venerdì 29 giugno 2018

Gesù è la Vita che dà la vita sulla terra e per l’eternità.


XIII Domenica Tempo Ordinario - Anno B –  1 luglio 2018
 
Rito Romano
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano
VI Domenica dopo Pentecoste
Es 3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30


1) Chi tocca la Vita guarisce, chi è toccato dalla Vita risorge.
Il Vangelo di questa XIII Domenica del Tempo Ordinario ci presenta Gesù Cristo che guarisce una donna, la cui malattia peggiorava nonostante le lunghe e costose cure, e risuscita una ragazzina, risvegliandola dal sonno della morte.
E’ dunque il Messia un guaritore e un taumaturgo che offre all’umanità, sempre alla ricerca di cure efficaci, la risposta alle sue sofferenze, sconfiggendo la malattia e la morte?
Gesù è stato mandato dal Padre non per arrivare là dove la scienza e la medicina hanno fallito, o per realizzare l’utopia di un mondo senza dolore e senza morte.
I miracoli che Cristo compie sono, insieme con la predicazione, la buona notizia che annuncia che è giunta nel mondo la liberazione di Dio, che ridà all’uomo la sua dignità di figlio di Dio, che ricongiunge l’uomo al suo Dio, che gli ridà la vita.
Per accogliere davvero questo Vangelo (=buona notizia) occorre la fede. In effetti il racconto di due miracoli non attira l’attenzione su questi due fatti prodigiosi, ma sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell'uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità dell'uomo che cerca il Signore: non servono là dove c'è chiusura e ostinazione. Per questo il Messia non compie miracoli dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell'agire di Dio.
Quindi, anche in questi due i casi il miracolo è un dono della libera iniziativa di Dio, che risponde con amore a chi con fede umile domanda.
Esaminiamo più da vicino i due fatti:
Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. A questa donna è bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Ma San Marco nel suo racconto non sottolinea questo aspetto, ma dà rilievo al gesto nascosto, ma pieno di fede, della malata.
Perché la donna desidera non farsi notare e Gesù, invece, sembra far di tutto per dar risalto al suo gesto?
La legge dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e impuro toccarla. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all'accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna. Lui va al di là della purità e impurità legale e guarda alla fede della donna alla quale dice: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” ( Mc 5, 34). Diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l'ha “salvata” prima di “guarirla”. Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L'audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è toccare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta e impura. E’ fare in modo che si accorga che ci ha salvati, “obbligare” il potere che il Signore Gesù sembra sia incapace di controllare.
E’ ancora la fede al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, soltanto abbi fede” (Id. 5, 36).
Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungere la persona nella sua particolare situazione, e in questo caso vittoriosa persino sulla morte.
La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore semplice restiamo confidenti nella braccia di Dio.


2) Fede perseverante nella risurrezione.
Commentando questi due miracoli, papa Francesco ha detto: “Il messaggio è chiaro, e si può riassumere in una domanda: crediamo che Gesù ci può guarire e ci può risvegliare dalla morte? Tutto il Vangelo è scritto nella luce di questa fede: Gesù è risorto, ha vinto la morte, e per questa sua vittoria anche noi risorgeremo” (Parole all’Angelus del 29 giugno 2015).
In effetti, la liturgia della Parola di questa domenica ci invita a vivere nella certezza della risurrezione: “Gesù è il Signore, Gesù ha potere sul male e sulla morte, e vuole portarci nella casa del Padre, dove regna la vita. E lì ci incontreremo tutti, tutti noi che siamo qui in piazza oggi, ci incontreremo nella casa del Padre, nella vita che Gesù ci darà” (Id). Dunque, la Risurrezione di Cristo agisce nella storia come principio di rinnovamento e di speranza. Chiunque è disperato e stanco fino alla morte, se si affida a Gesù e al suo amore può ricominciare a vivere. E che vuol dire vivere se non condividere l’amore vitale che il Signore dona. In effetti, nel Vangelo di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata. A questa ridà la capacità di dare la vita, all’altra dà la vita perché possa incontrare la Vita: Lui.
All’uomo che ha sete di vita e di vita che abbia un senso (inteso come significato, direzione e gusto della vita) Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).
Come è entrato nella casa di Giairo e si è fatto presenza alla di lui piccola figlia, prendendola per mano, Cristo ci prende per mano e intreccia la sua vita con la nostra, che così riceve la Vita per sempre.
Come a quella bambina, Cristo ci rialza, ci fa risorgere. Da Lui riceviamo amore a Lui restituiamo amore.
Quando questo amore è donato completamente a Dio si chiama verginità.
Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la verginità è la maniera più alta di amare Dio e di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente.
Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrata attribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola, perché si faccia carne in loro come accadde a Maria, ed essere così vere evangelizzatrici che portano al mondo la Parola di Dio che è luce ai passi nostri.

Lettura Patristica
Sant’Efrem, il Siro (306 – 373)
Diatessaron, VII, 6, 19-23

 La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.

       I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...

       E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.

       Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.

       È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "
La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.


venerdì 22 giugno 2018

La nascita che prepara la Nascita.


Natività1 di San Giovanni Battista – Solennità
XII Domenica Tempo Ordinario - Anno B –   24 Giugno 2018
 
Rito Romano
Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

Rito Ambrosiano
V Domenica dopo Pentecoste
Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
V Domenica dopo Pentecoste



