venerdì 29 luglio 2016

La vita è essere non avere.

XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 31 luglio 2016
Rito Romano
Qo 1,2;2,21-23; Sal 89; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21


Rito Ambrosiano
1Re 21,1-19; Sal 5; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
XI Domenica dopo Pentecoste


1) Donare per vivere.
Il brano del Vangelo (Lc 12, 13-21), che la liturgia della Messa di questa 18ª Domenica propone, fa parte di un discorso di Gesù sulla fiducia in Dio che scaccia ogni timore (Id. 12, 6-7) e sull’abbandono alla provvidenza di Dio (Id. 12, 22-32). Si tratta di un testo che si integra perfettamente con la prima lettura della liturgia di oggi e che è preso dal libro del Qoelet. In questo libro dell’Antico Testamento si parla della vanità di ogni cosa umana e terrena, cioè della precarietà dell'esistenza umana e dei beni materiali.
Gesù non disprezza i beni della terra, non contesta le brevi gioie terrene. Non vuole disamorarci di questa vita. Ci dice che essa è un cammino verso la felicità e che è raggiungibile nella sua pienezza solamente con e in Lui.
Cristo insegna che non c’è domani per chi vive solo di cose materiali. Chi vive solo per il corpo, non vive o, se vive, la sua vita è come un soffio, è vanità, perché chi accumula solo per sé, disperde (Lc 11, 23). Non c'è domani duraturo per chi vive di cose, perché le cose hanno un termine e il dramma delle cose è che la loro fine è polvere.
“L’uomo che accumula per sé” spegne da solo la propria vita e sostituisce il desiderio di infinito con infinite cose vane. Chi dice a se stesso: “Riposati, mangia, bevi, godi” vive senza mistero, “senza sapere che l’essere cristiano è l’inquietudine più alta dello spirito, è l’impazienza dell'eternità in un mondo perverso che crocifigge l’amore» (Kierkegaard).
Allora la domanda giusta è “come arricchirsi davanti a Dio?”: “donando!”. Davanti a lui siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. “Alla fine della vita saremo giudicati dall’Amore” (S. Giovanni della Croce), un amore ricevuto, donato, condiviso. L'essere umano vive di vita donata, di vita ricevuta e trasmessa. Quando smettiamo di trasmettere vita attorno a noi, in quel momento la vita in noi dissecca. L’uomo vive anche del lieto godimento del pane quotidiano, ma di un pane che sia “nostro”, da chiedere e da donare, e che ci faccia, insieme, quotidianamente dipendenti dal cielo, dal Padre “nostro”, provvidente e misericordioso.

2) La vita non dipende da quello che si ha.
La frase di Gesù: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni», esprime la sostanza della parabola di oggi che parla del ricco soddisfatto di avere tante cose e quindi pensa di avere la vita che dura. Il Messia parla di uno stolto che crede di essere al sicuro per molti anni, avendo accumulato molti beni e a cui la notte stessa viene chiesto conto della vita. Quindi, insegna quanto sia stupido e vano mettere la propria fiducia nel possesso. E' da stolti credere che la salvezza, la vita redenta consista nel possedere sempre di più. Per inciso va notato che non è condannato il semplice possesso, ma l’illusione di trovare sicurezza nel possesso.
Credo che sia lecito affermare che il Redentore ha trasformato in parabola un concetto della tradizione sapienziale dell’Antico Testamento. E’ il concetto di “vanità” che trova la sua espressione più acuta nel libro di Qoelet: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Che significa? Qoelet (Ecclesiastico) è un uomo disincantato che guarda al fondo di tutte le esperienze dell'uomo: tutte le cose che l’uomo cerca e realizza non mantengono quanto promettono: al fondo sono inconsistenti. Qoelet individua, in particolare, tre forme di vanità: la sterilità dello sforzo dell'uomo; la fragilità dei traguardi raggiunti; le numerose anomalie e ingiustizie di cui è piena la vita. Ma la parabola di Gesù non si limita a constatare la vanità e non intende semplicemente disincantare l'uomo, liberandolo dal fascino del possesso. Indica più profondamente la vera via della liberazione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio” (Lc 12, 21). Dunque, è il “per sé” che è sbagliato e che deve essere sostituito dall’orientamento di arricchirsi “davanti a Dio”.
Questo orientamento implica tre cose concrete.
La prima è che arricchirsi davanti a Dio vuol dire non cadere nella tentazione dell’affanno, dell'ansia, come se tutto dipendesse da noi e solamente da noi.
La seconda è che questo evangelico arricchirsi verso Dio significa subordinare tutto – quello che siamo e abbiamo: lavoro, beni, affetti e la vita stessa – a Dio ed al suo amore.
La terza è che l’arricchirsi davanti a Dio implica– come ho scritto più sopra – donare, soprattutto “dare in elemosina”, praticando quindi la misericordia. Questo implica vivere la vita come “elemosina” (=misericordia) e come dono di sé, nella condivisione dei beni e del bene: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma” (Lc 12,33).
L’arricchirsi “davanti a Dio” si concretizza nel vivere “per gli altri” (Ibid. 12,33). La ricchezza davanti a Dio cresce nella condivisione. Invece l’arricchirsi “per noi stessi” ci mette nelle mani della vanità, che ci lascia con un pugno di polvere.
Se c’è qualcosa che possiamo portare con noi sempre - e, quindi, anche oltre la morte - è il bene fatto e condiviso e non i beni accumulati, che essendo terreni restano sulla terra.
Questo non vuol dire che noi cristiani disprezziamo le cose create. Anzi, quando smettiamo di volere possedere o consumare le creature, queste sono valorizzate veramente e ne vediamo la bellezza vera e non fugace. Quando usiamo i beni per il bene, già sulla terra la nostra vita è lieta. Ciò che Dio ha creato, non ce l’ha dato perché noi lo accumulassimo, ma per servircene nel cammino verso il nostro destino eterno. Per questo preghiamo: “Insegnaci, Signore, a usare saggiamente i beni della terra, sempre orientati ai beni eterni” (Liturgia delle Ore, Orazione delle Lodi – Domenica, I Settimana ).

