venerdì 16 ottobre 2020

Noi siamo la moneta con l’immagine di Dio.

 

Rito Romano – XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 18 ottobre 2020.

Is 45,1.4-6 Sal 95 1Ts 1,1-5b Mt 22,15-21


Rito Ambrosiano – Solennità del Signore

Bar 3,24-38;oppure Ap 1,10;21,2-5; Sal 86; 2Tm 2,19-22; Mt 22, 15 -21





1) Cesare e Dio.

Nel Vangelo di oggi viene riportata la nota frase di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Frase questa ripetuta a proposito e a sproposito, quando si parla del rapporto tra il cristianesimo e le istituzioni, il potere politico.

Per offrire una meditazione evangelica che non sia ridotta ad una anche se breve lezione sui rapporti Stato-Chiesa, ritengo importante spiegare il contesto in cui questa frase è pronunciata da Gesù.

Anche se hanno visioni diverse dell’occupazione romana ai tempi della vita terrena di Cristo, i Farisei e gli Erodiani vogliono tendere un tranello a Gesù. Quando un profeta diventa scomodo, bisogna in qualche misura coglierlo in errore, dimostrare che si contraddice. La domanda “Di’ a noi il tuo parere: è lecito o no, pagare il tributo a Cesare?”.

Se a questa domanda circa la liceità per gli Ebrei di pagare le tasse a Roma, Gesù avesse risposto di no lo avrebbero accusato proprio presso i Romani di essere loro nemico e ribelle; nel caso avesse risposto di sì, avrebbero avuto buon gioco nel denunciarlo davanti a tutti come traditore del suo stesso popolo.

Gesù non cade nel tranello, prende un’altra strada non prevista dai farisei e dagli erodiani, che avevano fatto una domanda ambigua, e invita i suoi interlocutori a prendere la moneta del tributo. Essi mostrano la moneta con l’immagine di Tiberio Cesare. A quel punto, Lui prima domanda se tale immagine è di Cesare, poi fa l’affermazione che ho citato all’inizio.

Il tributo a Cesare va pagato, perché l’immagine sulla moneta è la sua; ma l’uomo, ogni uomo, porta in sé un’altra immagine, quella di Dio, e dunque è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza. Prendendo spunto dal fatto che Gesù fa riferimento all’immagine dell’Imperatore impressa sulla moneta del tributo, i Padri della Chiesa hanno interpretato questo passo alla luce del concetto fondamentale di uomo immagine di Dio, contenuto nel primo capitolo del Libro della Genesi.

Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ivi, Salmo 4, 8).

Il riferimento all’immagine di Cesare, incisa nella moneta, dice che è giusto sentirsi a pieno titolo – con diritti e doveri – cittadini dello Stato; ma simbolicamente fa pensare all’altra immagine che è impressa in ogni uomo: l’immagine di Dio. Egli è il Signore di tutto, e noi, che siamo stati creati “a sua immagine” apparteniamo anzitutto a Lui. Gesù ricava, dalla domanda postagli dai farisei, un interrogativo più radicale e vitale per ognuno di noi, un interrogativo che noi possiamo farci: a chi appartengo io? Alla famiglia, alla città, agli amici, alla scuola, al lavoro, alla politica, allo Stato? Sì, certo. Ma prima di tutto – ci ricorda Gesù – tu appartieni a Dio. Questa è l’appartenenza fondamentale. È Lui che ti ha dato tutto quello che sei e che hai. E dunque la nostra vita, giorno per giorno, possiamo e dobbiamo viverla nel ri-conoscimento di questa nostra appartenenza fondamentale e nella ri-conoscenza del cuore verso il nostro Padre, che crea ognuno di noi singolarmente, irripetibile, ma sempre secondo l’immagine del suo Figlio amato, Gesù. E’ un mistero stupendo.

Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre “Dio” e “Cesare”; contrapporre Dio e Cesare sarebbe un atteggiamento fondamentalista. Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà terrene, ma illuminandole con la luce che viene da Dio. L’affidamento prioritario a Dio e la speranza in Lui non comportano una fuga dalla realtà, ma anzi un rendere operosamente a Dio quello che gli appartiene. È per questo che il credente guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere la vita terrena in pienezza, e rispondere con coraggio alle sue sfide.