1) La nascita di Giovanni: il precursore, il profeta, il martire, il battezzatore.
Oggi 24 giugno, a pochi giorni dal solstizio d’estate, la Chiesa celebra con solennità la nascita di San Giovanni Battista. Fra sei mesi la liturgia, a pochi giorni dal solstizio d’inverno, la Liturgia ci farà di nuovo celebrare con ancor più solennità la nascita del Salvatore. Col 25 dicembre le giornate cominciano ad allungarsi, col 24 giugno le giornate cominciano a diminuire. 
Riferendosi a Gesù, Giovanni dice: “Lui deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). La logica vuole che quando il sole splende le lampade vengano spente, non sono più necessarie per vedere le persone e le cose. In ogni caso, San Giovanni anche se non è la luce, è “la lampada che arde e splende” (Gv 5,35) per testimoniare la luce.
Anche nel dato astronomico c'è un parallelismo evidente tra la festa del Natale di Cristo e quella del natale di San Giovanni, il precursore, il cui padre, Zaccaria, si rivolge a lui appena nato dicendo: “E tu, che ora sei piccolo, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, camminerai davanti al Signore” (Lc 1,76). Così è venuto al mondo “colui che è il più grande tra i nati di donna … più che un profeta” (Lc 7,26.28).
Dunque, San Giovanni non è solo il precursore, è anche un profeta speciale. In effetti, i profeti prima di lui hanno parlato di Cristo, annunciando la sua venuta. Lui, Giovanni l’ha indicato, presente tra noi dicendo “Ecco l’Agnello che toglie i peccati del mondo”. L’ultimo (in ordine di tempo) dei profeti ma il il più grande e il più prossimo al Salvatore. Ed è stato anche il primo testimone di Cristo che per Lui ha dato la vita, quindi lo si può e si deve chiamare martire.
A questo profeta e martire è stato dato il nome di “Giovanni”, che indica il suo compito: “Dio dà misericordia”. In effetti, in lingua ebraica Giovanni significa “Dio è misericordioso”. Così già nel nome si esprime il fatto che il neonato un giorno annuncerà il piano di salvezza di Dio. 
A questo nome di “Giovanni” è quasi sempre unito il Battista, perché questo Santo che ha indicato al mondo la misericordia incarnata, ha predicato e impartito “il battesimo della conversione” nel Giordano, dove ha battezzato Cristo stesso. Ciò facendo ha permesso al Redentore di svelare due aspetti del Suo mistero: l’umiltà e la carità: l’umile Dio di misericordia e il Figlio, l’Amato, l’Unto del Signore.  
2) Dio di misericordia.
Come ho accennato poco sopra, il brano evangelico parla anche del nome che è dato al neonato: Giovanni. Ma è importante anche ciò che si ascolta nella prima lettura e nel salmo responsoriale della festa di oggi.
La prima lettura, presa dal libro di Isaia, dice: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome. Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra”. Il salmo responsoriale ritorna su questo concetto che Dio ci conosce fin dal seno materno: “Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre... Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi” (Sal 138).
Comunemente, si ha un’idea molto riduttiva e giuridica di persona, questo genera molta confusione nel dibattito sull'aborto. Sembra che un bambino acquisisca la dignità di persona dal momento in cui questa gli viene riconosciuta dalle autorità umane. Per la Bibbia persona è colui che è conosciuto da Dio, colui che Dio chiama per nome; e Dio, ci viene assicurato, ci conosce fin dal seno materno, i suoi occhi ci vedevano quando eravamo “ancora informi” nel seno della madre. La scienza ci dice che nell’embrione c’è, in divenire, tutto l’uomo futuro, progettato in ogni minimo particolare; la fede aggiunge che non si tratta solo di un progetto inconscio della natura, ma di un progetto d’amore del Creatore.
La figura di Giovanni è davvero una figura speciale. E il nome che riceve indica un’azione del Dio di misericordia, il “chinarsi” di Dio, l’irradiarsi di Dio, sul suo popolo.
Lui è l'uomo che la provvidente Misericordia ha scelto per preparare l’ingresso dell'Eterno nella storia.
Va poi ricordato che Giovanni non è solo il battezzatore, il martire, il profeta e il precursore di Gesù, solo per quanto riguarda la nascita, la missione e la morte. Lui è anche l’amico dello sposo che, presentata la sposa allo sposo e organizzata la festa di nozze, scompare dalla scena di questo mondo. Non va dimenticato che Giovanni il Battista dice di se stesso: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia” (Gv 1, 23).
Se dovessi dare una definizione di Giovanni il Battista, non dovrei fare altro che ripetere quanto ho appeno scritto. Ma se alla domanda: “Chi è il Battista”, dessi un senso più largo, scriverei che il battezzatore è ciascuno di noi. Essendo diventati figli di Dio per mezzo del Battesimo, non voluto da noi, ma voluto dall'Alto, siamo chiamati, a tener fede alle parole dei nostri genitori, impegnandoci a vivere veramente da figli di Dio, da risorti, obbedienti alla volontà del Padre che, non ci chiederà cose superiori alle nostre forze, ma che sta alla nostra destra per difenderci.
Siamo come il Battista, quando siamo obbedienti alla volontà di Dio, quando ci veniamo incontro l’un l’altro, quando ci facciamo piccoli perché Cristo si faccia grande nel cuore di ciascuno che incontriamo.
La vita di ogni essere umano è un compimento di un disegno di Dio. Come il Battista fu preannunciato, ogni nascita è un preannuncio. Dio ha un disegno su di noi. Come dice: “Io ti ho disegnato sul palmo della mia mano” (Is 49, 16).
Dal grembo di mia madre tu hai detto il mio nome, ancora prima che nascessi tu mi conoscevi (Id) e il Salmo 138 dice: “Tu mi hai tessuto nel grembo di mia madre cioè mi sei più madre di mia madre. Ai tuoi occhi sono un prodigio perché Dio mi vede con l’occhio della madre.
Ecco, capire che il nostro nascere è il compimento di un disegno di amore vuol dire una cosa ben precisa vuol dire che la nostra vita viene dall’amore, quella è la sua sorgente e la sua sorgente è anche ciò che contiene. Se la nostra sorgente è il veleno, la morte, il nulla o è l’odio o chissà che cosa, la nostra vita sarà o l’uno o l’altro o chissà che cosa. Se invece al suo principio c’è questo disegno di amore che mi ha pensato, mi ha curato, mi ha tessuto: “Tutti i miei giorni erano contati ancora prima che ne esistesse uno; sono scritti nel tuo libro e non solo i giorni prima ma anche tutte le mie lacrime nell’otre tuo raccogli”.
Nulla è perso dell’essere umano; è tutto visto, è previsto e amato e accolto o perdonato da Dio.
Vedere la nascita così vuol dire vedere la persona in un modo diverso. Ogni nascita è un aspetto di questa tenerezza di Dio che si espande su tutta la creazione ed è fonte di gioia. Questa gioia c’è non solo quando c’è una nascita naturale, ma anche, e soprattutto, quando c’è una nascita spirituale. Di questa fecondità spirituale sono testimoni speciali le Vergini consacrate.
Papa Francesco insegna: “Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne consacrate…, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate”.
E San Giovanni Paolo II scriveva: “La verginità nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche comportare un grande sacrificio per il cuore della donna, apre all'esperienza di una maternità di diverso senso: la maternità «secondo lo spirito» (cf. Rm 8, 4). La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi Istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (...), l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). L'amore sponsale comporta sempre una singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano nel raggio della sua azione. Nel matrimonio questa disponibilità, pur essendo aperta a tutti, consiste in particolare nell'amore che i genitori donano ai figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini, abbracciati dall'amore di Cristo sposo” (Mulieris dignitatis, 21).
Le Vergini consacrate, infine, testimoniano che la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale, una maternità di grazia, che si fa sentire nella loro vocazione. Con il loro sì (fiat) docile, generoso e fedele a Cristo queste donne “permettono” a Dio di mantenere la sua promessa d’amore fecondo e santificante.

