicatori dell’incarnazione del Signore prima i profeti, poi gli apostoli. Due volte, dunque, mandò i servi a invitare, infatti, per mezzo dei profeti disse che ci sarebbe stata l’incarnazione dell’Unigenito, e poi per mezzo degli apostoli disse che essa era avvenuta. Ma siccome quelli che erano stati invitati per primi al banchetto di nozze non vollero venire, nel secondo invito si dice: 
Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e i miei animali ingrassati sono stati macellati, e tutto è pronto (Mt 22,4)...

       E (il Vangelo) continua: "
Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari" (Mt 22,5). Andare nel proprio campo è darsi smodatamente alle fatiche terrene; andare ai propri affari è cercare con ogni cura guadagni mondani. Poiché chi è intento alle fatiche terrene e chi è dedito alle azioni di questo mondo finge di non pensare al mistero dell’incarnazione del Signore e di non vivere secondo esso, si rifiuta di venire alle nozze del re come uno che va al campo o agli affari. Spesso anche - e ciò è più grave - alcuni non solo respingono la grazia di colui che chiama, ma la perseguitano. Per questo (il Vangelo) soggiunge: "Altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re, venendo a sapere queste cose, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città (Mt 22,6-7). Uccise gli assassini, perché fece perire i persecutori. Diede alle fiamme la loro città, perché nella fiamma dell’eterna geenna è tormentata non solo la loro anima, ma anche la carne nella quale abitarono...

       Ma questi che vede disprezzato il suo invito, non vedrà deserte le nozze del figlio suo. Egli manda a chiamare altri, perché anche se la parola di Dio fatica a trovare accoglienza presso alcuni, tuttavia troverà dove riposare. Per questo (il Vangelo) soggiunge "
Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora alle uscite delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze" (Mt 22,8-9). Se nella Sacra Scrittura intendiamo «strade» come «opere», comprendiamo che «uscite delle strade» significano «mancanza di opere», poiché molte volte giungono facilmente a Dio coloro che non godono i favori della fortuna nelle opere terrene. E prosegue: Usciti nelle strade, i servi raccolsero quanti ne trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali (Mt 22,10).

       Ecco che con la stessa qualità dei commensali è detto chiaramente che in queste nozze del re è raffigurata la Chiesa del tempo presente, nella quale si riuniscono insieme ai buoni anche i cattivi. Essa è composta da figli diversi; tutti infatti li genera alla fede, ma non tutti, con un cambiamento di vita, li conduce alla libertà della grazia spirituale, per l’impedimento posto dal peccato. Finché viviamo quaggiù, è necessario che ce ne andiamo mescolati per la via del secolo presente. Saremo separati quando saremo giunti. I soli buoni, infatti, saranno in cielo, e i soli cattivi saranno all’inferno. Ora questa vita che è posta fra il cielo e l’inferno, per il fatto che è in posizione intermedia riceve cittadini da entrambe le parti; tuttavia quelli che ora la santa Chiesa riceve promiscuamente, alla fine del mondo li dividerà. Se dunque siete buoni, mentre restate in questa vita, sopportate pazientemente i cattivi. Infatti chi non sopporta i cattivi, attesta a se stesso di non essere buono a motivo della sua impazienza...

       Ma poiché, o fratelli, con la grazia di Dio, siete già entrati nella sala del convito nuziale, cioè nella santa Chiesa, guardate bene che, entrando, il re non abbia a rimproverare nulla nell’abito dell’anima vostra. Infatti bisogna pensare con un grande batticuore a ciò che segue subito dopo: "
Il re entrò per vedere i commensali, e vide là un tale che non indossava l’abito nuziale" (Mt 22,11). Quale pensiamo, fratelli carissimi, che sia il significato della veste nuziale? Se diciamo che la veste nuziale significa il battesimo o la fede, chi mai è andato a queste nozze senza il battesimo e la fede? È escluso infatti chi ancora non ha la fede. Cosa dunque dobbiamo intendere per la veste nuziale, se non la carità? Entra alle nozze, ma senza la veste nuziale, chi facendo parte della santa Chiesa ha la fede, ma non ha la carità. Giustamente si dice che la carità è la veste nuziale, perché il nostro Redentore era vestito di essa quando venne alle nozze per congiungere a sé la Chiesa. Fu per solo amore di Dio che il suo Unigenito unì a sé le anime degli eletti. Per questo Giovanni dice: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito per noi" (Jn 3,16). Pertanto, Colui che venne agli uomini per la carità, ci svela che questa stessa carità è la veste nuziale. Ognuno di voi che vive nella Chiesa e crede in Dio, è già entrato al banchetto nuziale; ma è venuto senza la veste nuziale se non custodisce la grazia della carità...