Dunque, la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani è ricca di contenuto umano e spirituale, e non la si può ridurre al solo ambito politico. La Chiesa, pertanto, non si limita a ricordare agli uomini la giusta distinzione tra la sfera di autorità di Cesare e quella di Dio, tra l’ambito politico e quello religioso. La missione della Chiesa, come quella di Cristo, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita.

Insomma, l’insegnamento che possiamo ricava da questo Vangelo è quello di ribadire la distinzione tra Stato e Chiesa e di affermare che è essenziale saper distinguere tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, e comunque il primato di ogni realtà è sempre legato a Dio.

2) Dio e la sua immagine.

Cerchiamo, ora, di capire ancora meglio la risposta di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”. Queste parole in genere vengono interpretate nel senso della distinzione tra Stato e Chiesa. Ed è certamente lecito fare ciò. Tuttavia questa frase ci spinge più lontano e richiama una verità più profonda sull’uomo. Perché se sulla moneta è impressa l’immagine di Cesare, su di noi è “impressa” l’immagine di Dio o, meglio, noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio.

Alla domanda di Gesù di chi siano sulla moneta il ritratto e il titolo che l’individua, Gli rispondono: “di Cesare”. E Gesù replica: “Restituite dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”. La risposta sconcerta gli ascoltatori. In ogni caso dobbiamo chiederci cosa sia di Cesare e cosa di Dio. Nella risposta di Gesù è chiaro cosa appartiene a Cesare: solo quella moneta della zecca di Roma su cui è incisa l’“immagine” dell'imperatore. Questa pertanto andava restituita al proprietario. Il Vangelo va oltre e dice di dare a Dio quello che è di Dio. Ma cosa è di Dio? Il termine “immagine”, usato da Gesù per la moneta, rimanda alla frase biblica posta proprio all'inizio della Bibbia: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò” (Gn 1, 27). Ciò vuol dire che oggi, come ai tempi della vita terrena di Gesù resta vero quello che iniziò con la creazione dell’uomo. All’inizio della storia del mondo, Adamo ed Eva sono frutto di un atto di amore di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, e la loro vita e il loro rapporto con il Creatore coincidevano.

Già nel IV secolo, un Autore anonimo scriveva: “L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria” (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ibid, Salmo 4, 8).

Quindi questa indicazione di Gesù non può essere ridotta al solo ambito politico. Il compito della Chiesa in questo caso non è quello di limitarsi a ricordare agli uomini la giusta distinzione tra la sfera di autorità di Cesare e quella di Dio, tra l’ambito politico e quello religioso. Il compito della Chiesa, che prosegue la missione di Gesù, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità di Padre, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita che in Lui diventa santa, vera. La verità di noi, come tutti gli esseri umani, sta nel fatto che siamo anzitutto figli di Dio. E che a Dio apparteniamo. Questa è la radice della libertà e della dignità dell’uomo, che vanno difese, curate e restituite a ciascuno. Si tratta cioè di far emergere sempre più chiara quell’impronta di Dio che è stata plasmata nel più profondo di ogni essere umano e che lo rende santo.

In effetti, c’è una “santità” che appartiene ad ogni persona umana, non per suo merito ma per dono, perché ognuno di noi è stato creato a immagine di Dio. Sant’Ireneo scrisse che il Verbo e lo Spirito sono le due mani con cui l’uomo fu plasmato all'inizio e con cui viene plasmato oggi secondo l’immagine di Dio.

