Domenica
XXXIII del Tempo Ordinario – Anno B – 15 novembre 2015
Rito Romano
Rito
Ambrosiano
Is
13,4-11; Sal 67; Ef 5,1-11a; Lc 21,5-28
I Domenica di
Avvento
La
venuta del Signore
1) Il Signore è
vicino, alle porte.
Il brano del discorso
di Gesù, che è proposto dalla Liturgia di oggi, ha un linguaggio
che gli esperti chiamano “apocalittico”. Questo aggettivo viene
dal sostantivo “apocalisse”, che letteralmente vuol dire
rivelazione. Tuttavia nel linguaggio comune il termine ha perso il
significato originario di “rivelazione” e, soprattutto fuori
dall'ambiente religioso, è passato a indicare qualsiasi evento di
grande calamità o un succedersi di eventi disastrosi. Ciò è
accaduto perché è un linguaggio ricco di immagini forti e spesso
inquietanti, che hanno lo scopo di suscitare un ascolto rispettoso e
attento perché venato di timore.
Infatti, nel Vangelo
di oggi Gesù afferma: “Il sole e la luna si oscureranno e le
stelle cadranno e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande
potenza e gloria. Egli (Gesù, il Figlio dell’uomo) manderà gli
angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità
della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13, 24-27).
Dunque, con le parole
apocalittiche (letteralmente rivelatrici) dei vv 24-25 di Marco 13,
il Cristo ci dice che il mondo e l’umanità che lo abita sono
fragili: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più
la sua luce, le stelle cadranno dal cielo. Ma nei vv 26- 27, Gesù fa
intuire che se c'è un mondo che muore, c’è anche un mondo nuovo
che nasce per Lui e in Lui. Dunque non stiamo andando verso la fine,
verso il nulla, ma ci prepariamo all’incontro definitivo con
Cristo, il fine della vita, il compimento del mondo. Noi
implicitamente pensiamo che andiamo a finire male, per questo abbiamo
paura e cerchiamo di non contare i nostri giorni perché poi dopo è
la fine. Invece in questo racconto che è fondamentale per la fede
cristiana, si presenta il termine della storia, di tutta quanta la
storia e il termine della nostra vicenda personale come l’incontro
con il Signore.
Il
fine di tutta la storia è l’incontro con Lui e tutta la creazione
è in cammino verso quest’incontro e tutta la vicenda umana nostra
personale e dell’universo non è altro che l’andare avanti sempre
più fino a quando traspare nel mondo la gloria del Figlio. Siamo
figli, ciò che apparirà alla fine è la nostra gloria, allora
vedranno il Figlio dell’uomo venire con molta potenza e gloria. Il
senso della storia è la rivelazione del Figlio dell’uomo e in Lui
di ogni uomo, nella potenza piena della vita e nella gloria stessa di
Dio.
Quindi, il Messia non
vuole tanto raccontare la fine del mondo, quanto rivelare il senso
della storia. Lui ci dice ha la fine del mondo non è la distruzione
di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il Figlio dell’uomo.
Egli è il Signore che perdona, lo Sposo che ci ama, il Signore del
sabato: è colui che si mette nelle nostre mani e tutto ci dona, fino
a dare la vita per noi. La fine del mondo non è come l’arrivo di
un ladro che ci ruba tutto, ma l’incontro con lo Sposo che ci dà
tutto, perché sulla croce di Gesù è già finito il mondo vecchio –
si è oscurato il sole – ed è nato quello nuovo.
Come ogni essere
umano, il cristiano sa che un giorno il sole si spegnerà, ma sa
anche che la Luce di Dio risplenderà sempre. La fine del mondo non
è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il
Figlio dell’uomo, con il Redentore dell’uomo e del mondo. Lui è
il Signore che perdona. Insomma la fine del mondo non è un furto di
un ladro che mi ruba tutto, è l’incontro con lo Sposo che ci dà
tutto. Quindi, non è che andiamo verso il nulla, verso il vuoto,
l’Apocalisse negli ultimi due capitoli rappresenta l’incontro
proprio come quello della sposa con lo sposo. La Chiesa è la sposa
che attende l’arrivo dello Sposo. Non dovremmo avere paura di
incontrare l’Amore che viene da noi.
2) Non tanto
quando, ma come.
La Chiesa continua a
proclamare, in particolare al termine dell’anno liturgico, il fatto
di questo incontro d’amore da vivere nell’attesa. Dando peso alle
parole di Cristo: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora,
nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il
Padre” (Mc 13, 32), la Liturgia ricorda a noi fedeli che
siamo chiamati ad essere sempre in attesa di Colui che è venuto
secoli fa e che verrà alla fine dei tempi, ma che anche viene
ogni giorno, nella nostra vita, nel nostro oggi. Per questo un inno
del Breviario ci fa cantare “Notte, tenebre e nebbia,
fuggite:
entra la luce,
viene Cristo Signore.
Il Sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa” (Inno delle
Lodi, II settimana, mercoledì).