       Chiunque, essendo commensale alle nozze, non ha questa (veste), sia pieno di ansia e di paura quando, all’arrivo del re, verrà gettato fuori. Ecco infatti come vien detto: "
Il re entrò per vedere i commensali e vide là un tale che non indossava l’abito nuziale". Noi, fratelli carissimi, siamo quelli che sono commensali alle nozze del Verbo, avendo già la fede della Chiesa, nutrendoci al banchetto della Sacra Scrittura e godendo che la Chiesa sia unita con Dio. Considerate, vi prego, se siete venuti a queste nozze con la veste nuziale, esaminate attentamente i vostri pensieri. Soppesate i vostri cuori nei particolari, se non avete odio contro nessuno, se nessuna invidia vi infiamma contro la felicità altrui, se non vi studiate di danneggiare nessuno con occulta malizia.

       Ecco che il re entra nella sala delle nozze e osserva la veste del nostro cuore, e a chi non trova rivestito di carità subito dice adirato: "
Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale?" (Mt 22,12). È cosa degna di nota, fratelli carissimi, il fatto che chiama costui amico e tuttavia lo condanna, come se lo chiamasse amico e nemico allo stesso tempo: amico per la fede, nemico nelle opere. "Ed egli ammutolì (Mt 22,12)", cioè - e non se ne può parlare senza dolore - nell’ultimo severo giudizio verrà a mancare ogni possibilità di scusa, perché Colui che rimprovera dall’esterno sarà anche voce della coscienza che accusa l’anima dall’interno...

       Coloro pertanto che ora si lasciano spontaneamente legare dal vizio, allora saranno controvoglia legati dai tormenti. È giusto poi dire che saranno gettati nelle tenebre esteriori. Noi chiamiamo tenebra interiore la cecità del cuore, e (chiamiamo) invece tenebra esteriore la notte eterna della dannazione. Ogni dannato dunque non viene mandato nelle tenebre interiori ma in quelle esteriori, poiché è gettato controvoglia nella notte della dannazione colui che volontariamente cade nella cecità del cuore. Si dice anche che là sarà pianto e stridor di denti, sì che stridano là i denti di coloro che qui godevano nella voracità, e piangano là gli occhi di coloro che qui si davano a concupiscenze illecite; e così saranno sottoposte a tormenti tutte quelle membra che qui servirono a qualche vizio.

       Subito dopo che è stato espulso costui, nel quale è raffigurata tutta la schiera dei malvagi, viene una sentenza generale, che dice: "
Molti sono chiamati, ma pochi eletti" (Mt 20,16). È tremendo, fratelli carissimi, ciò che abbiamo ascoltato! Ecco che noi, chiamati per mezzo della fede, siamo già venuti alle nozze del re celeste, crediamo e professiamo il mistero della sua incarnazione, ci nutriamo con il cibo del Verbo divino, ma il re deve ancora venire a giudicare. Sappiamo che siamo stati chiamati: non sappiamo però se saremo eletti. Sicché è necessario che tanto più ciascuno di noi si abbassi nell’umiltà in quanto non sa se sarà eletto. Alcuni infatti nemmeno iniziano a fare il bene, altri non perseverano affatto nel bene che avevano iniziato a fare. Uno è stato visto condurre quasi tutta la vita nel peccato, ma verso la fine di essa si converte dal suo peccato attraverso i lamenti di una rigorosa penitenza; un altro sembra condurre già una vita da eletto, e tuttavia verso la fine della sua esistenza gli capita di cadere nella nequizia dell’errore. Uno comincia bene e finisce meglio; un altro si dà alle male azioni fin da piccolo e finisce nelle medesime dopo essere diventato sempre peggiore. Tanto più ciascuno deve temere con sollecitudine, quanto più ignora ciò che lo aspetta, poiché - bisogna dirlo spesso e non dimenticarselo mai - "molti sono chiamati, ma pochi eletti".

venerdì 6 ottobre 2017

Il Dio fedele e i fedeli di Dio

Rito Romano
XXVII Domenica del Tempo Ordinario – 8 ottobre 2017


Rito Ambrosiano
Gb 1,13-21; Sal 16; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10
VI Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.

