Rito romano
XXVI
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 29 settembre 2013
Am
6.1 4-7; Tm 6.11-16; Lc 16,19-31
Il
povero salva il ricco
Rito
ambrosiano
V
Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is
56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38
Amate
i nemici
1)
Una lezione per vivere il presente e un comando sconcertante.
La
prima Lettura e Vangelo della liturgia romana, che ci narra la
parabola del povero Lazzaro e del ricco mangione (questo è il
significato del termine epulone1)
indicano come vivere il presente e non hanno come scopo quello di
impaurirci circa la punizione futura se non ci comportiamo bene.
Questi due brani biblici ci dicono che chi cerca la propria sazietà
non può preoccuparsi dei propri fratelli bisognosi e non è in grado
di riconoscere il Figlio di Dio nel povero Lazzaro. Lazzaro è
Cristo, che ha sofferto in sé ogni nostro dolore e che ha le piaghe
dell’amore crocifisso e che sta alla porta di casa nostra e
aspetta.
Guardiamo
la scena raccontata da Cristo: vi vediamo un
uomo ricco, senza nome o, meglio, il cui nome è la ricchezza che ha,
il nome del secondo è: Lazzaro2
(= Colui che è assistito da Dio, perché di suo non ha nulla).
Entrambi sono sotto lo sguardo dell'Altissimo, ma ricevono
diversamente la sua presenza.
Il
primo non ne ha bisogno, ha del suo, che gli permette di godere –in
modo autonomo da Dio- la vita con pranzi abbondanti e di vestirsi con
abiti eleganti. L'altro non ha altri che Dio, non ha di che mangiare
e il corpo è “rivestito” di piaghe. Gli uomini lo scansano,
solamente i cani gli si avvicinano e lo consolano.
Guardiamo,
ora, a noi stessi: anche noi abbiamo delle piaghe che possiamo
nascondere sotto tutte le ricchezze possibili, ma Dio le conosce.
Queste lacerazioni ci fanno giacere per terra e implorare il cielo,
acuiscono la nostra fame di pienezza e sono “feritoie” che ci
aprono al Mistero ... Beati noi, quando avvertiremo forte la
nostalgia dell'essere “povero”, perché è la verità del nostre
essere uomo. Siamo poveri, ma non lo neghiamo a noi stessi, perché
camuffi ciò che siamo, se non ci mettiamo a livello di Dio pensiamo
di poterne fare a meno. Cosa abbiamo che non abbiamo ricevuto da Lui?
Ricordiamoci che il regno dei cieli ci appartiene, proprio perché
siamo poveri di cuore, siamo figli, siamo uomini ... come Gesù ...
per questo siamo “ricchi”, ricchi del Suo amore, ricchi del
nostro avere Dio per Padre.
Allora
saremo capaci dell’impossibile: “amare
i nemici” (come ci è
ricordato nel vangelo ambrosiano di oggi).
Un
monaco del Monte Athos commenta così questo stupefacente comando di
Cristo: “Ci
sono degli uomini che augurano ai loro nemici ed ai nemici della
Chiesa pene e tormenti nel fuoco eterno. Essi non conoscono l'amore
di Dio, pensando così. Chi ha l'amore e l'umiltà del Cristo piange
e prega per tutto il mondo. Tu forse dici: questi è un malfattore,
deve perciò bruciare nella fiamma eterna. Ma io ti domando:
Ammettiamo che il Signore ti dia un posto nel suo regno, se tu vedi
nel fuoco eterno colui al quale hai augurato l'eterno tormento, non
avrai compassione per lui, anche se egli fosse stato nemico della
Chiesa? Hai forse un cuore di sasso? Ma nel Regno dei Cieli non c'è
posto per dei sassi. Lì ci vuole l'umiltà e l'amore di Cristo, che
ha compassione per tutti.”
E conclude con questa preghiera: “Signore,
come tu hai pregato per i tuoi nemici, così insegna anche a noi per
lo Spirito Santo ad amarli e a pregare con lacrime anche per loro. Ma
è difficile per noi peccatori se non è con noi la tua grazia”.
Ci
sia di esempio San Francesco d’Assisi, povero e umile perché non
c'è nulla di più grande che imparare l'umiltà e la mendicanza di
Cristo (Lazzaro è
il simbolo di Gesù mendicante di amore).
L'umile vive povero e contento, tutto è buono al suo cuore. Solo gli
umili e i poveri di cuore vedono il Signore, nello Spirito Santo.
