XXVIII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 9 ottobre 2016
Rito
Romano
2Re
5,14-17; Sal 97; 2 Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Rito
Ambrosiano
1Re
17,6-16; Sal 4; Eb 13,1-8; Mt 10,40-42
VI
Domenica
dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
1)
La guarigione della lebbra del cuore.
Gesù
è in cammino verso Gerusalemme, dove sa che dovrà affrontare la
morte per fare passare lui e l’umanità intera nella “terra”
promessa del Cielo. In questo “esodo” verso la Città della Pace
dove farà la Pasqua (il passaggio di ritorno al Padre, il passaggio
dalla morte alla vita), Lui non lascia nulla di non visitato dalla
sua presenza, nulla di non toccato dalle sue sante mani e dal suo
sguardo di misericordia, che guarisce anima e corpo.
In
questo cammino verso Gerusalemme, che è a sud della Terra Santa,
Gesù segue un percorso geograficamente assurdo, perché va a nord
verso la Samaria e la Galilea. Ma Lui segue la mappa del cuore e va
verso il centro passando per le periferie non tanto geografiche
quanto esistenziali. In effetti chi è più periferico dei lebbrosi,
sono dei morti viventi, perché soprattutto a quei tempi dovevano
stare fuori dall’umana convivenza. Erano condannati ai margini
della vita perché infetti, portatori di una malattia ritenuta
contagiosa e che rendeva impuri, immondi.
Questi
dieci lebbrosi rappresentano
l’umanità intera, intossicata dal peccato, condannata a morte,
quindi incapace di fare il cammino della vita. Gesù ordina a tutti
(noi compresi) di camminare e di andare a far “certificare” il
miracolo della guarigione dai sacerdoti, come prescrive la legge
mosaica.
Ma
non basta obbedire e camminare, occorre prendere coscienza del dono
ricevuto. Purtroppo, uno solo, un samaritano (cioè uno che
all’emarginazione della malattia univa l’emarginazione di essere
disprezzato dagli altri perché eretico), torna da Cristo per
ringraziarlo della guarigione data a tutti. Grazie a questo gesto
eucaristico (eucaristia vuole dire ringraziamento) ricevette la
guarigione del cuore.
In
effetti, in questo incontro tra Gesù è i lebbrosi
due sono le parole chiave: “pietà” e “grazie”.
L’invocazione
“Signore, pietà”, “Signore, abbi misericordia di noi
peccatori” introduce ogni celebrazione eucaristica (che vuole dire
“di grazie”) ed è la preghiera che ognuno di noi rivolge al
Signore all’inizio della Messa.
L’importante
è che l’invocazione: “Signore, pietà” si trasformi in
“grazie”. In questo modo riconosceremo pienamente che la nostra
miseria ha bisogno di misericordia.
Alla
domanda di
essere accolti e amati nonostante il nostro male e che si esprime con
l’invocazione
“Ti prego, Signore, salvami” (Sal
114, 4), Cristo
risponde con la sua misericordia infinita, nella quale siamo guariti
ad un livello superiore a quello che chiediamo.
In effetti, con il miracolo di oggi, il Signore ci insegna che ci
sono due
livelli di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo;
l’altro, più profondo, tocca l’intimo della persona, quello che
la Bibbia chiama “cuore”, e da lì si irradia a tutta
l’esistenza. La
salute del corpo non è contro quella del cuore, anzi la
guarigione completa e radicale è la salvezza che fa in modo che il
nostro cuore non resti lontano da Cristo.
Teniamo
presente, poi, che la
salvezza è la relazione con lui, sorgente della vita, non l’essere
mondato dalla lebbra, perché poi ci si ammala ancora e si muore.
Quindi la salvezza non è semplicemente l’essere mondati, guariti.
La salvezza è un’altra cosa, non è la buona salute, perché
quella presto o tardi se ne va. La salvezza è la comunione con lui,
il tornare a lui, glorificare Dio a gran voce. Redenzione è lo stare
con Lui, Paradiso nostro; è l’essere contenti del dono ricevuto e
dire a gran voce: “Amo il Signore perché ascolta il grido della
mia preghiera. Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo
invocavo” (Sal
114 1-2). E’ nell’eucaristia che noi viviamo la fede e l’incontro
con lui che ci ha amati e salvati. Allora andiamo con gratitudine
alla sorgente della nostra fiducia che è il suo amore, grazie al
quale possiamo vivere.
2)
Salvati grazie al nostro grazie.
Il
ritorno (che è sinonimo di conversione) del lebbroso guarito fu
dettato dalla riconoscenza verso il Messia che l’aveva sanato. Ma
in questo gesto possiamo riconoscervi anche il riconoscimento di
Cristo, Sommo Sacerdote, al qual non più la legge mosaica ma la
nuova legge dell’amore “impone” di andare perché sia Lui a
certificare la salute recuperata. L’invocazione di compassione per
la terribile malattia che corrompe il corpo mediante il “grazie”
diventa esperienza di amore e di comunione.