1) Il Dio fedele.
La prima lettura, presa da Isaia 5,1-71, è un capolavoro e introduce la parabola di Gesù che anche in questa domenica ci parla della vigna e ci dice che la punizione di Dio è per convertire non per distruggere.
Questo profeta dell’Antico Testamento si serve dell’allegoria della vigna per descrivere la storia del popolo di Israele quando tradisce l’amore di Dio, che l'ha scelto come popolo eletto per annunciare che Dio non si era dimenticato dell’uomo e per dare carne al Figlio di Dio.
Ma questa storia di infedeltà – dice Isaia – non può continuare all'infinito. La pazienza di Dio ha un limite e ci sarà un giudizio (5,3). Dio si aspettava uva pregiata, e invece ebbe uva scadente (5,2). Fuori metafora: si aspettava giustizia ed ecco oppressione,si aspettava rettitudine ed ecco la disonestà (5,7). A questo punto non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno rovi e pruni. Ma il castigo di Dio non è mai per sempre.
Le minacce di Dio sono per convertire, non per distruggere.
E ciò appare evidente nella parabola raccontata oggi da Cristo., che prende spunto dal canto di Isaia sulla vigna precisando che il peccato dei vignaioli non consiste semplicemente in una dura, ma generica disobbedienza a Dio. Il loro peccato sta nel fatto che i profeti e persino il Messia, il Figlio di Dio, sono uccisi.
Inoltre, mentre nel canto di Isaia il padrone si aspettava uva pregiata e invece ha trovato uva scadente, nella parabola non è anzitutto questione di frutti. I contadini non vogliono riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il figlio lo dicono chiaro: vogliono farsi eredi e padroni.
Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare, l’unica che sostiene il mondo. Senza il riconoscimento di Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma: “Si può costruire un mondo senza Dio, ma sarà sempre contro l’uomo” (Card. Henri de Lubac).

2) I poveri di spirito: i fedeli di Dio
Dio è sempre fedele al suo amore misericordioso, alle sue promesse e il suo disegno di salvezza non è interrotto e le sue esigenze di verità e giustizia non sono messe da parte. Per questo Gesù, il Figlio di Dio termina la parabola con una visione positiva: la storia perenne dell'amore di Dio e del mio tradimento non si risolve in una sconfitta. Il peccato non blocca il piano di Dio. L'esito della storia sarà buono, la vigna generosa di frutti, il Padrone non sprecherà i giorni dell'eternità in vendette. Per rivelare la sua bontà che non reagisce al male, ma propone il bene, il Messia dice che la vigna è data a un Popolo Nuovo, il resto di Israele, i poveri di spirito, coloro che avrebbero accolto umilmente Gesù e il suo lieto Vangelo di amore.
In questi piccoli, “scartati” dal popolo come i “costruttori scartavano le pietre” sbrecciate e inadatte alla costruzione del Tempio, il Signore diviene la “Pietra angolare” del Nuovo Tempio, il suo corpo risorto e vivo nella storia. In loro si rivela la vittoria della pazienza infinita di Dio su ogni criterio religioso o mondano di giustizia.
Oggi ci è offerta ancora la possibilità di far parte di questo “resto di Israele”, di questi poveri di spirito. Basta riconoscere di essere peccatori, come Pietro sulle sponde del Lago di Galilea quando consegnò a Cristo il suo dolore e Cristo lo confermò nel suo amore. Basta che accogliamo l’invito di andare a lavorare nella vigna anche se manca una sola ora al termine del lavoro. Basta che convertiamo il cuore per trasformare il nostro “no” in un amoroso “sì”
Allora la “Vigna” sarà tolta al nostro uomo vecchio e sarà donata all’uomo nuovo, povero e, quindi, capace di accogliere con stupore e gratitudine il perdono, umile per obbedire alla Chiesa. Santo perché unito a Cristo, il frutto che siamo chiamati ad offrire al mondo.
Nella Vigna del Signore, nella sua Chiesa, tutto è gratuito: è gratuita l’innocenza e la verginità di Teresa del Bambin Gesù, la testimonianza fino al martirio di Pietro e Paolo, la conversione di Agostino e di Charles de Foucauld, la scienza teologica di Tommaso d’Aquino e di John-Henry Newman, il ministero di misericordia di P. Pio da Pietrelcina, la missione di carità di M. Teresa di Calcutta. La lunga lista delle Vergini consacrate: note alla Chiesa come Santa Geneviève e Marcellina, sorella si Sant’Ambrogio, e note solo a Dio nel cui cuore il loro nome è scritto.
Sul loro esempio le vergini consacrate di oggi, e noi con loro, non accampiamo meriti o pretese davanti a Dio. Lui non guarda alla quantità delle nostre prestazioni. Guarda il cuore ed attende di trovarvi solo il nostro amore, la nostra fiducia, la nostra adesione alla sua chiamata fatta in totale abbandono ed in amorosa fiducia. L’importante è che umilmente preghiamo: “Proteggimi, o Gesù, e accoglimi con la tua mano santa. Aprimi la porta della tua misericordia, perché segnata dalla tua saggezza profonda sia libera da ogni invidia terrena e secondo i tuoi precetti soavi ti serva nella santa Chiesa in allegrezza giorno per giorno progredendo di virtù in virtù” (Gertrude di Helfta).
  A lui che disse: “Io sono la vite e voi i tralci che rendo fecondi” diciamo grazie dal più profondo del cuore, e umilmente domandiamo che ci conceda la grazia di rimanere sempre  uniti a lui 
nell’eterno mistero 
del morire e del risorgere, dell’offerta di sé al Padre.
            Le Vergini consacrate nel mondo hanno offerto e rinnovano l’offerta di se stesse “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Mediante questa offerta esse ineriscono a Cristo come tralci alla vite e il loro essere con Cristo è il segreto della loro fecondità spirituale.
           Insieme con Cristo, queste donne consacrate sono accanto ai fratelli e sorelle in umanità, che “coltivano” avendo cura del loro bene.

