venerdì 11 settembre 2015

Riconoscere Cristo esige fede e semplicità.

Domenica XXIV del Tempo Ordinario – Anno B – 13 settembre 2015
Rito Romano
Is 50,5-9a; Sal 114; Giac 2,14-18; Mc 8,27-35

Rito Ambrosiano
Is 32,15-20; Sal 50; Rm 5,5b-11; Gv 3,1-13
III Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


    1) Riconoscere Cristo.
Tutto il Vangelo di San Marco intende rispondere alla domanda: “Chi è Gesù?”. Ma nel brano che leggiamo oggi è Gesù stesso che fa esplicitamente questa domanda: “Voi chi dite che io sia?” e quindi anche noi siamo obbligati a rispondere..
Nei capitoli precedenti che ci sono stati proposti nelle domeniche scorse, Gesù non rispondeva a questa domanda con una definizione di se stesso, ma con delle azioni che manifestano quello che Lui è attraverso quello che Lui fa:
  • fa camminare il paralitico, cioè è Colui che dà all’uomo la capacità di camminare nella vita;
  • fa udire il sordo e fa parlare il muto, cioè è Colui che ha parole di vita, che spiegano la vita;
  • fa risuscitare il morto, cioè è il Datore della vita;
  • fa vedere il cieco, cioè è la Luce che dà la luce, che fa venire alla luce;
  • fa calmare le acque del mare, cioè Lui è il Signore della natura;
  • fa (dà) il pane nel deserto, cioè è Colui che nutre corpo e anima.
La conclusione a cui si dovrebbe arrivare assistendo a questo “fare”, dovrebbe essere quella di affermare: “Costui è il Messia (in greco: il Cristo)”. Purtroppo la gente di allora, ma molti anche oggi, non coglie la novità e la grandezza di Gesù, perciò alla domanda “Chi dicono che io sia”, la riposta della maggioranza è che questo “facitore” non è altro che uno dei profeti come quelli che lo avevano preceduto. Allora Gesù fa questa domanda ai suoi apostoli: “E voi, chi dite che io sia?”. Pietro, anche a nome degli altri, risponde con prontezza: “Tu sei il Cristo!”. Pietro riconosce con chiarezza che Gesù è il Messia. E dà una risposta precisa. Non c’è altra risposta. Cristo morto e risorto è Colui nel quale si è compiuto l’impossibile, l’inimmaginabile, l’unico fatto capace di cambiare il corso della storia dell’uomo. Senza di Lui l’uomo è “un essere per la morte” (Martin Heiddeger), mentre se è “legato” alla Croce, è “sciolto” dalla morte.
Va poi tenuto presente che la risposta di San Pietro implica un ulteriore riconoscimento: quello dell’amore crocifisso. È la via della Croce che completa il discorso, chiarificandolo. Quando il Capo degli Apostoli Gli dice: “Tu sei il Cristo”, Gesù sente il bisogno di precisare che Lui è il Figlio di Dio, che deve molto soffrire. Dunque alla domanda che oggi Gesù fa a noi: “Voi chi dite che io sia?”, la risposta completa è “Sei il Cristo, l’Amore crocifisso e risorto”. Infatti, San Paolo scrive: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”, ma sapeva che la croce non è un ostacolo alla salvezza. Ne è la condizione. “La Croce non è un palo dei romani, ma il legno su cui Dio ha scritto il Vangelo” (Alda Merini, 1931 – 2009, poetessa milanese). Con Cristo in Croce il mondo riceve una dimensione nuova, quella di Gesù e di tutti quelli che danno la vita per gli altri, seguendoLo.
Il Messia invita a seguirlo sempre fino al Calvario, perché camminando dietro la Sua Croce modelliamo la nostra vita su quella dell’ “Agnello che c’insegna la fortezza, dell’Umiliato che dà lezione di dignità, del Condannato che esalta la giustizia, del Morente che conferma la vita, del Crocifisso che prepara la gloria.” (Don Primo Mazzolari, 1809 – 1959, Prete e scrittore cremonese)
Seguendo Cristo e credendo alla Carità teniamo le braccia spalancate e il cuore aperto come il Crocifisso. Certo per fare questo, come San Pietro dobbiamo riconoscere Gesù come il Messia, il Salvatore. Come San Pietro dobbiamo accettare la Croce come “chiave” con la quale il Signore ha aperto il Cielo e chiuso l’inferno per tutti quelli che lo accolgono. Questa pesante “Chiave” il Redentore l’ha portata sulle sue spalle, ne ha sentito tutto il peso e la responsabilità mentre i chiodi ne trapassavano le carni e lo univano ad essa. Questa “chiave” del Regno Cristo l’ha consegnata a San Pietro, chiamandolo ad essere crocifisso con Lui, a portare con Lui il giogo leggero e soave sulle spalle, per imparare l'umiltà e la mitezza con le quali “sciogliere” gli uomini dalla schiavitù del mondo, della carne e del demonio, e “legarli” così a Cristo in un’alleanza eterna che li faccia per sempre figli del Padre celeste. In un’omelia poetica attribuita a Sant’Efrem il Siro, questo Santo immagina che il buon ladrone dopo la sua morte arriva alla porta del paradiso. Sulle sue spalle porta la sua croce. Accorre il cherubino con la spada guizzante come una fiamma (Gen 3,24) per bloccare l’accesso al paradiso ai delinquenti, che non sono degni della gioia eterna. Non ci sono eccezioni. Sant’Efrem descrive una discussione accesa tra il cherubino e il buon ladrone. Si conclude quando il buon ladrone mostra la chiave della porta del Paradiso. E qual è la chiave del paradiso? La croce, la sua croce trasfigurata dalla Croce vivificante del nostro Signore Gesù Cristo. La Croce apre la porta della vita a noi tutti che crediamo in Cristo Gesù, come il buon ladrone: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. La vita di Cristo trionfa in tutti i peccatori pentiti, anche quelli dell’ultimo momento, come il buon ladrone.
 