1  Al posto della XII Domenica del Tempo Ordinario quest'anno –come ogni anno in cui il 24 giugno cade di Domenica- si celebra la festa della Natività di S. Giovanni Battista. Si tratta di una festa antichissima risalente al IV secolo. Perché la data del 24 Giugno? Nell'annunciare la nascita di Cristo a Maria l'angelo le dice che Elisabetta sua parente è al sesto mese. Dunque il Battista doveva nascere sei mesi prima di Gesù e in questo modo è rispettata la cronologia (Il 24, anziché il 25 giugno, è dovuto al modo di calcolare degli antichi, non per giorni, ma per Calende, Idi e None)


Lettura Patristica
       Sacramentarium Veronense, n. 237


Il posto che occupa Giovanni Battista nella storia della salvezza spiega l’antica origine del suo culto in tutta la Chiesa. Sia l’Oriente che l’Occidente, già nel IV secolo conoscono la festa in onore del Precursore di Cristo, e numerose basiliche e templi sono dedicati al suo nome. L’Oriente celebra la commemorazione di Giovanni Battista il 7 gennaio, collegandola con l’Epifania del Signore, che nella liturgia orientale corrisponde al Battesimo di Gesù nel Giordano. L’Occidente, già nei tempi di sant’Agostino, sceglie la data del 24 giugno facendo riferimento al giorno della nascita di Cristo: la nascita di Giovanni ebbe luogo sei mesi prima di quella di Cristo. Il culto di Giovanni Battista si diffonde moltissimo nel V secolo; la festa è preceduta dalla veglia notturna; il giorno stesso della festa, poi come nel Natale, sono celebrate tre Messe. La festa diviene molto popolare, e il popolo ha legato con essa diversi costumi risalenti al paganesimo. In Oriente, sono comparse altre due feste in onore di san Giovanni: la memoria dell’Incarceramento e la memoria della Decollazione. Quest’ultima, attraverso la liturgia gallica entra, nel VI secolo nel calendario romano ed è celebrata il 29 agosto. È il giorno della dedicazione della chiesa di San Giovanni Battista a Sebaste di Samaria, dove i discepoli avrebbero seppellito il corpo del loro Maestro.

       «Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni» (Jn 1,6). Fu santificato già nel seno della madre, poiché doveva svolgere una grande missione nella storia della salvezza. Giovanni prepara il popolo alla venuta dell’atteso Messia, battezza Gesù e lo indica come Agnello che toglie i peccati del mondo. Cristo dirà di lui che tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni Battista.

       Grande per la sua missione, rimane pieno d’umiltà. Dice: «Viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali» (Lc 3,16); «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Jn 3,30).

       Giovanni nacque prima di Cristo, per primo cominciò ad insegnare al popolo, precederà anche Cristo nel sacrificio della vita. La Chiesa celebra il giorno della «nascita al cielo» dei suoi santi: per Giovanni fa una eccezione. La sua nascita preannuncia e prepara la nascita di Gesù.

       Celebrando la nascita di Giovanni, la Chiesa porge l’orecchio alla voce di Giovanni, che chiama alla conversione e chiede la sua intercessione: affinché la Chiesa sappia sempre riconoscere colui che Giovanni preannunciava; affinché i credenti camminino lungo la via indicata da Giovanni, l’unica via che porta a Colui che il Santo additava.

       Dio onnipotente ed eterno,

       concedi ai nostri cuori quella rettitudine

       nel seguire le tue vie

       che insegnò la «voce che grida» del beato Giovanni Battista.




venerdì 15 giugno 2018

La speranza: fiducia nell’amore di Dio.


XI domenica Tempo Ordinario - Anno B –  17 giugno 2018
 
Rito Romano
Ez 17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10; Mc 4, 26-34

Rito Ambrosiano
III Domenica dopo Pentecoste
Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12


1) L’uomo semina con fede, Dio fa crescere con amore.
Il Vangelo di questa domenica (Mc 4, 26-35) ci propone due brevi parabole: quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape. La semina del granello più piccolo produce l’evento più grande: il Regno celeste. Con immagini prese dalla vita dei campi Gesù presenta il Regno di Dio1 e indica le ragioni del nostro impegno pieno di speranza.
Nella prima parabola Gesù mostra il miracolo della crescita, descrivendo la dinamica della semina: il seme è gettato nella terra, poi, sia che il contadino dorma o vegli, questo seme germoglia e cresce da solo.
L’uomo non fa che seminare e aspettare. Siamo dinanzi al mistero della creazione, all’azione di Dio nella storia alla quale guardare con stupore. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo non è che un collaboratore umile, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e attende la raccolta desideroso di parteciparvi.
A questo riguardo San Gregorio Magno commenta: “L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va per gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo” (In Exod., II, 3, 5 s.)
Nella seconda parabola Gesù parla ancora della semina. Però, fa riferimento a un seme specifico, il grano di senape, considerato il più piccolo dei semi (1,6 millimetri secondo gli esperti). Anche se così piccolo, esso possiede una potenza di vita e un dinamismo impensabile. Così è il Regno di Dio, una realtà veramente piccola umanamente parlando e composta da persone in genere semplici, povere, da gente non importante agli occhi della società mondo. Nonostante ciò, attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è di poco conto e apparentemente insignificante. Il granellino di senape diviene alto e solido arbusto, capace di accogliere nei suoi rami gli uccelli. Il Regno di Dio, da un punto di vista umano, è come un piccolissimo seme disprezzabile dunque nella sua apparenza, ma contenente in sé il mistero di una forza divina prodigiosa, che per noi è inimmaginabile.
Sant’Ambrogio commentando questa parabola scriveva: “Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Dunque, se il Regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il Regno dei cieli, e il Regno dei cieli è la fede.”(Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186).
La prima lezione da imparare da questo brano di Vangelo è che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. In effetti, nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio nella persona e nell’opera di Gesù, come nelle persone ed opere dei cristiani, alla semina cristiana l’umanità intera crescerà nella piena giustizia, pace e libertà grazie all’amore provvidente di Dio.

