Domenica
XXIII del Tempo Ordinario – Anno B – 6 settembre 2015
Rito
Romano
Is
35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
Rito
Ambrosiano
Is
29,13-21; Sal 84; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
II
Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.
1)
La guarigione di un cuore sordo e muto.
Il
brano del Vangelo di oggi racconta di un sordomuto miracolato da
Gesù. Non dimentichiamo, però, che il Messia non è venuto soltanto
per guarire da malattie e difetti fisici. Lui è la Parola fatta
carne che vuole guarire non solamente il popolo di Israele che –
come spesso affermavano i Profeti - era un popolo duro d’orecchio
rispetto alla parola di Dio e perciò anche incapace di dare una vera
risposta. Cristo vuole guarire e parlare a tutta l’umanità e il
fatto che questo miracolo del sordomuto avvenga nel territorio della
Decapoli1
indica che Cristo è Parola per tutta l’umanità e che il non
ascolto di Dio era (ed è) un peccato da cui l’umanità intera ha
bisogno di essere salvata. Inoltre va tenuto presente che il racconto
indica pure che la salvezza portata da Gesù non solo è per ogni
uomo (universalità geografica) ma pure per tutto l’uomo, per
l’uomo nella sua integralità (universalità antropologica).
Gesù
di Nazareth è il Redentore di tutte le “parti” del mondo ed di
ogni “parte” di cui siamo composti, anche di quella parte di noi
stessi che è ancora pagana. E’ presente in quella Decapoli che
tutti ancora abbiamo nel cuore.
E’
vero che Gesù opera al di fuori del popolo d’Israele, compie un
gesto che è apertura del campo della rivelazione a tutta l’umanità.
Ma è altrettanto vero che Lui si muove in una terra pagana e questo
dice con chiarezza che Lui è presente dovunque ed è presente
proprio anche là dove lo immaginiamo assente: è presente in tutte
le “terre pagane”, in tutte le situazioni rovinate dal peccato.
Gesù
di Nazareth, Redentore di ogni uomo e di tutto l’uomo, per salvare
prega. Il Figlio di Dio prima di compiere questo miracolo sul
sordomuto alza lo sguardo al cielo – lo stesso gesto che Lui aveva
compiuto alla moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mc 6,41):
il Figlio di Dio prega. A volte, Gesù faceva dei miracoli con
l’autorità della sua parola, potremmo dire a nome proprio. In
questo modo dimostrava di non essere semplicemente un profeta di Dio,
ma di essere Dio stesso. Altre volte invece, come nel caso del
sordomuto, Gesù ricorre alla preghiera, per insegnarci che la
salvezza è un puro dono della grazia di Dio: un dono da chiedere,
non da pretendere.
In
ogni caso, i miracoli di Cristo non sono mai fine a se stessi; sono
“segni”, che annunciano e inaugurano il suo Regno di verità e di
amore. Segni che contengono quello che il Signore Gesù vorrebbe
operare in ogni suo fratello e sorella. Quello che Gesù operò un
giorno per una persona sul piano fisico indica quello che egli vuole
operare ogni giorno per ogni persona sul piano spirituale. Cristo
tocca il corpo per guarire lo spirito. L’uomo guarito da Cristo era
sordomuto; non poteva comunicare con gli altri, ascoltare la loro
voce ed esprimere i propri sentimenti e bisogni. Se la sordità e il
mutismo consistono nella incapacità di comunicare correttamente con
il prossimo, di avere relazioni facili e chiare, buone e belle,
allora dobbiamo riconoscere che, chi più chi meno, siamo tutti dei
sordomuti ed è perciò a tutti che Gesù rivolge quel suo grido:
“Effatà, àpriti”.
Da
parte di ciascuno di noi non resta che lasciarci portare presso il
Signore e chiedergli di aprirci le orecchie ogni giorno, perché
possiamo accogliere la Sua Parola di vita, anche quando ci risulta
scomoda, anche quando il rumore delle creature fuori di noi e quello
delle passioni dentro di noi ci assordano e ci impediscono di sentire
la Sua voce.