In effetti, in questa
trasfigurazione del mondo anche, e soprattutto, il nostro cuore è
dilatato così che il Cielo vi trova più spazio, così che abbia una
più viva attenzione (nel senso più letterale del termine di
tensione costante al Signore. Egli viene sempre, ma spesso
l'incontro non avviene perché noi viviamo una vita superficiale sul
piano spirituale, una certa dissipazione: le cose di quaggiù ci
attraggono così tanto da rendere indisponibile l'anima a questo
meraviglioso incontro. Solo raramente ci troviamo in condizioni
spirituali tali da percepire questo "venire" di Dio. Di qui
cosa ne viene? Non certo che cambi il Signore, Lui che sempre si fa
presente, ma che cambi la nostra anima, in modo da vivere sempre
un'attesa, una speranza.
La questione quindi
non tanto sul “quando” (perché Dio ci raggiunge in ogni
istante), quanto sul “come”. Quindi, oggi mi permetto di proporre
come rispondere a questa domanda: “Come attendere la venuta
definitiva del Regno?”
Due sono gli
atteggiamenti possibili quello della paura e quello della speranza.
Se ci si ferma alla
drammaticità di certe immagini del Vangelo di oggi, sembrerebbe che
debba prevalere la paura. Ma Cristo aggiunge: “Imparate dalla
pianta di fico: quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le
foglie, voi sapete che ‘'estate è vicina” (Mc 13, 28).
Se, da una parte, c'è la descrizione di distruzione, dall’altra,
c’è la promessa di una vita tenera e nuova, simboleggiata
dall'immagine della pianta di fico le cui nuove foglie insegnano che
la morte dell’inverno è sconfitta è la vita dell’estate sta per
fiorire e dare frutti di vita.
Paura e speranza si
alternano sempre nella vita dell'uomo, anche del credente, tanto da
formare una situazione ambigua e irrisolta.
La speranza umana è
attesa di qualche cosa che deve venire ma sa che nessun essere umano
può disporre del proprio futuro.
La speranza ebraica
attendeva il Messia che doveva venire.
La speranza cristiana
già fa presente il regno di Dio in noi, già implica la presenza di
Dio nel nostro cuore e la presenza di Dio in noi ci rende capaci
della vita eterna. “Mediante la speranza noi siamo già in
paradiso, anche se il nostro cuore ha ancora paura” (Divo
Barsotti).
Per sconfiggere questa
paura possiamo riandare ai tanti passi della Bibbia in cui c’è
l'invito a non temere, a non avere paura. Per esempio, pensiamo a
Pietro, che camminava sulle acque incontro a Gesù, ma poi cedette
alla paura del vento e delle onde e affondò. E si ritrovò la Mano
tesa di Cristo verso di lui, che lo rialzò, lo perdonò e gli diede
nuova forza.
Tutto questo ci spinge
a coltivare la speranza e non la paura, la fiducia e non lo
sconforto.
Un modo
importantissimo per vivere questo “come”, questa speranza è
quello delle Vergini Consacrate nel mondo. Queste donne si impegnano
a vivere la verginità perché in questo modo non solo attendono
Cristo con speranza piena. Innamorate di Cristo, come “spose” che
da tempo non vedono lo Sposo, Lo attendono ogni giorno non solo con
speranza, ma anche con ansia e con passione. Ogni giorno pregano per
vederLo tornare, di incontrarLo per sempre. Queste donne consacrate
vivono la verginità con dedizione completa perché la verginità
mantiene l’anima desta e tesa a Cristo. Si dedicano alla preghiera
frequente, fatta nel silenzio, per tenere il cuore vigilante. In
questo modo ci testimoniano come tutta la nostra persona si debba
protendere verso il Signore, che viene a noi, che si dona a noi e che
fa rinascere le nostre persone.
Lettura patristica
San Cirillo di
Gerusalemme
Catech., 15, 1-3
1. Il ritorno di
Cristo
Annunciamo
la venuta di Cristo, non la prima solo, ma anche una seconda, molto
più bella della prima. La prima fu una manifestazione di pazienza,
la seconda porta il diadema della regalità divina. Tutto è per lo
più duplice nel Signore nostro Gesù Cristo: doppia la nascita, una
da Dio prima dei secoli, una dalla Vergine alla fine dei secoli;
doppia la discesa: una oscura, come (rugiada) sul vello (cf. Jg
6,36-40
Ps
71,6),
l’altra piena di splendore: quella che verrà. Nella prima venuta
fu avvolto in panni nella mangiatoia, nella seconda è circondato di
luce come d’un mantello. Nella prima subì la croce, subì
disprezzi e vergogna; nella seconda viene sulle schiere degli angeli
che l’accompagnano, pieno di gloria. Non fermiamoci dunque alla
prima venuta solamente, ma aspettiamo anche la seconda. Nella prima
abbiamo detto: "Benedetto
colui che viene nel nome del Signore"
(Mt
21,9),
e nella seconda lo ripeteremo ancora: insieme con gli angeli andremo
incontro al Padrone, ci getteremo ai suoi piedi e diremo: «Benedetto
colui che viene nel nome del Signore». Viene il Salvatore non per
essere nuovamente giudicato, ma per chiamare in giudizio quelli che
lo condannarono. Egli, che tacque la prima volta quando fu giudicato,
lo ricorderà agli scellerati che osarono crocifiggerlo, dicendo:
"Questo
facesti, e tacqui"
(Ps
49,21).