       2) Amore vero, perché crocefisso.
     Certo, come San Pietro anche noi tentiamo di allontanare Cristo dalla Via della Croce. La tentazione, che viene dal diavolo, è il tentativo di distogliere dalla via tracciata da Dio (la via della Croce) per sostituirla con una via elaborata dalla saggezza degli uomini, da ciò che spesso viene indicato come buon senso.
Cristo ha smascherato e vinto questa tentazione e la sua vita è stata un continuo sì a Dio e un no al tentatore. Gesù ha vinto diavolo. Però il diavolo cerca di ottenere dal discepolo ciò che non è riuscito ad ottenere dal Maestro: separare il Messia dal Crocifisso, la fede in Gesù Re dal suo trono che è la Croce.
Dopo aver precisato la sua identità e dopo aver smascherato la presenza della tentazione, Gesù si rivolge ai discepoli e all’altra gente e con molta chiarezza propone loro il suo stesso cammino. Non ci sono due vie, una per Gesù e una per i discepoli, ma una sola: “Chi vuole venire dietro me rinneghi se stesso e prenda la sua croce”.
La croce è simbolo e icona dell’amore verginale. E’ la sintesi più vera dell’amore ricevuto e donato, dell’amore crocifisso. In effetti niente come la croce dà la certezza di essere amati, da sempre, per sempre, totalmente e senza riserve. Il vero volto di Dio è quello del Crocifisso (Jurgen Moltaman). Se dunque presentiamo al mondo Cristo con il suo vero volto, la gente può sentirlo come una risposta convincente ed è capace di seguire Lui e il suo messaggio, anche se è esigente e segnato dalla croce.
E’ vero che la croce è “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,18-24) e che è difficile per ciascuno di noi capirla e accettarla. Ma se guardiamo, per esempio, all’esempio delle vergini consacrate nel mondo siamo aiutati a capirla, accettarla e vivere la croce.
L’amore vissuto virginalmente è un amore crocifisso non perché è un amore mortificato, ma perché è un amore “sacrificato”, cioè reso sacro dal totale dono di se stessi a Dio. L’amore vergine è quello di Cristo, che “praticò” un amore crocifisso. Gesù per amare è andato in un’esperienza progressiva di svuotamento di sé fino alla croce. Se vogliamo amare da cristiani dobbiamo saperlo e fare come lui. Questo modo di amare mette l’altro prima di me e l’Altro (Dio) più di me. La croce è il segno più grande dell’amore più grande, e la virginità è la crocefissione di sé per donarsi a Dio, per inchiodarsi al suo amore abbracciando Cristo in Croce.
Le Vergini consacrate sono esempio significativo ed alto del fatto che l’amore di Dio è totalitario, infatti bisogna amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (cfr Mc 12,30). Queste donne mostrano che il corpo e il cuore castamente offerto non allontana da Dio, avvicina l’essere umano a Dio più degli stessi angeli (cfr Ef 1,14) e che la vita cristiana è un progressivo configurarci a Cristo crocifisso e risorto. In effetti, come l’amore di Cristo per noi Lo ha condotto alla croce, l’amore nostro per Lui imprime in noi le sue ferite d’amore (Ct 2,5). L’amore purifica e configura, trasfigurando. Ma va tenuto presente che la conformità dolorosa con il Cristo crocifisso ha come scopo ultimo quello di portare il cristiano alla conformità gioiosa con Lui risorto. La verginità non è semplicemente una rinuncia, ma è la manifestazione dell’amore cocente per Dio e per il prossimo. Amore che trasforma l’amante nell’Amato. La verginità vissuta come crocifissione è per testimoniare che l’Amore ha vinto attraverso il dono di sé. La verginità vissuta come risurrezione è per testimoniare che lo Sposo è davvero presente nella vita di ogni giorno e la sua condiscendente presenza dà gioia, gioia piena e compiuta (cfr Gv 3,29). La verginità è libertà, è segno di amore perfetto, che non ha impazienza, né invidia, né gelosia, e assicura la pace irraggiando la gioia.

