Rito romano
XXIII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 8 settembre 2013.
Sap
9, 13-18; Sal 89; Fm 1,9b-10.12-17; Lc 14, 25-33
Rito
ambrosiano
II
Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is
5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32
Santità
non è fare grandi cose, ma obbedire come figli, cioè liberi.
1)
Amare il Padre più del padre.
Alle
numerose persone che camminano con Lui perché Lui è il senso della
vita, Gesù rivolge l’invito a rompere tutti i legami, persino
quelli con se stessi (Lc
14,25-26). L’Evangelista Luca è minuzioso e insistente
nell'elencare i legami da rompere e, inoltre, conserva in tutta la
sua paradossalità il verbo greco misein
(odiare). San Matteo usa il verbo greco fileo1
che qui si può tradurre con «preferire», e - penso - giustamente.
Anche San Luca, ovviamente, non intende odiare nel vero senso della
parola. Pur collocando il verbo «odiare» nel suo significato più
proprio di posporre,
subordinare decisamente,
queste parole di Gesù mantengono intatta la propria forza. Egli sa
bene che i genitori devono essere amati e rispettati. Si tratta,
anche per lui, non di odio, ma di distacco, di preferenza del Regno:
tuttavia egli ha conservato il verbo greco misein
che indica, senza dubbio, un distacco radicale.
Non si tratta
soltanto di rompere i legami con la famiglia, né basta un generico
distacco da se stessi: l'esempio di Gesù è molto concreto e
preciso: occorre essere disposti a portare la croce (versetto 27),
cioè essere pronti all'effettivo e totale dono di sé.
Le
parabole della torre e del re (14,28-32) insegnano che bisogna
riflettere bene prima di buttarsi in un'impresa, occorre calcolare le
possibilità e creare le condizioni che permettono di concluderla con
successo
La
sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi, perché
prima di intraprendere a seguire Gesù occorre «calcolare e
riflettere». Questo non significa trovare i modi per sfuggire alla
logica della croce, bensì trovare i modi per condurla fino alle
estreme conseguenze. Questo è il calcolo richiesto al discepolo.
Ma
che cosa significa in concreto «calcolare e riflettere?». Ce lo
dice il versetto 33: “Così
chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio
discepolo”. Solo nel
distacco dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono
totale. Come per costruire una torre è necessaria una sufficiente
quantità di mattoni ed i soldi per acquistarli, così per seguire
Gesù è necessario il distacco dai beni.
In
effetti non si può amare il Bene se il nostro cuore è attaccato ai
beni.
La
differenza tra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa
valutazione del sacrificio e della vita, fino a rinunciarvi perché
come dice il Salmo: “La
tua grazia vale più della vita”.
Il
sacrificio è redentivo, perché è la strada che Cristo ha percorso
per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua
vera casa.
Il
sacrificio è educativo, perché ci impedisce di cullare l’illusione
che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di
scambiare la misera via del pellegrino con la luminosa ed eterna
felicità della patria.
2)
Seguire per amore e senza mezze misure.
Per
raggiungere questa patria dobbiamo lasciare tutto per avere il Tutto,
seguendo Cristo, che ci mostra che chi ama non muore, che solamente
l'amore vince la morte. In effetti amando non si muore, si vive
nell’altro o, meglio, si vive in Dio per sempre. Chiamati all’esodo
dietro Cristo, Mosè definitivo, i cristiani sono chiamati a
combattere le mezze misure. Due mezze misure fanno un intero solo in
matematica. Cristo da noi vuole la misura intera, piena. Il nostro
peccatto più frequente è, penso, il peccato di omissione: non è
tanto il male che si fa, qunato il bene che non si fa o, piuttosto,
il bene che si fa a metà. Nella vita cristiana la somme di due mezze
misura dà come risultato la
mediocrità2.
Questa parola è eloquente: designa lo stato di chi si stabilisce
nella mezza misura, di chi serve due padroni e che non può che
essere tiepido, ma “Dio
vomita i tiepidi”
(Ap
3,16):
Seguire
Cristo è una “mortificazione” (=fare morte) di ciò che è
caduco per una vita liberata, redenta. La rinuncia non
è nel cristianesimo fine a se stessa, è sempre la via per aprirsi
agli altri e all’Altro per eccellenza. Per andare verso l’altro,
bisogna prima uscire da se stessi.
Seguire
Cristo, camminare con Lui esige un uscire da noi stessi, da un modo
di vivere la fede stanco e abitudinario.
Per andare dietro a Gesù come Lui esige non basta la commozione del
cuore ma bisogna assumere la sua logica d’amore che ha come vertice
la Croce e come esito la Risurrezione. Il dono della vita che Cristo
ha fatto fu ed è un dono che porta vita, per sempre.