1 “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna.Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi, E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.

Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita.

Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.  (Is 5, 1-7)




Lettura Patristica
Sant’Ambrogio di Milano
In Luc. 9, 23-30.33

       "
Un uomo piantò una vigna" (Lc 20,9). Parecchi deducono diversi significati dal nome della vigna, ma è evidente che Isaia ha ricordato come la vigna del Signore di Sabaoth sia la casa d’Israele (Is 5,7). Chi altro mai, se non Dio, ha creato questa vigna? È dunque Lui che la diede in affitto e partì per andare lontano, non nel senso che il Signore si sia trasferito da un luogo all’altro, dato che Egli è sempre dappertutto, ma perché è più vicino a chi lo ama, ma sta lontano da chi lo trascura. Egli fu assente per lunghe stagioni, per evitare che la riscossione sembrasse prematura. Quanto più longanime la benevolenza, tanto più inescusabile la ostinatezza.

       Per cui, secondo Matteo, giustamente trovi che "
la circondò anche di una siepe" (Mt 21,33 Is 5,2), cioè la recinse munendola della protezione divina, affinché non fosse facilmente esposta agli assalti delle belve spirituali.

       E al tempo dei frutti mandò i suoi poveri servi. È giusto che abbia indicato il tempo dei frutti, non il raccolto, infatti dai Giudei non si ebbe alcun frutto, questa vigna non ha dato alcun raccolto, poiché di essa il Signore dice: "
Attendevo che producesse uve, ma essa diede spine" (Is 5,2). Perciò i torchi traboccarono non di vino che rallegra, non di mosto spirituale, ma del sangue rosseggiante dei profeti. Del resto Geremia fu gettato in una cisterna (Jr 38,6), di questa specie erano ormai i torchi dei Giudei, pieni non di vino ma di melma. E sebbene, come sembra, questa sia un’allusione generale ai profeti, tuttavia il passo ci permette di pensare che si tratti di quel ben noto Nabot (cf. 1R 21,1-14), il quale fu lapidato: sebbene di lui non ci sia stata tramandata nessuna parola profetica, ci è stata però tramandata la sua storia profetica, poiché prennunziò col proprio sangue che molti sarebbero stati i martiri a favore di questa vigna. E chi è colui che viene colpito al capo? È certamente Isaia, a cui una sega poté più facilmente tagliare in due le membra del corpo che non far vacillare la fede, o sminuir la costanza, o troncare il vigore dell’anima.

       E ciò avvenne perché, quando ormai aveva designato tanti altri estranei, che i Giudei cacciarono senza onore e senza risultati, non essendo riusciti a cavarne nulla, per ultimo mandò anche il Figlio unigenito, e quei perfidi, mossi dalla bramosia di eliminarlo perché era l’erede, l’uccisero (cf. 
Lc 20,13ss) crocifiggendolo, lo respinsero rinnegandolo.