Lettura Patristica
Filosseno di Mabbug,
Hom., 4, 75 s.

La sequela di Cristo esige fede e semplicità

       È così che Abramo fu chiamato e uscì alla sequela di Dio: egli non si fece giudice della parola rivoltagli e non si sentì impedito dall’attaccamento alla razza e ai parenti, al paese e agli amici, né da altri vincoli umani; ma appena intese la parola e seppe che era di Dio, l’ascoltò semplicemente e, in spirito di fedeltà, la ritenne veritiera; disprezzò tutto e uscì con la semplicità della natura che non agisce con astuzia e per il male...

       Dio non gli rivelò qual fosse questo paese per far trionfare la sua fede e mettere in risalto la sua semplicità; e quantunque sembri che lo conducesse al paese di Canaan, gli prometteva di mostrargli un altro paese, quello della vita che è nei cieli, secondo la testimonianza di Paolo: "Egli aspettava la città dalle solide fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio" (He 11,10). E ha detto ancora: "È certo che ne desideravano una migliore del paese di Canaan, cioè quella celeste" (He 11,16). E per insegnarci chiaramente che quello che egli prometteva di mostrare ad Abramo non era il paese della promessa corporale, Dio lo fece dimorare ad Haran dopo averlo fatto uscire da Ur dei Caldei, e non lo introdusse nel paese di Canaan subito dopo la sua uscita; e affinché Abramo non pensasse aver inteso l’annuncio di una ricompensa e non uscisse per questa ragione secondo la parola di Dio, non gli fece conoscere fin dall’inizio il nome del paese dove lo conduceva.

       Considera perciò quella uscita, o discepolo, e sia la tua come quella; non tardare a rispondere alla viva voce di Cristo che ti ha chiamato. Là, egli non chiamava che Abramo: qui, nel suo Vangelo, egli chiama e invita a uscire alla sua sequela tutti quelli che lo vogliono, invero, è a tutti gli uomini che egli ha rivolto la sua chiamata quando ha detto: "Chi vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24 Mc 8,34 Lc 9,23); e mentre là non ha scelto che Abramo, qui, invita tutti a divenire simili ad Abramo.

 

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