venerdì 18 settembre 2015

Passione di servire.

Domenica XXV del Tempo Ordinario – Anno B – 20 settembre 2015
Rito Romano
Sap 2,12.17-20; Sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

Rito Ambrosiano
1Re 19,4-8; Sal 33; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


1) In cammino verso Gerusalemme.
Gesù sta andando a Gerusalemme per vivere la sua Pasqua di morte e resurrezione. Sa che a Gerusalemme incontrerà la morte e lungo il cammino verso la Città santa prepara i suoi discepoli a questo fatto drammatico e sconvolgente. Per la seconda volta (la prima l’abbiamo ascoltata domenica scorsa) dice loro che sarà consegnato nelle mani degli uomini che vogliono ucciderlo, ma Lui vincerà la morte risorgendo tre giorni dopo.
I discepoli non capiscono le parole del Messia, tanto è vero che arrivati a Cafarnao devono confessare al loro Maestro che, durante la strada, avevano discusso su chi fosse il più grande tra di loro. In un modo ancora oggi sorprendente, il Redentore dice loro che il più grande è colui che serve e che la misura del Regno di Dio è l’accoglienza dei piccoli: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37 - Il Vangelo di San Marco continua poi con altri insegnamenti che vedremo domenica prossima). Insegnamento ben sintetizzato dalla preghiera (la colletta) della Messa di oggi: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall'alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.
Dunque il brano evangelico di oggi non sono due parti giustapposte: una che riguarda l’annuncio della passione di Cristo e l’altra che riguarda la formazione dei discepoli. Si tratta di un unico e coerente discorso a cui possiamo dare il titolo: “La Croce di Gesù e le sue conseguenze per il discepolo”. Farsi servo e accogliere i piccoli nel suo nome sono due comportamenti che con dolcezza e decisione Gesù insegna ai suoi e che sono da “praticare” congiuntamente. Il praticare questi due comportamenti è imitare Cristo, seguendoLo fino ad andare in Croce come Lui ed essere come Lui servo di tutti: “Se uno vuole essere il primo, si consideri l’ultimo di tutti e si faccia il servo di tutti” (Mc 9, 35).
Dal giorno in cui il Figlio di Dio si è incarnato ed è entrato nella nostra storia, percorrendo un lungo cammino –che dalla culla di Betlemme fu un percorso di offerta (= una via della Croce) che culminò alla “culla” della Croce sul monte Calvario a Gerusalemme- i criteri di giudizio sul valore della persona umana e della dignità sono radicalmente capovolti: la dignità di una persona non sta nel posto che occupa, nel lavoro che fa, nelle cose che ha, nella fama che raggiunge. La grandezza dell’uomo non consiste in quello che fa di importante, ma nel servizio a Dio e all’uomo, perché la gloria e la bontà e l’amore del Signore siano manifeste.
Modalità privilegiata di questo servizio è l’accoglienza. Nel suo Vangelo San Marco utilizza il verbo “accogliere” in diverse occasioni e con diverse sfumature, tutte però in qualche modo convergenti. Questo Evangelista ci parla dell’accoglienza fatta al missionario (6,11), alla Parola (4,20), al Regno (10,15), ai piccoli. Accogliere significa ascoltare, rendersi disponibili, ospitare l’Infinito che si è fatto Bambino e i bambini i cui occhi, quando sono nella culla, riflettono il cielo. Accogliere dunque vuole dire soprattutto di lasciarsi “stupire” dalla Parola, o dal missionario, o dal piccolo che si accoglie, e la capacità di porsi al suo servizio.