Per la divina economia, venne allora ad ammaestrare gli uomini con la
persuasione; ora invece per regnare su di loro a forza, anche se non
lo vogliono.
Di
queste due venute dice il profeta Malachia: "E
subito verrà al suo tempio il Signore, che voi cercate"
(Ml
3,1).
Ecco la prima venuta. Invece della seconda venuta dice: "E
l’angelo del testamento che voi cercate. Ecco, viene il Signore
onnipotente: chi sosterrà il giorno della sua venuta, chi sopporterà
la sua vista? Si appresserà infatti come il fuoco della fornace,
come la soda dei lavandai, si siederà per fondere e pulire"
(Ml
3,2s).
E subito dopo il Salvatore stesso dice: "Vi
verrò incontro per fare giustizia, e sarò un testimone pronto
contro gli avvelenatori e gli adulteri, contro quelli che nel mio
nome giurano il falso"
(Ml
3,5).
Già Paolo allude a queste due parusie scrivendo a Tito: "È
apparsa la grazia di Dio, salvatore di tutti gli uomini, e ci ha
insegnato a rinnegare l’empietà e le cupidigie mondane, e a vivere
in questo mondo con temperanza, con giustizia e pietà, aspettando la
beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e
salvatore Gesù Cristo"
(Tt
2,11-13).
Per questo nella fede che a noi è annunciata anche oggi ci è
tramandato di credere in colui «che è asceso al cielo, siede alla
destra del Padre, e verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti,
e il suo regno non avrà fine».
Viene
dunque il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli; viene nella gloria
alla fine di questo mondo, nell’ultimo giorno; ci sarà infatti la
fine di questo mondo e il mondo creato sarà rinnovato. Infatti la
corruzione, il furto, l’adulterio e ogni specie di delitto si è
effuso sulla terra e nel mondo si è mescolato sangue al sangue,
affinché perciò questa mirabile dimora non resti oppressa
dall’iniquità, se ne va questo mondo perché ne sia inaugurato uno
migliore. Vuoi una dimostrazione di ciò dai detti scritturistici?
Odi Is che dice: "Il
cielo si avvolgerà come una pergamena e tutte le stelle cadranno
come le foglie dalla vite, come cadono le foglie dal fico"
(Is
34,4).
E il Vangelo dice: "Il
sole si oscurerà la luna non darà più il suo splendore e gli astri
cadranno dal cielo"
(Mt
24,29).
Non affliggiamoci come se noi soli dovessimo finire: anche le stelle
finiscono, ma forse di nuovo risorgeranno. Il Signore arrotola i
cieli, non per distruggerli, ma per farli risorgere più belli.
Ascolta il profeta David che dice: "In
principio tu, Signore, hai fondato la terra, e opera delle tue mani
sono i cieli. Essi periranno, ma tu rimani"
(Ps
101,26).
Ma
qualcuno obietterà: «Però dice chiaramente che periranno». Ma
ascolta in che senso dice «periranno»: è chiaro da ciò che segue:
"E
tutti invecchieranno come un vestito e tu li avvilupperai come un
mantello: ed essi muteranno"
(Ps
101,27).
Si parla infatti come di una morte di un uomo, come sta scritto:
"Vedete
in che modo perisce il giusto, e nessuno se la prende a cuore"
(Is
57,1),
ma se ne aspetta la risurrezione; così aspettiamo quasi la
risurrezione dei cieli. "Il
sole si muterà in tenebre e la luna in sangue"
(Jl
2,31
Ac
2,20).
Notino questo i convertiti dal manicheismo: non attribuiscano più la
divinità agli astri, né ritengano empiamente che questo sole, il
quale si oscurerà, sia Cristo. E ascolta ancora il Signore che dice:
"Il
cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno"
(Mt
24,25).
Le parole del Signore non possono paragonarsi alle realtà create. Le
realtà visibili passano e vengono le realtà che aspettiamo, più
belle delle presenti: ma nessuno ne ricerchi curiosamente il tempo:
"Non
sta in voi"
- è detto infatti - "conoscere
i tempi e i momenti che il Padre ha riservato in suo potere"
(Ac
1,7).
Non osare dunque di stabilire il tempo in cui ciò avverrà; ma
neppure, al contrario, non adagiarti supinamente: "Vigilate"
- è detto infatti -, "perché
nell’ora in cui non aspettate, il figlio dell’uomo verrà"
(Mt
24,44).
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