L'umiltà è la luce nella quale noi vediamo Dio che è la luce:
nella sua luce noi vediamo la luce. Nel giorno di Dio “muore” la
nostra aurora.
2)
La morte non è una livella, è una bilancia.
Questo
bilanciamento che è mostrato dalla seconda
parte della parabola, dove le parti sono invertite: ora il ricco è
in basso e Lazzaro è in alto. La
morte fa vedere che il Regno di Dio ha vinto. Quando uno muore apre
gli occhi. La
morte è il momento in cui si vedono le cose come stanno veramente.
La morte è la drammatica porta che permette al crepuscolo della
nostra alba umana di “morire” nella luce del giorno senza fine di
Dio.
Entrano
in scena anche gli altri cinque fratelli dell’epulone (sesto
fratello), che continuano a vivere “spensierati” nella loro
ricchezza. È proprio il loro vivere da ricchi che li rende ciechi di
fronte al settimo
(numero che è segno di pienezza) fratello
(Gesù), che è vicino, appena al di là della porta, oltre la quale
non vogliono guardare perché c’è il povero piagato e sono ciechi
di fronte alle Scritture (eppure così chiare).
Il
ricco di questa parabola non osteggia Dio e non opprime il povero,
semplicemente non lo vede, vive come se Dio non esistesse e non
c’entrasse con la sua vita.
Ora,
il ricco mendica al povero una goccia d’acqua e chiede che i suoi
fratelli siano avvertiti. Ma a che servirebbe avvertirli? Hanno già
i profeti e Mosè, non occorre altro. Non sono le voci che mancano,
non sono le verifiche, ma la libertà per comprendere, la lucidità
per vedere. Il vivere da ricco rende ciechi.
La
strada della Croce è cammino della luce, che conduce al Paradiso.
Questa strada ha un nome solo: carità, con molti sinonimi:
misericordia, pietà, compassione, condivisione, solidarietà,
comunione, unità, accoglienza, partecipazione, assunzione.
La
via che porta al Cielo si chiama Cristo. Non ci sono altre vere vie.
Non si conoscono altre strade. Non ci sono altri sentieri. L'amore
puro, vero, reale, spirituale, fatto di grande concretezza, di dono
della propria vita e delle proprie sostanze conduce al Cielo. E su
questa strada si sono messe le Vergini consacrate, sulle quali il
giorno della consacrazione il loro Vescovo ha pregato: “Che
loro brucino di carità e non amino niente al di fuori di Te,
Signore. Che meritino ogni lode senza compiacersene; che cerchino di
rendere gloria a Te con un cuore purificato, in un corpo santificato;
che ti temano con amore e, per amore, Ti servano. E Tu, Dio sempre
fedele, sii la loro fierezza, la loro gioia e il loro amore; sii per
loro consolazione nella pena, luce nel dubbio, ricorso
nell’ingiustizia”
(Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).
1
Dal latino: da
épulae
vivande, épulum
banchetto. Nel mondo pagano dell’antica Roma, il sostantivo
epulone
indicava ciascuno
dei membri del Collegio
sacerdotale incaricato
di organizzare
un convito
solenne in occasione
dei sacrifici in onore
di Giove
capitolino. Nel mondo cristiano, con riferimento
al protagonista
della nota
parabola che si legge
nel Vangelo
di san Luca (16, 19-31), indica una persona
ricca ed egoista,
un ghiottone,
un mangione.
2
Di questo nome non si conosce la forma femminile. Le sue origini
sono molto antiche ed è arrivato fino a noi dalla trasformazione
della parola ebraica El'azar, composta da El-, che è
l'abbreviazione di un nome dato a Dio, e '-azar con significato di
venire in aiuto, quindi Lazzaro
vuol dire “Dio
aiuta, Dio soccorre”,
con un significato complessivo che è una forma di ringraziamento
al Signore.
Lettura
Patristica
S.
Giovanni Crisostomo3
Omelia
II su Lazzaro
“Il ricco Epulone
non commise propriamente un'ingiustizia nei confronti di Lazzaro,
considerato che non gli tolse i suoi beni. Il suo peccato fu di non
avere messo in comune con lui quel che gli era "proprio"...