2) Carità della Passione
Oggi, Gesù insegna ponendo dinanzi ai discepoli il segno di un bambino. Lo abbraccia perché è segno suo; lui è il segno del Padre che Lo ha mandato e il bambino è segno della tenerezza di Dio e dell'obbedienza filiale del suo Unigenito, che per amore si è fatto Bambino e che per obbedienza si è fatto crocifiggere tra i malfattori. È un bambino piccolo, ma è segno di Lui che viene da Dio; e le parole che pronuncia (“Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” Mc 9, 37) sono cariche di grande rivelazione. Il bambino posto in mezzo e abbracciato è allo stesso tempo immagine del Cristo, immagine del cristiano e immagine di Dio. Accogliere il bambino nel nome del Cristo è ricevere il mistero stesso di Dio.
Il Vangelo di oggi è un insegnamento forte sull'umanità del Figlio di Dio: Gesù dice di essere il Figlio dell’uomo. Per questo la sua morte e la sua resurrezione, sono cose concrete, vere. E poi c'è quel colloquio in casa quando il Signore si ritrova con i suoi discepoli, la sua “nuova” santa famiglia, o, meglio, in cammino verso la santità. Non li rimprovera, ma spiega loro il modo nuovo di essere primi: accogliere un piccolo è accogliere Lui e il Padre.
I discepoli fanno fatica a capire che seguire Gesù significa rinunciare a se stessi e prendere la propria croce, ma hanno paura. Noi pure abbiamo paura di capire. Il nostro non capire è un non voler capire. Quel bambino abbracciato e messo in mezzo è il segno del mistero di Dio che si consegna nelle mani dell'uomo. È l’accoglienza dei “piccoli” la verifica dell’autenticità del nostro servizio e della nostra ospitalità all’Infinito che si è fatto Piccolo per noi.
Nella passione troviamo la carità.. Nessuno ha un amore più grande di colui che da grande che era si fece piccolo e dà la vita per i suoi amici, andando in croce. La croce del Signore, in cui ci gloriamo insieme all'Apostolo: Di null'altro mi glorierò dice se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal 6,14), non solo quella composta da due pezzi di legno, ma è l’uomo stesso come scrive San Berardo di Chiaravalle “Forse proprio noi siamo la croce a cui Cristo si ricorda di essere stato confitto. L’uomo, infatti, ha la forma di una croce. e se distende le mani lo esprime molto chiaramente”.
E’ sulla Croce che Gesù nasce al Cielo e Maria Vergine che l’aveva messo alla luce senza dolore, lei la Madre di Dio, lo “mise alla Luce” accettando di soffrire ben più che i dolori del parto e accettando noi suoi figli nel Figlio. Questa “Mater dolorosa” che stette salda sotto la Croce è la Vergine delle vergini, che la seguono imitandola pure nella maternità. Queste donne imitando Maria sono madri nello spirito perché il dono completo di loro stesse a Cristo.
In modo eminente e unico Maria diede il suo corpo e il suo sangue – cioè, tutta la sua vita – perché fossero il corpo e il sangue del Figlio di Dio. La Madonna fu madre nel più pieno e profondo senso della parola: diede la sua vita all’Altro, e ‘informò’ la sua vita in lui. Accettò l’unica vera essenzialità di ogni creatura e di tutto il creato: di porre, cioè, il senso e, quindi, la pienezza della sua vita in Dio. La verginità di Maria fu pienezza e totalità dell’amore, non fu una ‘negazione’ dell’amore.
È la totalità del dono di Maria a Dio e, quindi, la vera espressione, la vera qualità del suo amore. La Madre di Dio e nostra mostra ancora oggi che la maternità è il compimento della femminilità perché è il compimento dell’amore come obbedienza e risposta. È offrendosi che l’amore dà vita, diviene fonte di vita.
Il gioioso mistero della maternità di Maria non è dunque opposto al mistero della sua verginità. È lo stesso mistero. Ella non è madre ‘a dispetto’ della sua verginità; anzi, questa rivela la pienezza della maternità perché la sua verginità è la pienezza dell’amore. Le Vergini consacrate testimoniano che ancora oggi questa maternità è possibile, con semplicità, fede e donazione.
Infatti, è la pienezza dell’amore che accetta la venuta di Dio a noi, dando vita a Lui che è la vita del mondo. Stimiamo, gioiamo e riconosciamo che le consacrate testimoniano il fine e la pienezza di ogni vita, di ogni amore, è “accettare il Cristo”, dargli vita in noi.


Lettura Patristica
San Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 3, 9, 28-37


       "Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»" (Mc 9,30-31).

       «Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

       "Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo" (Mc 9,32).

       Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore; questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

       "E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il più grande"(Mc 9,33-34).

       Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

       "E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me...»"(Mc 9,35-37).

       «Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col semplice comandamento dell’umiltà, e li ammaestra subito dopo con l’esempio dell’innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me", o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto d’onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: "La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà" (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch’essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l’aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all’apparenza, aggiunge:

       ...«E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato»,

       volendo così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre.


Nessun commento:

Posta un commento