2)
Il cuore guarito parla la lingua dell’amore.
La
prima voce che questo miracolato ha potuto ascoltare è stata quella
di Gesù. La prima parola donata a questo sordo è stata:
“Effatà”, “Apriti”. E così poté udire la Parola di Dio
e accoglierla perché l’apertura delle orecchie implica la
dilatazione del cuore nella gioia non tanto semplicemente di essere
chiamati, ma di essere realmente “figli”.
Quando
nel Battesimo divenimmo figli nel Figlio, anche a noi fu detta la
parola “Effatà”, cioè “apriti”, e così fummo
aperti alla Parola di Dio, al dialogo con il nostro Dio e Padre.
L’ascolto
del Figlio, Verbo di Dio, ci fa come Lui: figli. “Ciò fa l’amore,
rende l’amante simile all’amato” (Sant'Alfonso Maria de’
Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo). Se
perseveriamo in questo ascolto, possiamo parlare sempre con amore. Se
ascoltiamo Cristo, saremo sempre più capaci di parlare come Cristo,
di dire: Gesù. Se siamo aperti al dialogo con il Padre, restando
aperti alla sua Parola, saremo sempre più capaci, per grazia, di
udire le consolazioni, i suggerimenti e i comandi amorosi di Dio e di
rispondergli con la preghiera e con la vita.
Il
cuore guarito ascolta Dio per pregarlo e comunicare il suo amore
all’umanità, e Gesù ci insegna che la nostra vita cristiana
dipende dalla preghiera e dalla carità. Non è qui il caso di
parlare del rapporto tra contemplazione e azione. Voglio solo
ricordare che non ci si deve perdere nell’attivismo puro. Occorre
che nella nostra attività ci si lasci penetrare dalla luce della
Parola di Dio. In questo modo si impara la vera carità, il vero
servizio per l'altro, che non ha bisogno di tante cose - ha bisogno
certamente delle cose necessarie - ma ha bisogno soprattutto
dell’affetto del nostro cuore, della luce di Dio. La Chiesa unisce
sempre il ministero della verità, annunciando la Parola, al
ministero della carità.
I
Santi, tutti, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra
preghiera e azione, tra l’amore totale per Dio e l’amore generoso
per i fratelli. Tutti i Santi ci mostrano che è possibile pregare
ovunque, anche in un campo di concentramento, come ha fatto Santa
Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e fare del bene al
prossimo come fece San Massimiliano Kolbe che si offrì per morire al
posto di un altro: “Non c’è carità più grande di chi da la
vita per gli amici”.
Un
modo più normale, ma non meno vero, un modo –direi- di santità
ordinaria per vivere questa unione tra preghiera e azione è quello
delle Vergini consacrate che vivono nel mondo.
Per
loro, come per tutte le persone consacrate, la vita di preghiera
consiste nell'essere abitualmente e coscientemente alla presenza di
Dio, nel vivere in relazione con Dio al quale si sono donate senza
riserva.
La
loro preghiera2
coincide con la loro vita e loro vita è la loro preghiera, vissuta
come quotidiano sacrificio di lode. Se i “grandi” santi hanno
mostrato che si può essere preghiera e casa di preghiera nel dramma
di un campo di concentramento o di una grave malattia, le Vergini
consacrate mostrano nella loro umiltà che si può essere preghiera e
tempio di preghiera nella “banalità” del quotidiano. Nella loro
vita=preghiera sono riconoscibili le cinque caratteristiche che la
preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata,
devota e umile3.
Sono le caratteristiche individuate da San Tommaso d’Aquino, che
definiva la preghiera “espressione del desiderio che l’uomo ha di
Dio”.
Con
casto atteggiamento sponsale le Vergini consacrate sono in costante
ascolto della Parola di Dio e parlano la Parola pura e casta di Dio.
Questa Parola pura è Parola di Vita che parla anche dal di dentro
della nostra vita di persone peccatrici, introduce in noi la vita e
la custodisce in noi. Poi, attraverso noi, è detta al mondo intero.