Sempre, ma specialmente all’inizio di questa vita di santità, ogni credente non ha altro dovere che la docilità all’azione dello Spirito. Ma come riconoscere l’azione dello Spirito Santo e farle spazio nella nostra vita? Tenendo vivo in noi il santo desiderio di Dio e vivendo la perseveranza, mediante la domanda di Cristo in ogni istante della nostra vita. Diceva Suor Elisabetta della Trinità: “Com’è serio ogni istante! Costa il Sangue di Cristo!”. Ogni istante costa Dio stesso, perché il prezzo del tempo è Dio: in ogni istante lo riceviamo, dobbiamo riceverlo. In ogni istante, purtroppo, possiamo anche chiuderci a Lui e rifiutarLo, e Lo rifiutiamo nella misura in cui non ci abbandoniamo a questa grazia. Lo rifiutiamo e ci chiudiamo a Lui nella misura che non siamo docile a Lui, non Lo ascoltiamo o non Lo accogliamo in noi, discepoli suoi.

Come discepoli di Gesù dobbiamo operare perché in ogni uomo risplenda quell’icona (immagine) di Dio che gli è impressa nel cuore.

Non solo noi dobbiamo adorare Dio che è presente nell’anima nostra, non soltanto dobbiamo renderci conto che siamo tempio vivente di Dio. Dobbiamo anche renderci conto che tutto quello che abbiamo ricevuto da Lui deve essere istante per istante da Lui mosso, da Lui usato, da Lui adoperato.
Dobbiamo essere non soltanto il tempio di Dio, ma lo strumento della sua azione, perché Dio non abita in noi statico, fermo; non abita in noi solamente perché lo adoriamo. Egli abita in noi per agire, soprattutto per trasformarci e renderci simili a Lui, di cui noi siamo immagine.

Siamo invitati a domandare con la preghiera e l’azione di essere fatti conformi all’immagine del Figlio di Dio. Spesso questa immagine è deturpata, offesa, umiliata, frantumata, per colpe personali o per opera altrui. Deturpando noi stessi o gli altri, deturpiamo l’immagine di Dio che è in noi, sfiguriamo l’immagine che le “due mani” creative di Dio hanno realizzato. Oggi, Gesù ci esorta a “restituire” a Dio quello che a Lui appartiene: tutto e tutti: noi stessi insieme tutta l’umanità e la creazione.

Però non dobbiamo dimenticare che, rispetto a tutte le altre creature, l’uomo è l’unico che Dio ha voluto per sé (Gaudium et spes 12; Catechismo della Chiesa Cattolica 356); ovvero non è una cosa fra le cose, ma è un essere capace di autocoscienza e decisione libera. È una persona, capace di relazione con Dio e con le altre persone. In questo sta l’immagine-somiglianza con Dio: non siamo una cosa inglobata nelle leggi del cosmo (pensate all’evoluzione che porta alla presenza dell’uomo: gli scienziati dicono circa 3 miliardi di anni), ma abbiamo coscienza, libertà, possiamo interpretare questo nostro essere al mondo dandogli un senso.1

L’uomo così appare come il vertice della creazione, il punto in cui il creato diventa cosciente e capace di risposta libera a Dio, capace di relazione2.

Un Ordine di persone che vive questa relazione di comunione sponsale con Dio e fraterna con gli uomini è quello delle Vergini Consacrate nel mondo.

Mediante la loro consacrazione, queste donne testimoniano alla Chiesa e al mondo, che l’essere umano è riflesso dell’amore Dio e che è chiamato a essere nel mondo visibile un portavoce della gloria di Dio, e, in un certo senso, una parola della sua Gloria.

Le vergini manifestano e rendono pubblica la perfetta verginità della stessa loro Madre la Chiesa, e la santità dei loro vincoli strettissimi con Cristo. Queste donne inoltre offrono un segno mirabile della fiorente santità e di quella spirituale fecondità propria della Chiesa. A questo proposito sono magnifiche le espressioni di san Cipriano: “La verginità è un fiore che germoglia dalla Chiesa, decoro e ornamento della grazia spirituale, gioia della natura, capolavoro di lode e di gloria, immagine di Dio che riverbera la santità del Signore, porzione più eletta del gregge di Cristo. Se ne rallegra la chiesa, la cui gloriosa fecondità in esse abbondantemente fiorisce: e quanto più cresce lo schiera delle vergini tanto più grande è la gioia della Madre” (Cipriano, De habitu virginum, 3: PL 4, 443).