2) Speranza e pazienza.
La seconda lezione che ci viene dalle due parabole di oggi è che anche e soprattutto in una società che ha fretta e che chiama “tempo reale” una notizia che arriva in pochi secondi, ci vuole l’attesa operosa e paziente perché il seme, dato gratuitamente, può fruttificare solamente se è accolto e curato.
Siamo messi a confronto con la grazia di Dio e la nostra libertà. Grazia di Dio e libertà dell'uomo contraddistinguono tutta la nostra storia personale. Da una parte siamo chiamati a vivere con stupore la crescita del piccolo seme gettato nel terreno (prima parabola). Dall’altra ci viene insegnato che decisiva è la pazienza nell’attesa e la cura prestata perché la terra lo protegga e lo nutra, e il sole lo porti a maturazione.
Il Vangelo è una scuola che educa all’attesa. Gesù ha vissuto nel tempo e nella finitezza di una vita breve e dagli orizzonti che paiono limitati e ristretti, ma ha atteso nulla di meno del Regno di Dio in questo mondo. Per questo possiamo raccogliere immagini evangeliche dell’attesa con le quali imparare a vivere il “già e non ancora”, l’attesa paradossale della vita cristiana.
Attendere non è facile, soprattutto oggi. Ma questo verbo “attendere” ha due significati: attendere ai lavori. Mi spiego riferendomi al vita ordinaria, di “casa”, dove a qualcuno è chiesto di “attendere” ai servizi più banali e quotidiani: dare da mangiare, vegliare sulla vita di coloro che gli sono affidati, preparare la tavola, tenere acceso il fuoco, vigilare sui pericoli incombenti. Si attende così, prestando cura ai fratelli affidati, non lasciandosi andare alla stanchezza provocata dal quotidiano nella sua banalità e non ricercando gratificazioni, cioè non pensando prima a se stessi, ma ai bisogni degli altri.
Attendere richiede un’ascesi, uno sforzo teso per non lasciarsi andare.
Si attende nella vigilanza di una luce accesa (nella preghiera) e in una vita attiva (carità) di chi sta con i fianchi cinti dal grembiule del servizio. Preghiera e carità sono gli esercizi che ci insegnano ad attendere. Chi prega impara che non subito il Signore parla e entra in dialogo con l’orante. C’è un silenzio da percorrere, ma proprio questo silenzio educa all’attesa e dona risonanza alle parole. Chi ama e serve conosce lo scarto tra il servizio reso e i sui frutti e riconoscimenti, perché occorre servire gratuitamente, da “servi inutili”, onorando il proprio compito senza altra preoccupazione.
Si tratta anzitutto di “fare la propria parte”, di non sottrarsi alla fatica nei giorni in cui sembra un “lavoro inutile”, senza immediati risultati.
L’altro significato di “attendere” è aspettare e ciò implica speranza e pazienza.
La pazienza è un “patire il tempo” (María Zambrano) e il vuoto di un’opera che non è tutta e solo nelle nostre mani, i cui tempi sfuggono alla nostra fretta e al nostro bisogno di controllo e di rassicurazione. Ma proprio per questo, fatta la nostra parte, possiamo riposare in pace, perché c’è un tempo che ci viene incontro “spontaneamente”, indipendentemente da noi. Come non si può “forzare” la crescita del seme se non a rischio di rovinare la pianta, così non si può forzare la crescita nostra e dei fratelli e sorelle, quindi dobbiamo imparare ad attendere nei tempi lunghi, a lavorare senza contingentare il tempo, senza dare scadenze forzate alla crescita.
È alla scuola del Vangelo che impariamo la vera pazienza che scandisce il tempo.. E in questa scansione il senso viene dal futuro, il tempo della pienezza rende ragione del tempo dell’attesa. Se la guardiamo dalla nostra parte, la storia comincia dal principio, se la guardiamo dalla parte di Dio, comincia dalla fine. Così, nella “pienezza del tempo”, è venuto il Figlio e gli uomini hanno capito che il tempo era giunto alla propria pienezza proprio per la sua presenza che lo portava a compimento. Egli viene proprio perché lungamente atteso dal lavoro paziente d’infinite generazioni che nella fede hanno seminato, nella speranza di vedere quel giorno. La sua venuta é però una vera sorpresa: l’attesa si scioglie nella gioia di contemplare l’abbondanza del campo del regno di Dio, l’ombra di un albero sotto il quale trovare riposo come uccelli scampati al pericolo.
La speranza consiste nell’abbandonarsi, in maniera filiale e fiduciosa, alle mani di Dio, il quale sa ciò di cui abbiamo bisogno (cfr. Mt 6,8), e “dona a tutti con semplicità e senza condizioni” (Gc 1,5). Come il Redentore, che abbandonò la Sua vita nelle mani del Padre (cfr. Lc 23,46), così il cristiano è ancorato nell’Eterno, essendo la sua speranza come un’àncora spirituale, sicura e salda, gettata nell’aldilà, dove per noi è già entrato Gesù (cfr. Eb 6,19-20).
Però occorre ricordare che la speranza cristiana è speranza di compimento di questa vita, e non di un’altra verso cui fuggire. Comporta l’accettazione della storia come luogo all’interno del quale si manifesta la presenza di Dio. Non genera disprezzo, ma provoca apprezzamento e gratitudine, pur nella consapevolezza del limite. È la forza interiore della fede che fa sì che gli uomini camminino con Dio, cerchino la Sua presenza, si impegnino a lavorare per l’avvento del Regno: “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”2. La speranza cristiana vede e ama ciò che sarà: è l’elemento dinamico della vita morale, che porta avanti in una crescita continua sia la luce della fede sia l’energia dell’amore. Essa - la speranza – è la sorella più piccola che tiene per mano e guida le due maggiori, la fede e la carità verso la meta3. Mentre siamo in cammino, in mezzo a prove e difficoltà personali e collettive, la speranza, generata dalla fede, genera la carità, sostenendone il movimento4.