Ora
non è più solamente un lebbroso guarito, ma un uomo salvato.
Questo
Samaritano ha intuito che tornando da Gesù per glorificare Dio è
accessibile a lui ciò prima gli era proibito: il
Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo.
Quest’uomo
redento spinto dalla gratitudine si accosta
con piena fiducia al trono della Grazia, per ricevere misericordia e
trovare Grazia ed essere aiutato al momento opportuno (cfr.
Eb. 4, 15-16).
Quest’uomo,
che era distrutto, disprezzato, solo e isolato, fa esperienza di
salvezza e non solamente gli è ridonata una dignitosa vita terrena,
gli è donata la Vita che non passa più.
L’importante
che anche noi andiamo da Cristo mendicando pietà e dicendogli:
“grazie”, così anche in noi riaccadrà l’esperienza di Gesù
guaritore e, soprattutto, redentore che salva
nel corpo e nel cuore.
In
un modo che può sembrare paradossale ma corretto possiamo dire che
il lebbroso salvato (cioè ciascuno di noi che è pentito e
riconoscente) diventa
l’annuncio vivente del Vangelo della vita.
Oggi,
per noi, avviene in un certo senso la stessa cosa: se imploriamo
pietà e diciamo grazia diventiamo veri discepoli di Cristo, suoi
fedeli annunciatori.
E’
questo l’insegnamento del resto del racconto odierno di San Luca:
Gesù loda la fede del samaritano lebbroso e lo indica come
annunziatore della buona e lieta novella. Questa è affidata a chi
–grazie alla fede - riceve la purificazione dalla lebbra del
peccato e la salvezza dell'anima, la redenzione del cuore. Con Romano
il Melode preghiamo:
“Come hai purificato il lebbroso dalla sua infermità, o
Onnipotente, così guarisci il
male
delle nostre anime, tu che sei
misericordioso,
per intercessione della
Madre
di Dio, o medico delle nostre anime,
Amico
degli uomini e salvatore immune da
peccato”
(Inni, 23, Proemio).
Il
lebbroso samaritano di oggi è ciascuno di noi, malati della lebbra
del peccato, purificati dal perdono del Messia, che opera in noi una
profonda guarigione interiore e, per questo, siamo costituiti veri
discepoli di Gesù salvatore del mondo.
La
grandezza del samaritano è stata quella di mettere non solo la sua
salute, ma tutta la sua vita nelle mani del Signore.
A
questo punto possiamo domandarci che cosa abbia spinto il miracolato
di oggi ad abbandonarsi a Cristo con un cuore lieto e pieno di
riconoscenza. Possiamo farci anche una domanda analoga, valida per
situazioni meno drammatiche: “Che cosa spinge le vergini consacrate
nel mondo a riporre tutta la propria vita ai piedi di Cristo-Sposo
perché ne faccia ciò che gli è gradito?” Non può che essere la
stessa profonda certezza che animò il cuore di Maria davanti
dall’annuncio dell’Angelo a Nazareth e fin sotto la Croce a
Gerusalemme , che diede forza a San Giuseppe di fronte al compito che
Dio gli affidava, che sostenne gli Apostoli dinanzi al martirio: la
compassione di Dio si è chinata su di noi, la Misericordia
dell’Eterno è scesa qui sulla terra ed ha assunto un volto umano.
È Cristo il nostro unico vero Bene ed Egli non vuole altro che il
nostro Bene. Egli è nato ed è morto per questo, è risorto ed è
qui, Presente nell’Eucaristia, per questo. Per questo possiamo
abbandonarci a Lui senza riserve, per questo possiamo recarci da Lui,
inginocchiarci supplici, e riporre nel Suo Volere tutta la nostra
vita, per sentirci dire ancora: “Ti voglio bene”.
L’affidamento
delle Vergini consacrate ci sia esempio quotidiano, semplice e
imitabile per legare la nostra fiducia a Gesù,
che con il suo santo e puro amore ci comunica purità e salute piena.
Nella nostra vita di ogni giorno sperimentiamo che la guarigione ha
inizio quando sappiamo di poter contare su qualcuno che vuole il
nostro bene, che ci sta accanto, ed è disposto a portare il nostro
male, sia esso malattia o peccato.
Ecco,
la compassione radicale vissuta da Gesù chiede a ciascuno di noi di
interrogarsi sulla propria capacità di stare accanto a chi si sente
impuro e malato. Come dimenticare che, proprio il giorno in cui ha
deciso di abbracciare un lebbroso, Francesco d’Assisi ha capito
sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo
cammino di sequela fino a divenire “somigliantissimo a Gesù”,
fino a somigliarGli “fisicamente” con le stimmate?