Seguire
Cristo è dedicarsi alla preghiera infatti
“l’orazione,
esercitando l’anima, la unisce a Dio e le fa seguire le vestigia di
Cristo crocifisso; così Dio fa di essa un altro se stesso, per
desiderio, affetto e unione d’amore”
(Santa Caterina da Siena, Il
Dialogo della divina Provvidenza,
cap. 1). Con l’amore (agape) Dio stesso assicura in noi la
continuità della sua presenza in noi. L’amore di due esseri ne fa
uno.
In
ciò ci sono di testimonianza le Vergini consacrate le quali offrono
l’esempio di seguire Cristo abbandonandosi alla divina Provvidenza
in un atteggiamento sponsale. Conformemente al Rito della loro
Consacrazione quando il Vescovo chiede loro: “Volete
seguire Cristo secondo il Vangelo in modo tale che la vostra vita
appaia come una testimonianza d’amore e segno del Regno di Dio?”,
“Volete
essere consacrate al Signore Gesù Cristo, il Figlio del Dio
altissimo e riconoscerlo come sposo”,
esse rispondono: “Sì,
lo vogliamo”
(RCV 17).
In
effetti la consacrazione verginale implica una
confidenza illimitata nel Figlio di Dio. “Chi
si dona completamente a Dio non teme di abbandonare anche tutte le
umane cose, per dedicarsi unicamente alle cose divine, per dedicarsi
tutto a Dio, per cercare il Regno di Lui e la sua giustizia, per
sgombrare dal suo cuore tutti gli affetti terreni, in una parola, per
seguire Cristo, e stringersi alla beata nudità della sua croce,
morendo su di quella alla terra, e vivendo solo al cielo: mentre dove
sta il suo tesoro, ivi si trova pure il suo cuore”
(Antonio Rosmini, Massime
di perfezione cristiana,
lezione V).
1
Il verbo philéô
significa
“amare” nel senso di “volersi bene, avere caro, trattare con
affetto, baciarsi (fra amici), accogliere amichevolmente un ospite”.
Philéô
era il verbo che esprimeva l'idea di “affetto fra amici” (il
sostantivo philós
significa infatti in greco “l'amico”). Con philéô
si indicava un rapporto interpersonale fondato sull'uguaglianza,
sull'affinità all'interno di una comunità, di una città, di una
razza. Infatti, come aggettivo, philós
significa “caro” e veniva usato nella relazione fra genitori e
figli o tra fratelli. Il verbo philéô
ricorre 9 volte in
Giovanni,
5 volte in Matteo,
1 volta in Marco,
2 volte in Luca;
2 volte nelle Epistole. Nel senso di “avere caro, aver affetto”
Gesù usa talvolta questo verbo nei confronti di Lazzaro e di
Giovanni (Gv.
11,
3, 36; 20,2), rivelando così una particolare tenerezza e
preferenza.
Il
verbo agapáô
significa “amare” nel senso di “avere caro, tenere in gran
conto, preferire, prediligere”: è usato per indicare l'amore
verso Dio, il Cristo, la giustizia o il prossimo. Rispetto a philéô,
il verbo agapáô
ha una minore sfumatura affettiva o, per meglio dire, emotiva ed
esprime un moto di benevolenza ideale, un tipo di amore che parte
dall'alto o che all'alto si rivolge. Nel latino della Vulgata
il verbo agapáô
è tradotto con díligo,
da cui l'italiano “prediligere”. Agapáô
ricorre 37 volte in
Giovanni,
13 volte in Luca,
8 volte in Matteo,
5 volte in Marco;
si trova inoltre 25 volte nelle Lettere di Giovanni. Nel discorso
dell'Ultima Cena riportato in
Giovanni il
Cristo usa sempre questo verbo: “Come il Padre ha amato me, così
anch'io ho amato voi” (15,9), “amatevi gli uni gli altri”
(15,18), fino a quell'ultima preghiera (Gv.
17) in cui il Cristo, donandosi completamente agli uomini, dice: “E
io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché
l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.
La
differenza tra l'amore espresso da philéô
e quello espresso da agapáô
- differenza in realtà ignota ai Greci dell'epoca classica -
risulta particolarmente chiara dal capitolo 21 (15-17) di Giovanni,
dove il Cristo pone a Pietro per tre volte la nota domanda: "Mi
ami tu?". In realtà la prima e la seconda domanda recano il
verbo agapáô:
“Dopo
aver pranzato, dice Gesù a Simon Pietro: " Simone di Giovanni,
mi ami (agapâs)
tu più di costoro?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che
io ti voglio bene (philô).
Gli dice: “Pasci i miei agnelli”. Gli dice per la seconda volta:
“Simone di Giovanni, mi ami (agapâs)
tu?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio
bene (philô)”.
Gli dice: “Pasci il mio gregge”. Gli dice per la terza volta:
“Simone di Giovanni, mi vuoi bene (phileîs)?””.
La
terza volta il Cristo usa il verbo philéô
perché, prima della Pentecoste, gli apostoli, compreso Pietro,
vivevano ancora l'amore secondo rapporti di sangue, secondo affinità
di gruppo o di famiglia: essi recepivano insomma il valore
dell'"amore" secondo la connotazione espressa dal verbo
philéô.