Il fatto è che non mettere in comune con l'altro quel che si
possiede, ebbene, questo è già una forma di rapina. Non
meravigliatevi, e non giudicate come stravagante quel che vi sto
dicendo. Proporrò ora alla vostra attenzione un testo della
Scrittura nel quale vengono qualificati come avarizia, frode e furto
non solo l'atto di portare via l'altrui, ma anche quello di non
mettere in comune con gli altri il proprio. Di che testimonianza
biblica si tratta? Dunque, di quella in cui Dio, riprendendo i giudei
per bocca del profeta, dice loro: "La terra ha dato i suoi
frutti, eppure voi non avete portato le decime, e ora la rapina del
povero sta nelle vostre case" (cfr. MI 3,10). Per non aver fatto
le offerte abituali, avete strappato ai poveri i loro beni: questo è
quanto dice il testo. E lo dice per dimostrare ai ricchi che essi
hanno ciò che appartiene al povero, e questo anche nel caso che essi
l'abbiano ereditato dal loro padre, o che a loro il denaro venga da
qualunque altra fonte. Come pure dice in un altro luogo: "Non
rifiutare il sostentamento al povero" (Sir 4,1). Rifiutare di
dare significa prendere e tenersi l'altrui. E subito dopo, il passo
ci insegna anche che, se cessiamo di fare l'elemosina, saremo
castigati alla stessa maniera di quelli che sottraggono con
l'inganno. In conclusione: i beni e la ricchezza appartengono al
Signore, quale che sia la fonte, a partire da cui li abbiamo poi
messi assieme... E se il Signore ti ha concesso di possedere più
degli altri, non è stato certo perché tu ne spendessi in amanti e
in gozzoviglie, in banchetti e in indumenti lussuosi, o in qualunque
altra forma di sperpero. È stato perché tu ne distribuissi tra
coloro che ne hanno bisogno. Se un esattore nasconde per sé i soldi
dello stato e non li distribuisce a coloro ai quali gli è stato
comandato di darli, ma li impiega per soddisfare i propri vizi,
ebbene, costui dovrà presto o tardi rendere conto di ciò, e lo
aspetterà solo la pena di morte. E dunque: il ricco non è diverso
da un esattore incaricato di riscuotere del denaro, che deve poi
venire distribuito ai poveri; esattore al quale sia stato comandato
di ripartire quel denaro tra quanti, dei suoi compagni di servizio,
si trovano nel bisogno. Se egli impiega per se stesso più di quel
che richiede la necessità, allora si troverà a doverne rendere
conto nella maniera più rigorosa, perché il suo non è in realtà
suo, ma di coloro che, come lui, sono servi del Signore... Se non
riuscite a rammentarvi di tutto quel che vi ho detto, vi supplico che
per sempre vi resti in mente almeno questo, che vale anche per tutto
il resto: non dare ai poveri dei beni propri, è come rubare loro e
attentare alla loro vita. Ricordatevi che noi non disponiamo del
nostro, bensì del loro”.
3
San
Giovanni di Antiochia
detto Crisostomo
(=Bocca d’oro) per la sua eccellenza nel predicare, nacque intorno
al 349 ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, nel sud della Turchia),
vi svolse il ministero presbiterale per circa undici anni, fino al
397, quando, nominato Vescovo di Costantinopoli, esercitò nella
capitale dell’Impero il ministero episcopale prima dei due esili,
seguiti a breve distanza l’uno dall’altro, fra il 403 e il 407,
anno in cui morì. Il Crisostomo si colloca tra i Padri più
prolifici: di lui ci sono giunti 17 trattati, più di 700 omelie
autentiche, i commenti a Matteo e a Paolo (Lettere
ai Romani,
ai
Corinti,
agli
Efesini
e agli
Ebrei),
e
241 lettere.
San
Giovanni Crisostomo si preoccupò di accompagnare con i suoi scritti
lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica,
intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono
paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di
questi mari è l’infanzia» (Omelia
81,5
sul
Vangelo di Matteo).
«In questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e
alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio
impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia
3,1
sul
Vangelo di Giovanni):
di fatto è questa l’età più importante.
«All'infanzia
segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti...,
perché in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia
81,5
sul
Vangelo di Matteo).
«Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella
quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare
moglie” (ibid.).
Del matrimonio questo Padre delle Chiesa ricorda i fini,
arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza –
di una ricca trama di rapporti personalizzati.
Gli
sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si
svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù.
Quando
poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre
diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti»
(Omelia
12,5
sulla Lettera ai Colossesi),
e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia
20,6 sulla
Lettera agli Efesini).
Sollecito
per i poveri, Giovanni fu chiamato anche «l’Elemosiniere». Da
attento amministratore, infatti, era riuscito a creare istituzioni
caritative molto apprezzate ed efficienti.
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