3) Il granello di senape delle vergini consacrate nel mondo.
La parabola del granello di senape mostra che il metodo di Dio è quello dell’umiltà: il metodo fu realizzato nell’Incarnazione nella grotta di Betlemme, nella semplice casa di Nazareth e in tutta la vita “terrena” di Gesù. Nella Liturgia di oggi questo metodo dell’umiltà ci è insegnato mediante la parabola del granellino di senape.
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare che il piccolo (all’apparenza) seme cresca in noi e sia da noi donato agli altri. Un esempio di come si può imitare questo metodo dell’umiltà è quello che ci è offerto dalla vita delle vergini consacrate nel mondo che mostrano che “dando con semplicità la vita si ottiene la Vita” (Papa Francesco)
Consacrandosi all’Amore, queste donne hanno posto la loro speranza non in qualcosa che viene da Dio, ma in Dio stesso. A questo riguardo Sant’Agostino insegna: “Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti sperano da Dio qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio. Dimenticando le altre cose, ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).
Il granello di senape non è solo un paragone della speranza cristiana, ma mette in evidenza che il grande nasce dal piccolo non per mezzo di capacità eccezionali ma grazie all’atteggiamento cristiano di persone semplici che vivono dell’amore di Dio e della pazienza, che è il lungo respiro dell’amore.


1  Un’interessante riflessione di Joseph Ratzinger (alle pagg.176-7 di “Gesù di Nazareth”) può aiutarci a capire correttamente la pagina evangelica: "Regno di Dio" significa "signoria di Dio" e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. E' questa volontà che crea giustizia... Ecco perché Salomone chiede a Dio "un cuore docile" per essere in grado di rendere giustizia e distinguere il bene dal male; "un cuore docile" proprio perché sia Dio e non lui a regnare, perché, se non si è in perfetta sintonia con Dio, non si può esercitare la vera giustizia......Così il regno di Dio viene attraverso il "cuore docile". Allora la preghiera più importante che si può fare perché venga il regno di Dio è: "Facci tuoi, Signore! Vivi in noi! Fa' che "Dio sia tutto in tutti" (cfr. 1 Cor.15,26-28).



2  BenedettoXVI, Lett. enc. Spe salvi, n.2.

3  Cfr. Charles Peguy, Il portico della seconda virtù.

4  Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologica, 2-2 q. 17,a 8; 1-2, q. 62, a.4.)


Lettura Patristica
San Gregorio Magno,
In Exod., II, 3, 5 s.


I tempi della semina e i tempi del bene

       Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

       L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

       Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

       Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!


venerdì 8 giugno 2018

La vera famiglia di Cristo, dove la terra diventa Cielo.


X Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 10 giugno 2018


Rito Romano
Gen 3,9-15; Sal 129; 2Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35


Rito Ambrosiano
Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12
III Domenica dopo Pentecoste


  1. La vera famiglia di Cristo.
Il Vangelo, che la Liturgia della Chiesa propone oggi, ci ricorda che la volontà di Dio è volontà d’amore, di giustizia e di verità. E’ la volontà di un Padre che, con i suoi comandamenti, ci indica la strada della vita vera, lieta ed eterna.
Con la loro disobbedienza a Dio che li aveva creati, Adamo ed Eva hanno separato la volontà umana da quella divina, con la sua obbedienza Gesù ha riconciliato queste due volontà, realizzando il desiderio di Adamo e di tutti noi di essere completamente liberi e di abitare il cielo.
Per continuare l’opera di liberazione di Cristo, dobbiamo obbedirgli,
  1. dicendo il “Padre nostro che sei nei cieli … sia fatta la tua volontà come cielo così in terra” perché così riconosciamo che è nel ‘cielo’, il “luogo” dove si fa la volontà di Dio;
  2. facendo la volontà di Dio, cioè osservando i comandamenti, perché in questo faremo diventare la ‘terra’ ‘cielo’, cioè, luogo della presenza dell’amore, della bontà, della verità, della bellezza divina;
  3. seguendo la volontà di Dio ogni giorno e prendendo su di noi la nostra croce quotidiana, grazie alla quale diventeremo dei “Cristofori”, parola di origine greca che vuol dire portatori di Cristo.


Grazie a questa obbedienza d’amore non solamente vivremo una sempre più grande familiarità, portando con Cristo la nostra ‘terra’ nel ‘cielo’, ma saremo veri membri della sua famiglia.
Ciò che fa essere la “vera” famiglia di Cristo è la consonanza con Lui nel compiere “la volontà del Padre”. Mettendoci in questa sintonia, diveniamo “consanguinei con Cristo” nello Spirito. Non ci sono altre modalità per essere suoi famigliari. Il fare la volontà del Padre che è nei cieli è l’elemento decisivo che ci colloca “dentro” la vera famiglia del Redentore: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli” (Mt 7,21).
Se ciò vale per i discepoli di Cristo, vale in modo eminente per la Madonna. A questo riguardo, nel Sermone 72, Sant’Agostino si chiedeva: “Non fece forse la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale per fede credette, per fede concepì, fu scelta perché da lei venisse a noi la salvezza, fu creata da Cristo, prima che Cristo fosse fatto nel suo seno?”. La Madonna fece la volontà del Padre e la fece interamente; e perciò fu madre di Cristo e la sua più alta discepola.
Guardiamo con riconoscenza all’obbedienza della Vergine Madre, al suo sì, pronunciato non solo al momento dell’annunciazione ma incessantemente ripetuto fino ai piedi della croce, e chiediamole la forza di “fare” anche noi, come “fece” lei, la volontà di Dio, di cui sperimenteremo l’ amore e la fedeltà. Questa obbedienza è possibile per la spinta dello Spirito di Cristo, che invochiamo per intercessione della Vergine: “Vieni, o Spirito santo, vieni per Maria, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua silenziosa e potente parola ispiratrice, e chiuso a ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire, un cuore grande, forte, felice di palpitare solamente col cuore di Dio” (B. Paolo VI).