Gesù
è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che
guarisce le nostre malattie, ma questo suo servizio agli uomini ha
un caro
prezzo.
Egli non può più entrare pubblicamente nei villaggi, ma è
costretto a rimanere in luoghi deserti, a vivere cioè la situazione
che era prima del lebbroso: Gesù
cura e guarisce gli altri al prezzo dell’assunzione su di sé del
loro male.
Il testo latino della profezia di Isaia sul Servo del Signore dice,
tra l’altro: “Noi lo consideravamo come un lebbroso” (Is
53,4b); sì, Gesù, il Servo, il Messia, il Salvatore, si è fatto
per noi come un lebbroso, per guarire la nostra lebbra nel corpo e
nello spirito! Così, sulla croce sarà piagato come un lebbroso: ma
noi possiamo fissare in lui il nostro sguardo nella speranza sicura
della guarigione, certi della compassione di colui che “ha preso su
di sé le nostre sofferenze e i nostri mali” (Is 53,4a).
Lettura
Patristica
Bernardo
di Chiaravalle
De
diversis,
23, 5-8
La
gratitudine promuove sempre più grazie
"Non
furono dieci a essere guariti; e gli altri nove dove sono?"
(Lc
17,17).
Penso che ricordiate che son queste le parole del Salvatore, che
rimproverava l’ingratitudine di quei nove. Si vede dal testo quanto
abbiano saputo ben pregare coloro che dicevano: "Gesù,
figlio di David, abbi pietà di noi"
(Lc
18,38);
mancò però l’altra cosa di cui parla l’Apostolo (1Tm
2,1),
il ringraziamento, perché non tornarono a render grazie a Dio.
Anche oggi vediamo
molti impegnati a chiedere ciò di cui sanno d’aver bisogno, ma
vediamo ben pochi che si preoccupano di ringraziare per ciò che
hanno ricevuto. E non è che è male chiedere con insistenza; ma
l’essere ingrati toglie forza alla domanda. E forse è un tratto di
clemenza il negare agli ingrati il favore che chiedono. Che non
capiti a noi di essere tanto più accusati d’ingratitudine, quanto
maggiori sono i benefici che abbiamo ricevuto. È dunque un tratto di
misericordia, in questo caso, negare misericordia, com’è un tratto
d’ira mostrare misericordia, certo quella misericordia di cui parla
il Padre della misericordia attraverso il Profeta, quando dice:
"Facciamo
misericordia al malvagio, ed egli non imparerà a far giustizia"
(Is
26,10)...
Vedi, dunque, che non
giova a tutti essere guariti dalla lebbra della conversione mondana,
i cui peccati son noti a tutti; ma alcuni contraggono un male
peggiore, quello dell’ingratitudine; male che è tanto peggiore,
quanto è più interno...
Fortunato quel
Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse
ricevuto, e perciò tornò a ringraziare il Signore. Fortunato colui
che a ogni dono, torna a colui nel quale c’è la pienezza di tutte
le grazie; poiché quando ci mostriamo grati di quanto abbiamo
ricevuto, facciamo spazio in noi stessi a un dono anche maggiore. La
sola ingratitudine impedisce la crescita del nostro rapporto di
grazia, poiché il datore, stimando perduto ciò che ha ricevuto un
ingrato, si guarda poi bene di perdere tanto più, quanto più dà a
un ingrato. Fortunato perciò colui che, ritenendosi forestiero, si
prodiga in ringraziamenti per il più piccolo favore, e ha coscienza
e dichiara che è un gran dono ciò che si dà a un forestiero
sconosciuto. Noi però, miserabili, sebbene a principio, quando
ancora ci sentiamo forestieri, siamo abbastanza timorati, umili e
devoti, poi tanto facilmente ci dimentichiamo quanto sia gratuito
tutto ciò che abbiamo ricevuto e, come presuntuosi della nostra
familiarità con Dio, non badiamo che meriteremmo di sentirci dire
che i nemici del Signore sono proprio i suoi familiari (Mt
10,36).
Lo offendiamo più facilmente, come se non sapessimo che dovranno
essere giudicati più severamente i nostri peccati, dal momento che
leggiamo nel salmo: "Se
un mio nemico mi avesse maledetto, l’avrei pure sopportato"
(Ps
54,13).
Perciò vi scongiuro, fratelli; umiliamoci sempre più sotto la
potente mano di Dio e facciamo di tutto per tenerci lontani da questo
orribile vizio dell’ingratitudine, sicché, impegnati con tutto
l’animo nel ringraziamento, ci accaparriamo la grazia del nostro
Dio, che sola può salvare le nostre anime. E mostriamo la nostra
gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità;
perché il Signore nostro, che è benedetto nei secoli, non vuole
tanto parole, quanto azioni di grazie. Amen.
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