Domenica
XXXII del Tempo Ordinario – Anno B – 8 novembre 2015
Rito Romano
1Re
17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44
Rito
Ambrosiano
Is 49,1-7; Sal 21; Fil
2,5-11; Lc 23,36-43
Ultima Domenica
dell’Anno Liturgico Ambrosiano
Nostro Signore Gesù
Cristo Re dell’Universo
1) Umiltà vera.
Nel Vangelo, che la
Liturgia ci propone questa domenica, sono raccontate due scene di
vita che accadono anche oggi e che ci invitano ad un esame di
coscienza, su come deve essere il nostro modo di essere cristiani:
umili e devoti. Infatti, anche a noi oggi Gesù dice quello che, nel
Tempio di Gerusalemme, insegnò ai suoi discepoli: “‘Guardatevi
dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti
nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei
banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi
vedere. Essi riceveranno una condanna più severa’. Seduto di
fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti
ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò
due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi
discepoli, disse loro: ‘In verità io vi dico: questa vedova, così
povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti
hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua
miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per
vivere’”. (Mc 12,38-44)
Il primo scopo della
prima scena, nella quale il Cristo parla degli scribi è quello di
denunciare alcuni modi sbagliati di agire, che possono essere di
qualsiasi uomo religioso, in ogni epoca. Uomini simili si rivelano,
anzitutto, nei loro atteggiamenti vanitosi, un difetto che potrebbe
anche farci sorridere ma sempre, purtroppo, attuale.
Gli scribi si
esibiscono con abiti ricercati, pretendono deferenza e venerazione.
Ma la cosa più grave è che costoro hanno introdotto nella loro vita
l’inganno (“divorano le case delle vedove e ostentano lunghe
preghiere”). Un duplice inganno, quello di separare il culto di Dio
dalla giustizia: si prega Dio e si danneggiano i poveri. E quello,
ancor peggiore, che consiste nell'illudersi di amare Dio e il
prossimo, e invece gli scribi non amano che se stessi. L’autorità
morale di cui godono, la dottrina che possiedono, le pratiche
religiose che compiono, tutto è utilizzato da loro a mettersi in
luce, tutto è strumentalizzato a loro vantaggio. Persino i criteri
della giustizia finiscono con l’identificarsi con il loro
tornaconto.
Credo che sia
importante notare che lo scopo del Redentore non è solo quello di
invitare all’umiltà, denunciando la superbia e l’ipocrisia degli
scribi. Dopo averli disapprovati quali falsi, ingannevoli maestri,
con la seconda scena, che ha come protagonista una povera vedova,
Gesù indica questa donna come esempio di maestra vera, che insegna a
donare tutto. In questo modo con un esempio “piccolo” tutti
potremo cogliere l’esempio grande di Cristo, che ha donato se
stesso fino a morire per noi per darci la vita.
Questa scena si svolge
nel cortile del tempio di Gerusalemme, a cui avevano accesso anche le
donne. In questo cortile erano disposte tredici ceste, in cui
venivano gettate le offerte. Era un gesto fatto di fronte a un
sacerdote del Tempio, che verificava l’autenticità delle monete e
dichiarava a voce alta l’importo dell’offerta, per la folla che
assisteva a questo “spettacolo”. Anche Gesù, Sommo Sacerdote del
Nuovo Testamento, si trova seduto davanti a questi tredici piccoli
forzieri, ma non loda - come fanno gli altri – le generose offerte,
di cui il sacerdote aveva annunciato l’entità.
Il Figlio di Dio non
guarda le apparenze, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1 Sam
16,7) e loda una vedova che offre poche monete. Questa vedova, povera
donna senza più nessuno e che non è più di nessuno, ha una fede
così grande in Dio che, anche se si tratta di spiccioli, che però
costituiscono tutto quello che ha, li offre a Dio, perché è sicura
di essere di Dio.
2) Devozione
autentica.
Il gesto della donna
non è spettacolare, ma un’autentica pratica di pietà che Gesù
riconosce ed indica come gesto autentico, perché sicuro, retto,
ordinato, devoto, umile, in una parola sola: totale.
Questa vedova getta nel tesoro del Tempio tutto quello che ha e getta
in Dio tutto quello che è. Quel tutto ciò che questa vedova ha ed è
e che lei offre totalmente, ci richiama alla mente quella misura
dell’amore di Cristo, che è dare la propria vita. L’amore vero è
dare tutto, senza calcoli, senza tornaconti, senza misure, come in
questo caso, come sempre fa il Signore con noi.
E procedendo a ritroso
nel commento agli altri quattro aggettivi qualificativi del gesto
autentico, aggiungo che è un gesto:
- umile, perché è fatto senza pretese e perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18);
- devoto, perché sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo, vissuta come dono di sé commosso;
- ordinato, perché niente antepone a Dio e in Dio ama il prossimo;
- retto, perché chiede il bene. La preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi” (San Giovanni di Damasco);
- sicuro, perché compito da un cuore sicuro di essere ascoltato:: “Mi invocherà e gli darò risposta” (Sal 91,15).
Questo gesto di
devozione autentica e totale è “usato” dal Magistero di Gesù
come magistero per insegnare che il Suo modo di misurare il mondo non
è con il criterio della quantità, ma con quello del cuore. Agli
occhi di Colui, che guarda il cuore, la quantità non è che
apparenza. Ciò che conta non è quanto denaro si dona, ma quanto
amore vi è stato messo, quanta vita contiene il dono che si sta
facendo. Come dice San Giovanni della Croce: “Al tramonto della
vita, saremo giudicati sull’amore”, e l’episodio di oggi come
la descrizione del giudizio finale: “Avevo fame, sete, ecc, e mi
avete dato da mangiare, da bere, ecc.” ci ricordano che il Vangelo
può essere vissuto grazie a un pezzo di pane o in un bicchiere
d'acqua fresca, dati solo per amore, grazie a due monetine, date con
tutto il cuore.