  1. Imitare la Madre nel fare la volontà del Padre.
Alle parole di Cristo: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” … “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mt 3, 33-35), oggi come duemila anni fa, possiamo reagire con il cosiddetto buon senso e pensare che Cristo stesse offendendo i suoi parenti e, soprattutto sua madre. Così facendo, sbaglieremmo perché giudicheremmo Cristo a partire dalla nostra piccola misura umana. Gesù non sconfessa la Madre per servire il Padre. Cristo insegna che Maria era sua Madre in quanto aveva fatto e faceva la volontà del Padre. “E’ questo che il Signore volle esaltare in lei: di aver fatto la volontà del Padre, non di aver generato dalla sua carne la carne del Verbo” (Sant’Agostino, In Io. Evang. tract.10,3 - PL 35,1468).
Per la Vergine Madre – e in questo dobbiamo imitarla - fare la volontà di Dio non fu sentire i comandamenti come costrizione esteriore, con la conseguenza di avere un rapporto servile con Dio e “legalista” con la sua parola. Per lei fare la volontà di Dio è stato dire di sì all’amore e dare carne a questo Amore redentivo.
Rinnovando il suo sì (fiat) a Dio, la Madonna ha fatto sì che nel suo cuore dimorasse l’amore, che è il “pieno compimento della legge” (Rm 13, 10) ed è diventata la madre e l’apostola dell’Amore, che vuole il nostro bene.
Facciamo altrettanto. Se vivremo come Maria vivremo Gesù.
In estrema sintesi: fare la volontà di Dio significa “vivere Gesù, di Gesù e come Gesù”, cioè vivere quel rapporto d’amore col Padre che si attua nel fare la volontà sua: figli nel Figlio.
Ciò facendo capiremo che l'unica volontà di Dio che dobbiamo fare è di amare.
Come amare poi, nelle circostanze concrete della vita, lo dobbiamo scoprire con il discernimento. Dunque dobbiamo saper cercare e discernere la volontà di Dio. A questo proposito, l’Apostolo Paolo raccomanda: “Non conformatevi alla volontà di questo secolo, ma trasformatevi..., per poter discernere la volontà di Dio” (Rm 12,2).
Essa si scopre momento per momento con l'ascolto e la docilità alla voce dello Spirito dentro di noi: “Camminate secondo [cioè sotto l'impulso del]lo Spirito”, scrive ancora l’Apostolo delle Genti (Gal 5, 16). Perciò è necessario affinare la sensibilità soprannaturale, l’“istinto” evangelico che lo Spirito ci ha dato e che si sviluppa solo esercitandolo.
Per ottenere questa sensibilità alla voce dello Spirito, San Paolo ritiene necessarie ancora due cose.
La prima è l’inserimento e il progresso nella vita di reciproco amore entro la vita della Chiesa che si manifesta nella comunità diocesana, parrocchiale o religiosa: “Prego [Dio] che la vostra carità [= amore cristiano vissuto nella comunità] si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio” (Fil 1,9-10).
La seconda è la preghiera, perché la conoscenza della volontà di Dio è anche un dono: “Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate una piena conoscenza della sua volontà”(Col 1,9).

3) L’esempio delle Vergini consacrate.
Un esempio speciale di come si possa fare la volontà del Padre ci viene dalle Vergini consacrate, che con una vita totalmente donata a Cristo Sposo fanno la volontà di Dio offrendoGli non solo quello che hanno, ma quello che sono. Con il “propositum” dell’ obbedienza hanno interamente donato il cuore a Dio, con quello della castità gli hanno offerto il corpo, con quello della povertà il loro beni per metterli a servizio dell’amore di Dio e del prossimo. A questi tre bracci della croce spirituale (obbedienza, castità e povertà) aggiungo quello dell’umiltà.
L’umiltà non gode – al giorno d’oggi e, forse non ha mai goduto – di una grande stima, ma le Vergini consacrate nel mondo sanno che questa virtù rende fecondo il lavoro nella vigna di Dio. Umiltà viene dalla parola latina humilitas, che ha a che fare con humus (terra), cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Queste donne, che si sono donate completamente a Dio, vivono da persone umili perché vivendo in Lui e per Lui ascoltano umilmente Cristo, la Parola di Dio, e tendono ad avere gli stessi sentimenti del loro Sposo (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” – Fil 2,5), da loro amato. E come diceva Sant’Agostino: “Non c’è carità senza umiltà” (Prologo del Commento alla Lettera di San Giovani) e in altro libro scrive: “Custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà” (Sulla Santa virginità, 51, 52).
La vocazione a vivere la verginità consacrata come dono completo di sé a Cristo e segno della Chiesa Sposa si esplicita nel loro affidarsi senza riserve all’amore del loro Sposo, all’intensità della comunione con Lui, all’umile carità che si fa servizio disinteressato alla Chiesa e testimonianza luminosa di fede, speranza e carità, nel contesto della vita ordinaria. Come chiede il Rito della loro consacrazione (cfr nn. 14-18) ogni vergine appartenente all’Ordo si impegna costantemente ed ha presente che la preghiera non è solo personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.




Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)
Sermo 25, 3.7




Legame di sangue e legame di spirito di Maria con Gesù
       Il brano che ho qui proposto ha molti nodi. Come ha potuto il Signore Gesù Cristo con tutta la sua pietà tenere a distanza sua madre, la Vergine madre, alla quale egli stesso diede tale fecondità che non ne distruggesse la verginità, Vergine nel concepire, Vergine nel partorire, Vergine sempre-Vergine. Una tal madre egli tenne a distanza, perché il materno amore non si insinuasse nell’opera ch’egli faceva e gli fosse d’impedimento. Che cosa, infatti, faceva? Parlava ai popoli, distruggeva i vecchi uomini, edificava i nuovi, liberava le anime, scioglieva gl’incatenati, illuminava i ciechi, faceva il bene, s’impegnava al bene in opere e parole. Mentre era impegnato in queste cose gli fu portato il messaggio del suo legame con la madre. Avete sentito la sua risposta; non ho bisogno di ripeterla. La ritengano le madri, perché non sian d’ostacolo alle opere buone dei figli. Se cercheranno d’impedirli e faranno dei guasti, saranno allontanate dai figli. Oso dire: Saranno allontanate, per rispetto saranno allontanate. E non dovrà essere tenuta a distanza dal figlio intento a un’opera buona, una madre irata, sia sposata o vedova, quando la Vergine Maria fu tenuta a distanza? Forse mi dirai: Vuoi paragonare mio figlio a Cristo? Non paragono tuo figlio a Cristo, ma neanche te a Maria. Non condannò il Signore Gesù l’affetto materno, ma il suo esempio dimostrò che, per l’opera di Dio, anche una madre dev’essere tenuta a distanza...