       Quante cose, e quanto importanti, in così brevi tratti! Anzitutto questo: che la bontà è una dote di natura, e il più delle volte si fida di chi non lo merita; inoltre, che Cristo è venuto come estremo rimedio delle perversità; infine, che chi rinnega l’Erede, dispera del Creatore. E Cristo (
He 1,2) è al tempo stesso erede e testatore; erede, perché sopravvive alla propria morte e raccoglie nei progressi che facciamo direi come i frutti ereditari dei testamenti, ch’Egli stesso ha stabilito.

       È però opportuno che faccia domande agli interlocutori, affinché emettano da sé stessi la sentenza della propria condanna. E afferma che alla fine giungerà il padrone della vigna (
Lc 20,16), perché nel Figlio è anche presente la maestà del Padre, o anche perché negli ultimi tempi, più da vicino influirà dolcemente sugli affetti umani. Quindi coloro pronunciano contro sé stessi la sentenza, affermando che i cattivi devono andare in rovina e la vigna passare ad altri coloni ("ibid."). Consideriamo allora chi siano i coloni, e che cosa sia la vigna.

       La vigna prefigura noi: il popolo di Dio, stabilito sulla radice della vite eterna (
Jn 15,1-6), sovrasta la terra e formando l’ornamento del suolo meschino, ora comincia a far sbocciare fiori splendenti come gemme, ora si riveste dei verdi germogli che l’avvolgono, ora accoglie su di sé un mite giogo (Mt 11,29), quando è ormai cresciuto estendendo i suoi bracci ben cresciuti come tralci di una vite feconda. Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre (Jn 15,1) onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci (Jn 15,5): ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi (Jn 15,2) dalla falce del coltivatore eterno. Perciò è esatto che il popolo sia chiamato la vigna di Cristo, sia perché sulla sua fronte vien posto come ornamento il segno della croce, sia perché si raccoglie il suo frutto durante l’ultima stagione dell’anno, sia perché allo stesso modo che avviene per tutti i filari della vigna, così nella Chiesa di Dio uguale è la misura, e non vi è alcuna differenza tra poveri e ricchi, tra umili e potenti, tra schiavi e padroni (Col 3,25 Ep 6,8). Come la vite si sposa agli alberi, così il corpo si congiunge all’anima, e anche l’anima al corpo. Come il vigneto sta ritto quand’è legato insieme, e, se viene potato, non s’impoverisce ma diventa più rigoglioso, così la santa plebe quand’è legata è resa libera, quand’è umiliata si innalza, quand’è recisa riceve la corona. E, persino, come il tenero virgulto staccato dall’antico albero viene innestato nella fecondità di una nuova radice, così questo popolo santo, quando ha rimarginato i tagli dell’antico virgulto, si sviluppa perché è tenuto al sicuro dentro quel legno della croce come nel grembo di una madre affettuosa; e lo Spirito Santo, come se discendesse giù nelle buche profonde del terreno, riversandosi nel carcere di questo corpo, lava via il fetidume con la corrente dell’acqua che salva, e solleva le abitudini delle nostre membra all’altezza della disciplina celeste.

       Questa è la vigna che il premuroso vignaiolo è solito zappare aggiogare insieme, potare; egli, sgombrando i pesanti mucchi di terra, ora espone al sole cocente, ora fa intridere alla pioggia le miserie nascoste del nostro corpo, e suole sbarazzare dagli sterpi il terreno coltivabile per evitare che le gemme siano guaste dai rovi, o l’ombra del fogliame lussureggiante sia troppo densa o lo sfoggio infecondo delle parole, aduggiando le virtù, impedisca che la caratteristica della sua natura giunga a maturazione. Ma guardiamoci bene dal temere qualsiasi danno a questa vigna, che il custode sempre desto del Salvatore ha circondato col muro della vita eterna contro tutte le lusinghe della malizia mondana.

       Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot (cf. 
1R 21,13) ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore. È bensì vero che colui, senza farsi atterrire dalle minacce di un re, non soffocò la costanza con la paura né, allettato da ricchissime ricompense, barattò il suo sentimento religioso ma, opponendosi al desiderio del tiranno, perché l’erba della malva non si seminasse nei suoi orticelli al posto delle viti recise, contenne col proprio sangue, non potendo fare altro, le fiamme preparate per le proprie viti; ma egli difendeva pur sempre una vigna (cf. 1R 21,2) materiale; invece tu per noi sei stata piantata per l’eternità con lo sterminio di tanti martiri, e la croce degli apostoli, emulando la passione del Signore, ti ha diffusa fino ai confini del mondo.