L’importante è dare
con tutto il cuore. Che sia dia tutto come la vedova del Vangelo di
oggi, o la metà dei propri beni come fece Zaccheo, a Gesù non
importa molto, perché Lui non misura. Lui chiede di essere amato con
tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto il nostro essere. E’
per questo che lui loda la vedova e dice a Zaccheo, che ha dato la
metà dei suoi beni: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”
(cfr. Lc 19, 9).
La carità non va a
peso o a tempo. Il dono, che ha “peso” per Cristo, è quello che
facciamo donandoci a Lui, “con abbandono totale e amorosa fiducia”
(cfr. M. Teresa di Calcutta) Si può dare anche la vita, come dice
San Paolo, ma se non si ha la carità in cuore e se si è generosi
per sentirsi lodati, per sentirsi bravi … lasciamo perdere.
Possiamo dare ricche offerte alla Chiesa e ai poveri, ma se il nostro
cuore non è in Dio, quei beni non sono altro che polvere. Gesù ci
chiede di dare molto di quello che abbiamo, ma tutto di quello che
possiamo, con gioia.
Credo, infine, che sia
giusto e doveroso sottolineare che la vedova indicata da Gesù nel
Vangelo di oggi assomiglia ed è immagine della Chiesa-Sposa che
tutta si dona allo Sposo che è Cristo, il Figlio di Dio, che per lei
si è fatto povero.
Le vergini consacrate
nel mondo devono dunque ispirarsi all’esempio di questa donna per
vivere la loro vocazione sponsale. Anche loro come questa donna sono
chiamate a testimoniare che ormai nessun’altra presenza può
trovare posto in loro e che come questa donna mettono tutto a
disposizione di Dio e del suo Regno. La loro vita diventa così
risposta concretissima a Cristo che dice loro: “Tu mi hai rapito il
cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo
sguardo” (Ct 4,9) e sempre con la loro vita chiedono come la
sposa del Cantico dei cantici al suo Diletto: “Mettimi come sigillo
sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la
morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue
vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!” (Ct 8,6).
Infatti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per
me” (Ct 6,3). La verginità, che rivela l’integrità, la
santità e la verità di una persona, permette di vivere per il
Signore, di testimoniare che il cuore umano è fatto da Dio e per
Dio, di servire Dio con cuore indiviso in una dedizione totale,
partendo dal dono di due monetine.
Lettura Patristica
Hom. in Ev., 5, 1-3
Il Regno di Dio vale
tutto ciò che uno possiede
Avete
udito, fratelli carissimi, che Pietro e Andrea non appena furono
chiamati, al primo suono del comando, lasciarono le reti e seguirono
il Redentore. Non l’avevano ancora visto operare alcun prodigio;
ancora non l’avevano ascoltato in tema di premio eterno; e
nondimeno, al primo cenno del Signore, dimenticarono tutto quello che
poteva costituire il loro possesso...
Mi
sembra, peraltro, di sentire qualcuno che dice tra sé: Pietro e
Andrea erano pescatori, non possedevano nulla o quasi. Cosa mai
lasciarono al comando del Signore? Ma, in questo caso, fratelli
carissimi, dobbiamo guardare più all’affetto che al valore del
censo. Certamente, molto lascia chi non trattiene nulla per sé;
molto lascia chi abbandona completamente tutto quel che possiede.
Noi, invece, siamo aggrappati gelosamente a quanto possediamo e
desideriamo avidamente quel che non abbiamo. Pietro e Andrea
lasciarono davvero molto, dal momento che rinunciarono persino al
desiderio di possedere. Sì, questi apostoli lasciarono molto,
rinunciando non solo alle cose ma altresì al desiderio di esse.
Tanto lasciarono, ponendosi al seguito di Cristo, quanto avrebbero
potuto desiderare, se non avessero intrapreso la sua sequela.
Nessuno
dica, quindi, allorché vede che altri han lasciato tutto: imiterei
volentieri questi spregiatori del mondo, però non ho nulla da
lasciare. Infatti, fratelli, anche voi rinunciate a molto, se
rinunciate ai desideri terreni. Lasciando il poco che possedete, è
quanto basta per far contento il Signore: egli guarda il vostro
cuore, non il vostro patrimonio. Non guarda quanto gli offriamo in
sacrificio, bensì l’amore con cui glielo offriamo. Se guardiamo al
patrimonio terreno, dobbiamo dire che quei due santi mercanti
acquistarono la vita eterna degli angeli, in cambio delle reti e
della barca.
Il
Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che
uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni,
perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il
quadruplo a coloro che aveva defraudato (Lc
19,8);
nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt
4,20);
per la vedova, valse solo due
spiccioli
(Lc
21,2
Mc
12,42);
per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua
fresca (Mt
10,42).
Quindi, il Regno di Dio, come ho già detto, vale tutto quello che
uno possiede.
Riflettete,
dunque, fratelli, sul valore del regno dei cieli: niente vi è di
meno costoso nell’acquisto e niente di più prezioso nel possesso.
Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca
da dare al povero; ebbene, anche in questo caso ci soccorre la parola
divina. Alla nascita del Redentore, si mostrarono i cittadini del
cielo, cantando: "Gloria
a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon
volere"
(Lc
2,14).
Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca
del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice:
"In
me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi"
(Ps
55,12).
È come se dicesse: «Anche se non trovo fuori di me doni da offrire,
nondimeno trovo nel mio intimo qualcosa da porre sull’altare della
tua lode, poiché tu non ti pasci del nostro dono, ma ti lasci
placare dall’offerta del cuore.
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