       State più attenti, fratelli miei carissimi a ciò che dice il Signore, stendendo le mani verso i suoi discepoli: "Questa è mia madre, questi i miei fratelli. Chi fa la volontà del Padre, che mi ha mandato, mi è fratello, sorella e madre" (Mt 12,49-50). Non fece forse la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale per fede credette, per fede concepì, fu scelta perché da lei venisse a noi la salvezza, fu creata da Cristo, prima che Cristo fosse fatto? Fece, fece certamente la santa Maria la volontà del Padre ed essa è più discepola che madre di Cristo. C’è più felicità ad essere discepola che madre di Cristo. Perciò Maria era beata, perché, anche prima che lo concepisse, portava il maestro nel suo seno. Vedi se non è come dico io. Mentre Gesù passava tra turbe di gente e faceva miracoli divini, una certa donna disse: "Beato il ventre che t’ha portato!" E il Signore, perché non si cercasse la felicità in un rapporto di carne, che cosa rispose? "Anzi, beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la tengono ben custodita" (Lc 11,27-28). Anche Maria beata, allora, perché ascoltò e conservò la parola di Dio. Maria custodì più Cristo con la mente, che non ne abbia tenuto la carne nel seno.



venerdì 1 giugno 2018

Pane dei pellegrini


Corpus Domini - Anno B –  3 giugno 2018
 
Rito Romano
Es 24, 3-8; Sal 115; Eb 9, 11-15; Mc 14, 12-16. 22-26.
Corpus Domini

Rito Ambrosiano
Sir 16,24-30; Sal 148; Rm 1,16-21; Lc 12,22-31
II Domenica di Pentecoste
 

1) Presenza nel mondo, per salvarlo
In questa domenica in cui si festeggia il Corpus Domini1, festa di lode e di ringraziamento, la Chiesa non solo celebra l’Eucaristia, ma la reca solennemente in processione, annunciando pubblicamente che il Sacrificio di Cristo è per la salvezza del mondo intero. Bisogna portare Cristo sulle strade del mondo, perché Colui che le fragili specie dell’Ostia velano è venuto sulla terra proprio per essere “la vita del mondo” (Gv 6, 51).
Con questa processione siamo annunciatori cioè missionari, e persone con una meta santa cioè pellegrini.
Siamo missionari perché camminando uniti attorno al Corpo di Colui, che è il Signore del cosmo e della storia, portiamo Cristo al mondo intero e con Lui l’annuncio di quella pace che Lui ci ha lasciato e che il mondo non può dare. La nostra processione eucaristica ci permette di testimoniare con umile gioia che in quella piccola Ostia candida, che il Sacerdote porta devotamente, c’è la risposta agli interrogativi più assillanti. C’è il conforto di ogni più straziante dolore. C’è, in pegno, l’appagamento di quella sete bruciante di felicità e di amore che ognuno si porta dentro, nel segreto del cuore.
Siamo pellegrini perché andiamo verso l’eterna patria celeste. Siamo pellegrini non soltanto per l’inquietudine dell’eterno, che possediamo in comune con ogni essere umano, ma per vocazione. Cristo ci chiama a condividere la sua amicizia e la sua missione. Non siamo soli nel nostro pellegrinaggio: con noi cammina Cristo, Pellegrino che rinnova la presenza di Dio sulle strade del mondo, Pellegrino con i pellegrini sulla strada di Emmaus. Emmaus significa il luogo dove Cristo spezza se stesso quale Pane della vita, Pane degli angeli, Pane dei pellegrini “panis angelorum, factus cibus viatorum -” (Sequenza della Messa di oggi) che ci dà la forza di riprendere il cammino con Lui, per Lui, in Lui.
Oggi, “festa del Corpus Domini, abbiamo la gioia non solo di celebrare questo mistero, ma anche di lodarlo e cantarlo per le strade della città dove abitiamo. La processione che si fa al termine della Messa, possa esprimere la nostra riconoscenza per tutto il cammino che Dio ci ha fatto percorrere attraverso il deserto delle nostre povertà, per farci uscire dalla condizione servile, nutrendoci del suo Amore mediante il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue” (Papa Francesco)
Dunque per poter compiere il cammino della vita, che la processione di oggi significa, occorre cibarsi dell’Eucaristia, di questo Pane degli angeli che si è fatto cibo per gli uomini, affamati di verità, di amore e di libertà.
Stupiti della vicinanza grandissima di Cristo, che abita nelle nostre Chiese, che sta nelle nostre mani, che non aspetta altro che dimorare in noi, non ci resta che prendere come cibo Lui, che “ha preso la nostra carne e il nostro sangue perché la Sua carne e il Suo sangue possano essere la nostra vita” (Card. John Henri Newman).
Cerchiamo di avere lo stesso stupore della Vergine Maria che con sguardo rapito contemplava il volto di Cristo a Betlemme come a Gerusalemme. Dalla Culla alla Croce la Madonna non smise di guardare con fede amorosa il volto di Figlio e di stringerlo con pietà tra le sue braccia non appena nato e non appena morto, sia la nostra Madre celeste il modello di amore a cui deve ispirarsi la nostra adorazione eucaristica. In questo modo vivremo l’Eucaristia non come semplice gesto devozionale, ma come gesto della vita e che influisce sulla vita.