3) Esempio delle Vergini consacrate nel mondo.
Un esempio di come vivere questo orientamento ai beni eterni è quello offerto dalle Vergini consacrate nel mondo. Il tesoro di queste donne non consiste nei beni che hanno e che –pochi o tanti che siano- loro si impegnano ad usare con spirito di povertà. La loro vera ricchezza è l’amore di Dio.
Vivendo con fedeltà la consacrazione a Dio, testimoniano con tutta la loro esistenza la verità del Salmo 15 (16): “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu, 
solo in te è il mio bene...

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: 
nelle tue mani è la mia vita.

Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: 
la mia eredità è stupenda” (vv 1-2.5-6).
Queste donne con la vita si arricchiscono verso Dio e con l’aiuto del Salmo si rivolgono a Dio con pace perché hanno scelto il Signore quale loro rifugio. Non mancano a loro le difficoltà, che la vita quotidiana porta, ma sono “ricche” di Dio e si mettono a costante servizio dei fratelli in Cristo.
Con la preghiera di questo salmo, che si concretizza nella loro vita, le vergini consacrate ripetono spesso a Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”.
Queste donne in preghiera sono certe che la loro vera sorte, la loro vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che dà loro pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. Questa certa e vera ricchezza non è avaramente tenuta per se, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce.
Da questo salmo imparano - e lo insegnano a noi - a percorrere giorno dopo giorno “il sentiero della vita” (Ibid. v. 11), che porta all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio.
La vocazione delle vergini consacrate è scelta d’amore e di vita e diventa un segno di immortalità per tutti coloro che credono e amano Dio. La loro testimonianza aiuta a dire la preghiera: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace” (Santa Teresa d’Avila).



Lettura Patristica
San Basilio di Cesarea (329 - 379)
In illud «Destruam», 1


La tentazione è di due specie. A volte le avversità provano il cuore come l’oro nella fornace (Sg 3,6), quando attraverso la pazienza ne mettono in luce tutta la bontà; a volte, e non di rado, la prosperità della vita tiene per alcuni il posto della tentazione. È ugualmente difficile, infatti, conservare nelle avversità un animo nobile e guardarsi da un abuso nella prosperità. Della prima tentazione è modello Giobbe, quel grande atleta che sostenendo con animo indomito l’impeto scrosciante del diavolo, fu tanto più grande della tentazione, quanto più grandi e quasi inestricabili furono le prove a lui inflitte dal nemico. Esempio della tentazione che nasce dalla prosperità è quel ricco che, avendo già molte ricchezze, ne sognava ancora delle altre; ma il buon Dio a principio non lo condannò per la sua ingratitudine, anzi, lo favorì con sempre nuove ricchezze, in attesa che il suo animo si volgesse una buona volta alla generosità e alla mansuetudine. Ma: "Il campo del ricco portò frutti abbondanti ed egli andava pensando: Che farò? Demolirò i miei granai e ne farò di più grandi" (Lc 12,16-18).


       Perché fu fertile il campo di quell’uomo, che non avrebbe fatto nulla di buono con quella ricchezza? Certo perché risplendesse di più l’indulgenza di Dio, la cui bontà si estende anche a costoro, poiché: "fa piovere sui giusti e sui malvagi e fa che il sole nasca per i buoni e per i cattivi" (Mt 5,45). Ma questa bontà di Dio accresce poi la pena contro i malvagi. Dio mandò la pioggia sulla terra coltivata con mani avare, diede il sole per riscaldare i semi e moltiplicare i frutti. Da Dio viene la terra buona, il clima temperato, la fecondità dei semi, l’opera dei buoi che sono i mezzi della ricchezza dei campi. Ma qual è stata la reazione dell’uomo? Modi amari, odio, scarsezza nel dare. Questo era il ricambio a tanta magnificenza ricevuta. Non si ricordò dei suoi simili, non pensò che il superfluo dovesse essere distribuito agli indigenti, non fece nessun conto del comando: "Non ti stancare di dare al bisognoso" (Pr 3,27) e: "Spezza il tuo pane con chi ha fame" (Pr 3,3). Non sentiva la voce dei profeti, i suoi granai scoppiavano da ogni parte, ma il suo cuore avaro non era sazio. Aggiungendosi sempre nuovi prodotti ai vecchi, finì in questa inestricabile povertà di mente, che l’avarizia non gli consentiva di sottrarre ciò che superava e non aveva magazzini ove deporre la nuova ricchezza. Perciò non trova una soluzione, è affannato. "Cosa farò?" È infelice per la fertilità dei suoi campi, per quello che ha, più infelice per quello che aspetta. La terra a lui non produce dei beni, gli porta sospiri; non gli accresce abbondanza di frutti, gli porta preoccupazioni, pene, ansietà. Si lamenta come i poveri. Il suo grido cosa farò? non è il medesimo che emette l’indigente? Dove troverò il cibo, il vestito? Il ricco fa lo stesso lamento. È afflitto. Ciò che porta gioia agli altri, uccide lui. Non si rallegra, quando i granai son tutti pieni; le ricchezze sovrabbondanti e incontenibili lo feriscono; ha paura che qualche goccia, che n’esca, sia motivo di sollievo a un indigente.

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