A ciò con saggezza si ispirano le espressioni del Celebrante nel rito della consacrazione delle vergini e nelle preghiere rivolte al Signore: “Affinché vi siano anime più sublimi che, disdegnando nel matrimonio i piaceri della carne, ne cerchino il significato recondito, e invece di imitare ciò che si fa nel matrimonio, amino quanto in esso è simboleggiato”.(Pontificale Romano, Consacrazione delle Vergini).


1 Nel secondo racconto biblico della creazione (Gen 2,4a-25) l’uomo (adam) è tratto dalla polvere (adamah), in cui Dio soffia il suo alito di vita (neshamah), che lo rende un essere vivente (nefesh). Ciò che fa la differenza tra noi e le altre creature è lo spirito, la capacità di essere liberi, di attribuire un significato al fatto che siamo qualcosa.

2 La relazione non è un’appendice della natura umana, ma l’espressione più piena dell’essere persona.



Lettura Patristica

Sant’Ambrogio di Milano (340 -397)

Exp. Ev. sec. Luc. 9, 34-36


       "Di chi è l’immagine e l’iscrizione?" (Lc 20,24). In questo passo Egli c’insegna che dobbiamo essere cauti nel respingere le accuse degli eretici oppure dei Giudei. In un altro punto ha detto: "Siate astuti come i serpenti". Questo, diversi lo interpretano così: poiché la croce di Cristo fu preannunciata nel serpente levato in alto, affinché venisse distrutto il veleno serpigno degli spiriti del male, parrebbe che si debba essere accorti come il Cristo, e semplici come lo Spirito. Ecco dunque chi è il serpente che tiene sempre protetto il capo, ed evita così le ferite mortali. Quando i Giudei gli chiedevano se avesse ricevuto dal Cielo la sua autorità, Egli rispose: "Il battesimo di Giovanni di dov’era, dal Cielo o dagli uomini?" (Mt 20,4). E lo scopo era che essi, non osando negare che era dal Cielo, si convincessero da soli della propria demenza nel negare che Colui che lo dava era dal Cielo. Egli chiede un didramma e domanda di chi è l’effigie: infatti diversa è l’effigie di Dio, diversa l’effigie del mondo. Per questo anche colui ci ammonisce: "E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno, così portiamo l’immagine dell’uomo celeste" (1Co 15,49).


       Cristo non ha l’immagine di Cesare, perché Egli è "l’immagine di Dio". Pietro non ha l’immagine di Cesare, perché ha detto: Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mt 19,27). Non si trova l’immagine di Cesare in Giacomo o in Giovanni, perché sono i figli del tuono, ma essa si trova nel mare, dove vi sono sulle acque quei mostri dalle teste fracassate, e lo stesso mostro principale, col capo mozzo, vien dato come cibo ai popoli degli Etiopi. Ma se non aveva l’immagine di Cesare, perché mai ha pagato il tributo? Non l’ha pagato del suo, ma ha restituito al mondo ciò che apparteneva al mondo. E se anche tu non vuoi esser tributario di Cesare, non possedere le proprietà del mondo. Però hai le ricchezze: e allora sei tributario di Cesare. Se non vuoi esser assolutamente debitore del re della terra, abbandona ogni tua cosa e segui Cristo.


       E giustamente Egli ordina di dare prima a Cesare ciò che è di Cesare, perché nessuno può appartenere al Signore, se prima non ha rinunziato al mondo. Tutti, certo, rinunziamo a parole, ma non rinunziamo col cuore; infatti, quando riceviamo i sacramenti, facciamo la rinunzia. Che pesante responsabilità è promettere a Dio, e poi non soddisfare il debito! "È meglio non fare voti", sta scritto, "piuttosto che farne e non mantenerli" (Qo 5,4). L’obbligo della fede è più forte di quello pecuniario. Rendi quanto hai promesso, finché sei in questo corpo, prima che giunga l’esecutore "e questi ti getti in prigione. In verità ti dico che non ne uscirai prima di aver pagato fino all’ultimo spicciolo";(Lc 12,58 Mt 5,25s).


Nessun commento:

Posta un commento