2) Presenti alla PRESENZA.
Il mistero2 eucaristico ha tre aspetti: sacrificio, comunione e presenza. La festa del Corpo del Signore soprattutto celebra un aspetto, quello della presenza reale. Non possiamo e non dobbiamo separare i tre aspetti propri di questo mistero, ma ciò non ci impedisce oggi di riflettere principalmente sul mistero della presenza reale, per essere presenti a questa Presenza, che si dona completamente a noi.
Ogni qualvolta noi facciamo un atto di fede nella Presenza reale del Cristo noi facciamo un atto che è molto superiore e quello di tutto Israele che ha passato il Mar Rosso. In questo caso, Israele passò dalla terra dell'esilio a una terra di libertà. E noi grazie all’Eucarestia passiamo da questo mondo a quello del Padre.” (D. Divo Barsotti).
Il 15 ottobre 2015, nell’incontro di Benedetto XVI con i bambini della prima Comunione, uno di loro, Andre fece questa domanda: “La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima Comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell'Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!”. Benedetto XVI rispose: “Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere... Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione... Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene”.
Il cuore della risposta di Benedetto XVI colpisce davvero nel segno: “Proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti”. In fondo è il segreto che la volpe rivela al Piccolo Principe del bel racconto di Antoine de Saint-Exupery: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”3.
Poco sopra, ho proposto la Madonna come modello di persona adorante il Presente, il Figlio di Dio che aveva preso la sua carne. Adesso propongo come esempio un’altra Maria: la Maddalena. Presentiamoci al Cristo nel tabernacolo come questa donna si presentò ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola (Lc 10, 39). Certamente era era più contenta di vedere Gesù più che di ascoltare le sue parole. Il suo volto santo, il suo sguardo, il suo sorriso, il suo perdono toccavano il cuore di Maria Maddalena. Gesù è lo stesso nel SS.mo Sacramento. Semplicemente mettiamoci ai suoi piedi come Maria, nella gioia di essere con Lui.
C’è anche l’esempio del contadino, parrocchiano del Santo Curato d’Ars. Questo umile, semplice lavoratore della terra, dopo una giornata nei campi stava in chiesa e guardava il tabernacolo, senza aprire bocca. Alla domanda del suo Santo parroco: “Che dici in questo tempo di adorazione?”, il contadino rispose: “Io guardo Lui e Lui guarda me”. Quando Gesù guarda un’anima, Lui le dona la sua somiglianza - diceva Santa Teresa d’Avila – ma occorre che quest’anima non smetta di fissare solamente su di Lui il suo sguardo. Quando San Pietro camminando sulle acque tolse gli occhi da Cristo per guardare la tempesta, cominciò ad affondare. Pietro imparò la lezione e ci insegna anche oggi a tenere fissi gli occhi sul volto del Signore “come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1,19). Se diamo tempo a Cristo nella preghiera e, in particolare, nell’adorazione avremo come dono Cristo stesso che ci tende la mano e ci tira fuori dall’acqua che affoga.
“L’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: ‘Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me’” (Benedetto XVI). L’adorazione del Ss.mo Sacramento è sempre preparazione e ringraziamento della Messa. Essa costituisce il momento per eccellenza nel quale sviluppiamo e facciamo cresce in noi l’offerta di noi stessi, completamente. In effetti, il significato dell’adorazione eucaristica non è solo quello di mettersi in ginocchio davanti alla presenza di Cristo nel sacramento, ma anche di unirci all’offerta pura e perfetta del nostro Salvatore. L’adorazione eucaristica ci dona il desiderio e la forza di metterci senza esitazione nelle mani di Dio, in totale e lieto abbandono in Lui.
Un esempio ditale offerta di ci viene dalla Vergini consacrate nel mondo. Queste donne manifestano con la vita ciò che il loro cuore crede e adora. Esse testimoniano che è possibile vivere eucaristicamente mediante la loro offerta totale a CristoSposo eucaristico. Queste donne testimoniano come ogni consacrazione al Signore deve esprimersi sempre mediante lofferta completa di sé. il mistero eucaristico ha anche un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questultima è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che lei accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. NellEucaristia la verginità consacrata trova ispirazione e nutrimento della sua dedizione totale a Cristo(Benedetto XVI,  Sacramentum Caritatis, 81).
Con un’esistenza che si alimenta del Corpo di Cristo, le donne consacrate mostrano che la verginità non è soltanto capacità di offrirsi completamente in dono a Dio, ma la di accogliere il dono di Dio, la scelta di Dio.
Con la loro vita alimentata dallEucaristia, sono testimoni visibili dellamore di Dio invisibile mostrando nella semplicità della vita quotidiana che la vita umana può diventare eucaristia. Così mostrano che la preghiera diventa vita e la vita diventa preghiera.


1 Questa festa, nella sua forma storica, è sorta nel secolo 13° e si è sviluppataampiamente nelle Comunità cattoliche in tutto il mondo. Tuttavia linizio diquesta festa può essere visto già in quella prima processione composta dagliapostoli, che circondavano Cristo e nello stesso tempo portandolo nei loro cuoricome Eucaristia, uscirono dal cenacolo verso il monte degli Ulivi. Era il Giovedìsanto.

2 Per chi crede, “mistero” non è qualcosa di oscuro, in cui nulla c’è da capire. Alcontrario, si tratta di qualcosa di così profondo, in cui c’è sempre qualcosa dinuovo da scoprire e mai possiamo dire di averne raggiunto il fondo.

3 A. De Saint-Exupery, Il piccolo principe, Milano 1979, p. 98.


Lettura (quasi) Patristica
San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa
(Opuscolo 57, nella festa del Corpo del Signore, lect. 1-4)
 
O prezioso e meraviglioso convito!
L'Unigenito Figlio di Dio, volendoci partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura e si fece uomo per far di noi, da uomini, dèi.
Tutto quello che assunse, lo valorizzò per la nostra salvezza. Offrì infatti a Dio Padre il suo corpo come vittima sull'altare della croce per la nostra riconciliazione. Sparse il suo sangue facendolo valere come prezzo e come lavacro, perché, redenti dalla umiliante schiavitù, fossimo purificati da tutti i peccati.
Perché rimanesse in noi, infine, un costante ricordo di così grande beneficio, lasciò ai suoi fedeli il suo corpo in cibo e il suo sangue come bevanda, sotto le specie del pane e del vino.
O inapprezzabile e meraviglioso convito, che dà ai commensali salvezza e gioia senza fine! Che cosa mai vi può essere di più prezioso? Non ci vengono imbandite le carni dei vitelli e dei capri, come nella legge antica, ma ci viene dato in cibo Cristo, vero Dio. Che cosa di più sublime di questo sacramento?
Nessun sacramento in realtà è più salutare di questo: per sua virtù vengono cancellati i peccati, crescono le buone disposizioni, e la mente viene arricchita di tutti i carismi spirituali. Nella Chiesa l'Eucaristia viene offerta per i vivi e per i morti, perché giovi a tutti, essendo stata istituita per la salvezza di tutti.
Nessuno infine può esprimere la soavità di questo sacramento. Per mezzo di esso si gusta la dolcezza spirituale nella sua stessa fonte e si fa memoria di quella altissima carità, che Cristo ha dimostrato nella sua passione.
Egli istituì l'Eucaristia nell'ultima cena, quando, celebrata la Pasqua con i suoi discepoli, stava per passare dal mondo al Padre.
L'Eucaristia è il memoriale della passione, il compimento delle figure dell'Antica Alleanza, la più grande di tutte le meraviglie operate dal Cristo, il mirabile documento del suo amore immenso per gli uomini.