Rito Romano
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 19 Novembre 2017
Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30
Rito Ambrosiano
Is 51,7-12a; Sal 47; Rm 15,15-21; Mt 3,1-12
Domenica II di Avvento – ‘I figli del Regno’ - Anno B
1) I talenti: l’amore vissuto come responsabilità.
La parabola dei talenti (Mt 25,14-30), che è proposta questa domenica si colloca tra la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13), che è stata meditata domenica scorsa e il brano del giudizio finale (Mt 25,31-46), che sarà letto domenica prossima.
La parabola delle dieci vergini ci ha fatto meditare sulla vigilanza prudente: il regno di Dio può giungere da un momento all’altro e, dunque, è necessaria la prudenza per essere preparati alla sua venuta. La parabola dei talenti fa riflettere sulla vigilanza operosa e, quindi, indugia sulla crescita del Regno: questo cresce quando usiamo i doni ricevuti per servire. Domenica prossima il racconto del giudizio finale ci ricorderà come entrare nel Regno: vi entriamo, quando siamo operosi nella carità verso il prossimo, in particolare quando accogliamo “gli ultimi”.
Per capire bene la parabola di questa domenica va ricordato che i “talenti” (contrariamente a quanto spesso si dice) non sono tanto le doti o le capacità (intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, quanto le responsabilità, che siamo chiamati ad assumere. Difatti la parabola racconta che il padrone diede “a chi cinque talenti, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno”.
I primi due servitori sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Perciò sono definiti “buoni e fedeli”. Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a “conservare”, e perciò è definito “cattivo e pigro”, e “buono a nulla”. Il contrasto è dunque fra operosità e pigrizia.
Anche se ha inciso sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente, l’insegnamento centrale di questa parabola riguarda lo spirito di responsabilità con cui accogliere il Regno di Dio: responsabilità verso Dio e verso l’umanità.
Oggi Gesù ci insegna ad usare bene i suoi doni. Lui chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).
2) Il talento per eccellenza.
Vorrei però ricordare il talento per eccellenza, il più prezioso tra i doni è Gesù stesso, e lo ha offerto al mondo con immenso amore.
Questo dono è consegnato ai discepoli, che oggi siamo noi. E lo siamo non tanto e non solo perché abbiamo accolto la dottrina di Cristo e ci sforziamo di osservare i suoi precetti etici, ma perché abbiamo accolto Lui, quale dono imprevedibile di Dio che entra nella nostra carne, ci fa figli suoi e ci rende operatori fecondi di frutti nuovi.
Allora come oggi, i discepoli di Gesù sono attenti, vigilanti per accogliere il dono sempre nuovo della meraviglia di Dio e sono fedeli nel lasciare che il dono accolto porti frutti e si moltiplichi.
Un esempio di come essere discepoli di Gesù ed essere “servi buoni e fedeli” ci viene dalla vergini consacrate, che sono
- “serve buone”, perché non vivono per se stesse, facendosi forti delle proprie doti, ma vivono la vita come dono ricevuto e da condividere, perché sentono che il dono accolto chiede di essere donato, per poter continuare a portar frutti.; e sono
- “serve fedeli” perché si abbandonano totalmente ogni giorno, direi, ogni istante a Cristo con amorosa fiducia. La “la fedeltà è la perfezione dell’amore” (Sant’Escrivà de Balaguer) e redime il tempo (cfr. Ef 5, 16).
La verginità è il modo più alto di vivere la la parabola dei “talenti”, perché con la consacrazione di tutta se stessa, la persona che si offre a Dio, apre il suo cuore al dono grande e liberante di Cristo. Rendendo libero in modo speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo maggiormente di carità verso Dio e verso tutti gli uomini, la vergine consacrata testimonia che il regno di Dio e la sua giustizia sono quella perla preziosa che va preferita a ogni altro valore sia pure grande, ed è quel talento che va fatto fruttificare.
“Per questo la Chiesa, durante tutta la sua storia, ha sempre difeso la superiorità di questo carisma nei confronti di quello del matrimonio, in ragione del legame del tutto singolare che esso ha con il regno di Dio. Pur avendo rinunciato alla fecondità fisica, la persona vergine diviene spiritualmente feconda, padre e madre di molti, cooperando alla realizzazione della famiglia secondo il disegno di Dio (San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 14).
La vergine consacrata in modo speciale condivide il Talento-Cristo.
Infine, non va dimenticato che la parabola di oggi insiste sull’atteggiamento interiore, direi, verginale, con cui accogliere e valorizzare questo dono. L’atteggiamento sbagliato è quello della paura: il servo che ha paura del suo padrone e ne teme il ritorno, nasconde la moneta sotto terra ed essa non produce alcun frutto. Questo accade, per esempio, a chi avendo ricevuto il Battesimo, la Comunione, la Cresima seppellisce poi tali doni sotto una coltre di pregiudizi, sotto una falsa immagine di Dio che paralizza la fede e le opere, così da tradire le attese del Signore. Ma la parabola mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo. Sì, ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti:
“La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno” (Papa Francesco, Amoris laetitia, n. 160).
Infine, teniamo presente che a tutti noi Dio consegna Cristo e tutti “i suoi beni”, “secondo le capacità di ciascuno” che Lui conosce.
Tutto adesso dipende da come ciascuno risponde con la propria libertà alla responsabilità affidatagli liberamente da chi, donandogli pure i “propri beni”, vuol coinvolgere i “suoi servi” in un progetto di gioia e di felicità. Sforziamo ci di essere discepoli “vigilanti” e di vivere la vita come spazio di libertà affidata a noi da un Dio che conosce personalmente ciascuno di noi, che a ciascuno di noi dona i propri beni, per vivere intensamente la propria vita. Tutto è dono: la vita, la fiducia, l’Amore, la libertà è un dono, da vivere senza paura. Ciò che è chiesto è solo di accogliere il dono e di non soffocare, non trattenere, non rendere vano l'Amore.
Lettura patristica
San Girolamo
In Matth. IV, 22, 14-30
Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.
"Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque" (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.
"Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.
"Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone" (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.
"Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»" (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?
"E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone - nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?
"Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.
"Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: "La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte" (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: "Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.
"Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere" (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.
"E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.
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