Domenica
XXV del Tempo Ordinario – Anno B – 20 settembre 2015
Rito
Romano
Sap
2,12.17-20; Sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
Rito
Ambrosiano
1Re
19,4-8; Sal 33; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51
V
Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.
1)
In cammino verso Gerusalemme.
Gesù
sta andando a Gerusalemme per vivere la sua Pasqua di morte e
resurrezione. Sa che a Gerusalemme incontrerà la morte e lungo il
cammino verso la Città santa prepara i suoi discepoli a questo fatto
drammatico e sconvolgente. Per la seconda volta (la prima l’abbiamo
ascoltata domenica scorsa) dice loro che sarà consegnato nelle mani
degli uomini che vogliono ucciderlo, ma Lui vincerà la morte
risorgendo tre giorni dopo.
I
discepoli non capiscono le parole del Messia, tanto è vero che
arrivati a Cafarnao devono confessare al loro Maestro che, durante la
strada, avevano discusso su chi fosse il più grande tra di loro. In
un modo ancora oggi sorprendente, il Redentore dice loro che il più
grande è colui che serve e che la misura del Regno di Dio è
l’accoglienza dei piccoli: “Chi accoglie uno solo di questi
bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie
me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37 - Il Vangelo di San
Marco continua poi con altri insegnamenti che vedremo domenica
prossima). Insegnamento ben sintetizzato dalla preghiera (la
colletta) della Messa di oggi: “O Dio, Padre di tutti gli uomini,
tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura
del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall'alto, perché
accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te
il più grande è colui che serve”.
Dunque
il brano evangelico di oggi non sono due parti giustapposte: una che
riguarda l’annuncio della passione di Cristo e l’altra che
riguarda la formazione dei discepoli. Si tratta di un unico e
coerente discorso a cui possiamo dare il titolo: “La Croce di Gesù
e le sue conseguenze per il discepolo”. Farsi servo e accogliere i
piccoli nel suo nome sono due comportamenti che con dolcezza e
decisione Gesù insegna ai suoi e che sono da “praticare”
congiuntamente. Il praticare questi due comportamenti è imitare
Cristo, seguendoLo fino ad andare in Croce come Lui ed essere come
Lui servo di tutti: “Se uno vuole essere il primo, si consideri
l’ultimo di tutti e si faccia il servo di tutti” (Mc 9,
35).
Dal
giorno in cui il Figlio di Dio si è incarnato ed è entrato nella
nostra storia, percorrendo un lungo cammino –che dalla culla di
Betlemme fu un percorso di offerta (= una via della Croce) che
culminò alla “culla” della Croce sul monte Calvario a
Gerusalemme- i criteri di giudizio sul valore della persona umana e
della dignità sono radicalmente capovolti: la dignità di una
persona non sta nel posto che occupa, nel lavoro che fa, nelle cose
che ha, nella fama che raggiunge. La grandezza dell’uomo non
consiste in quello che fa di importante, ma nel servizio a Dio e
all’uomo, perché la gloria e la bontà e l’amore del Signore
siano manifeste.
Modalità
privilegiata di questo servizio è l’accoglienza. Nel suo Vangelo
San Marco utilizza il verbo “accogliere” in diverse occasioni e
con diverse sfumature, tutte però in qualche modo convergenti.
Questo Evangelista ci parla dell’accoglienza fatta al missionario
(6,11), alla Parola (4,20), al Regno (10,15), ai piccoli. Accogliere
significa ascoltare, rendersi disponibili, ospitare l’Infinito che
si è fatto Bambino e i bambini i cui occhi, quando sono nella culla,
riflettono il cielo. Accogliere dunque vuole dire soprattutto di
lasciarsi “stupire” dalla Parola, o dal missionario, o dal
piccolo che si accoglie, e la capacità di porsi al suo servizio.
Oggi,
Gesù insegna ponendo dinanzi ai discepoli il segno di un bambino. Lo
abbraccia perché è segno suo; lui è il segno del Padre che Lo ha
mandato e il bambino è segno della tenerezza di Dio e
dell'obbedienza filiale del suo Unigenito, che per amore si è fatto
Bambino e che per obbedienza si è fatto crocifiggere tra i
malfattori. È un bambino piccolo, ma è segno di Lui che viene da
Dio; e le parole che pronuncia (“Chi accoglie uno solo di questi
bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie
me, ma colui che mi ha mandato” Mc 9, 37) sono cariche di
grande rivelazione. Il bambino posto in mezzo e abbracciato è allo
stesso tempo immagine del Cristo, immagine del cristiano e immagine
di Dio. Accogliere il bambino nel nome del Cristo è ricevere il
mistero stesso di Dio.
Il
Vangelo di oggi è un insegnamento forte sull'umanità del Figlio di
Dio: Gesù dice di essere il Figlio dell’uomo. Per questo la sua
morte e la sua resurrezione, sono cose concrete, vere. E poi c'è
quel colloquio in casa quando il Signore si ritrova con i suoi
discepoli, la sua “nuova” santa famiglia, o, meglio, in cammino
verso la santità. Non li rimprovera, ma spiega loro il modo nuovo
di essere primi: accogliere un piccolo è accogliere Lui e il Padre.