Soltanto dopo la Pentecoste, quando sarà discesa su di essi la
fiamma dell'amore cristico, gli apostoli comprenderanno appieno il
valore universale dell'agápê,
tanto che Paolo così potrà parlarne nell’“Inno alla carità”
(1 Cor
13, 1-8).
2
Mediocrità è parola che indica, per es, 1. La
posizione intermedia tra due estremi; 2. la modesta qualità o lo
scarso di una cosa: mediocrità della merce; 3. La qualità modesta
di una persona, che, quindi, viene qualificata come mediocre.
Lettura
patristica
Sant’Agostino
d’Ippona
Discorso
344
L'AMORE
DI DIO E AMORE DEL MONDO.
Lotta
fra i due amori.
1.
Lottano tra loro in questa vita, in ogni tentazione, due amori:
l'amore del mondo e l'amore di Dio. Quello dei due che vince trae
dalla sua parte, come per una forza di gravità, colui che tende ad
esso. A Dio non veniamo con ali o con i piedi, ma con l'affetto. Per
un contrario affetto anche alla terra siamo attaccati, non per nodi o
legami fisici. Cristo è venuto a mutare la direzione dell'amore e a
mutare l'uomo, da amatore che era di cose terrene ad amatore di vita
celeste. Fattosi uomo per noi, lui che ci ha fatto uomini, lui Dio,
ha assunto la natura umana per farci da uomini dèi. Questa gara ci
viene proposta: una lotta con la carne, una lotta col diavolo, una
lotta col mondo. Ma dobbiamo avere fiducia, perché chi ha indetto la
gara, non sta lì come spettatore senza darci aiuto e neanche ci
esorta a presumere delle nostre forze. Chi presume infatti delle
proprie forze, in quanto è uomo, si fida delle forze dell'uomo. Ed è
detto: Maledetto l'uomo
che confida nell'uomo.
I martiri che ardevano della fiamma di questo pio e santo amore
bruciarono la paglia della carne con la forza dell'animo e giunsero
integri nello spirito presso Colui da cui erano stati accesi. Anche
alla carne che sia stata capace di disprezzare le cose di questa
sfera materiale sarà dato il dovuto onore nella risurrezione dei
morti. La carne è stata seminata in ignominia per risorgere nella
gloria.
Amore
ai parenti ma piú a Dio.
2.
A chi è acceso di questo amore a Dio o meglio perché vi si accenda
è stato detto: Chi ama
il padre o la madre più di me non è degno di me,
e: Chi non prende la
sua croce e non mi segue non è degno di me.
Dio non ha tolto l'amore dei genitori, della moglie, dei figli ma lo
ha messo in gerarchia di valori. Non ha detto: " Chi ama ",
ma: chi ama più di me.
E` quello che la Chiesa dice nel Cantico
dei Cantici: Ha messo in me un ordine nell'amore.
Ama dunque il padre, ma non amarlo più del Signore, ama chi ti ha
generato ma non più di chi ti ha creato. Il padre ti ha generato ma
non ti ha formato lui stesso come tu sei. Ignorava quando ti seminò
chi e quale figlio gli sarebbe nato. Il padre ti alimentò ma non
diede a te, quando avevi fame, un pane tratto da se stesso. Infine,
qualunque cosa il padre tiene in serbo per te in terra, deve morire
perché tu ne venga in possesso, deve far posto con la sua morte alla
tua vita. Quel padre che è Dio invece ti tiene in serbo cose che ti
dà insieme a se stesso; tu possiedi l'eredità insieme con tuo padre
e scompare l'alternanza predecessore- successore; non devi aspettare
che muoia ma sarai sempre con lui, che rimarrà per sempre, e tu
rimarrai sempre in lui. Ama dunque tuo padre, ma non più del tuo
Dio. Ama tua madre, ma non più della Chiesa che ti ha generato alla
vita eterna. E dallo stesso amore che unisce figli e genitori giudica
quanto tu debba amare Dio e la Chiesa. Se tanto vanno amati coloro
che hanno generato un mortale, quanto più coloro che hanno generato
chi giungerà all'eternità e in essa rimarrà! Ama la moglie, ama i
figli ma secondo Dio, in modo da aver cura che anch'essi venerino Dio
insieme con te. Quando sarai congiunto a lui non avrai più da temere
separazioni. Perciò non devi amarli più di Dio e li ameresti male
se trascurassi di condurli a Dio insieme con te. Può presentarsi
anche l'ora del martirio. Tu vuoi far professione di fede a Cristo.
Per questa professione puoi subire torture, puoi subire la morte
temporale. Si può dare il caso che padre, moglie, figli insistano
per strapparti alla morte, e con questi tentativi ti procurerebbero
la morte. Se non riescono a procurartela, ecco allora ti verrà in
mente questo monito: Chi
ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me, non è
degno di me.
Nessun commento:
Posta un commento