I
discepoli fanno fatica a capire che seguire Gesù significa
rinunciare a se stessi e prendere la propria croce, ma hanno paura.
Noi pure abbiamo paura di capire. Il nostro non capire è un non
voler capire. Quel bambino abbracciato e messo in mezzo è il segno
del mistero di Dio che si consegna nelle mani dell'uomo. È
l’accoglienza dei “piccoli” la verifica dell’autenticità del
nostro servizio e della nostra ospitalità all’Infinito che si è
fatto Piccolo per noi.
Nella
passione troviamo la carità.. Nessuno ha un amore più grande di
colui che da grande che era si fece piccolo e dà la vita per i suoi
amici, andando in croce. La croce del Signore, in cui ci gloriamo
insieme all'Apostolo: Di null'altro mi glorierò dice se non nella
croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal 6,14), non solo
quella composta da due pezzi di legno, ma è l’uomo stesso come
scrive San Berardo di Chiaravalle “Forse proprio noi siamo la croce
a cui Cristo si ricorda di essere stato confitto. L’uomo, infatti,
ha la forma di una croce. e se distende le mani lo esprime molto
chiaramente”.
E’
sulla Croce che Gesù nasce al Cielo e Maria Vergine che l’aveva
messo alla luce senza dolore, lei la Madre di Dio, lo “mise alla
Luce” accettando di soffrire ben più che i dolori del parto e
accettando noi suoi figli nel Figlio. Questa “Mater dolorosa” che
stette salda sotto la Croce è la Vergine delle vergini, che la
seguono imitandola pure nella maternità. Queste donne imitando Maria
sono madri nello spirito perché il dono completo di loro stesse a
Cristo.
In
modo eminente e unico Maria diede il suo corpo e il suo sangue –
cioè, tutta la sua vita – perché fossero il corpo e il sangue del
Figlio di Dio. La Madonna fu madre nel più pieno e profondo senso
della parola: diede la sua vita all’Altro, e ‘informò’ la sua
vita in lui. Accettò l’unica vera essenzialità di ogni creatura e
di tutto il creato: di porre, cioè, il senso e, quindi, la pienezza
della sua vita in Dio. La verginità di Maria fu pienezza e totalità
dell’amore, non fu una ‘negazione’ dell’amore.
È
la totalità del dono di Maria a Dio e, quindi, la vera espressione,
la vera qualità del suo amore. La Madre di Dio e nostra mostra
ancora oggi che la maternità è il compimento della femminilità
perché è il compimento dell’amore come obbedienza e risposta. È
offrendosi che l’amore dà vita, diviene fonte di vita.
Il
gioioso mistero della maternità di Maria non è dunque opposto al
mistero della sua verginità. È lo stesso mistero. Ella non è madre
‘a dispetto’ della sua verginità; anzi, questa rivela la
pienezza della maternità perché la sua verginità è la pienezza
dell’amore. Le Vergini consacrate testimoniano che ancora oggi
questa maternità è possibile, con semplicità, fede e donazione.
Infatti,
è la pienezza dell’amore che accetta la venuta di Dio a noi, dando
vita a Lui che è la vita del mondo. Stimiamo, gioiamo e riconosciamo
che le consacrate testimoniano il fine e la pienezza di ogni vita, di
ogni amore, è “accettare il Cristo”, dargli vita in noi.
Lettura
Patristica
San
Beda il Venerabile,
In
Evang. Marc., 3, 9, 28-37
"Partiti
di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo
sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il
Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo
uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»"
(Mc
9,30-31).
«Il
Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando
queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte
da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso,
ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).
"Essi
però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo"
(Mc
9,32).
Questa
ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro
intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore;
questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non
avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto
essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a
sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea
della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a
quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della
sua passione.
"E
giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa
discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per
strada discutevano tra loro chi fosse il più grande"(Mc
9,33-34).
Sembra
che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché
avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in
disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro.
Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (Mt
16,18-19),
che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la
Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede,
dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano
o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che
Pietro fosse superiore a tutti.
"E
sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere
il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un
fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia,
disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio
nome, riceve me...»"(Mc
9,35-37).
«Il
Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro
desiderio di gloria col freno dell’umiltà, e fa loro intendere che
non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col
semplice comandamento dell’umiltà, e li ammaestra subito dopo con
l’esempio dell’innocenza del fanciullo. Dicendo infatti:
"Chiunque
riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me",
o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti
da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto
d’onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia,
ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli
nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la
carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo).
Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni
del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi
avranno messo in pratica il suo comandamento: "Imparate
da me che sono mite e umile di cuore"
(Mt
11,29),
solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: "La
sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi
abbraccerà"
(Ct
2,6).
E dopo aver detto: «Chiunque
di voi riceverà uno di questi fanciulli»,
giustamente aggiunge: «nel
mio nome»,
in modo che anch’essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di
Cristo e con l’aiuto della ragione, quello splendore della virtù
che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad
accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo
accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi
solo all’apparenza, aggiunge:
...«E
chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato»,
volendo
così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre.
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