Se ascoltiamo questa Parola con cuore puro, essa passa attraverso
tutto l'inquinamento del nostro linguaggio umano al nostro prossimo
che così è raggiunto dalla Parola che trasmette la vita in
pienezza.
1
Decapoli
(dal greco: Δὲκα
πὸλἰς,
dieci
città)
era la denominazione usata per un territorio composto da un gruppo
di dieci città situate presso la frontiera orientale dell'Impero
Romano, fra le attuali Giordania, Siria e Israele. Non costituivano
un corpo politico unitario, ma ai tempi della vita terrena di Cristo
erano comunemente raggruppate sotto la denominazione di Decapoli per
le loro affinità linguistiche, culturali e politiche. Erano tutti
centri di cultura greca e romana, quindi pagani.
2
“E’ necessario
tenere presente che la preghiera è un atteggiamento interiore,
prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di
fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare
parole. La preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel
più profondo della persona”. (Benedetto XVI)
3
1.
Sicura, perché hanno fatto esperienza di ciò che Dio dice nel
Salmo 91,15:
“Mi invocherà e gli darò risposta”.
2. Retta. Ogni
preghiera deve essere retta. Già San Giovanni Damasceno insegnava
che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un
bene per noi”.
Ecco perché molte
volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose
che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e
non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3). Se poi chiediamo al
Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere, la nostra
preghiera sarà rettissima. A questo riguardo S. Agostino diceva:
“Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la
parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto
nella Preghiera del Signore”.
3. Ordinata. La
preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il
desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto
ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i
beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della
terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il
regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in
aggiunta” (Mt
6,33).
4. Devota. La
preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza
della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio,
secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie
mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti
loderà la mia bocca” (Sal
63,5-6). La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore
di Dio e del prossimo.
5. Umile.
La preghiera deve essere umile perché Dio “si
volge alla preghiera dell'umile e non
disprezza la sua supplica” (Sal
102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc
18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili,
sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt
9,11).
Lettura
patristica
San
Beda il Venerabile,
In
Evang. Marc., 2, 7, 32-37
E
gli conducono un sordomuto e lo pregano di imporre su di lui la mano
(Mc
7,32).
Il
sordomuto è colui che non apre le orecchie per ascoltare la parola
di Dio, né apre la bocca per pronunziarla. È necessario perciò che
coloro i quali, per lunga abitudine, hanno già appreso a pronunziare
e ascoltare le parole divine, siano loro a presentare al Signore,
perché li risani, quelli che non possono farlo per l’umana
debolezza; così egli potrà salvarli con la grazia che la sua mano
trasmette.
"Ed
egli, traendolo in disparte dalla folla, separatamente mise le sue
dita nelle orecchie di lui"
(Mc
7,33).
Il
primo passo verso la salvezza è che l’infermo, guidato dal
Signore, sia portato in disparte, lontano dalla folla. E questo
avviene quando, illuminando l’anima di lui prostrata dai peccati
con la presenza del suo amore, lo distoglie dal consueto modo di
vivere e lo avvia a seguire la strada dei suoi comandamenti. Mette le
sue dita nelle orecchie quando, per mezzo dei doni dello Spirito
Santo, apre le orecchie del cuore a intendere e accogliere le parole
della salvezza. Infatti lo stesso Signore testimonia che lo Spirito
Santo è il dito di Dio, quando dice ai giudei: "Se
io scaccio i demoni col dito di Dio, i vostri figli con che cosa li
scacciano?"
(Lc
11,19-20).
Spiegando queste parole un altro evangelista dice: "Se
io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio"
(Mt
12,28).
Gli stessi maghi d’Egitto furono sconfitti da Mosè in virtù di
questo dito, dato che riconobbero: "Qui
è il dito di Dio"
(Ex
8,18-19);
infine la legge fu scritta su tavole di pietra (); in quanto, per
mezzo del dono dello Spirito Santo, siamo protetti dalle insidie
degli uomini e degli spiriti maligni, e veniamo istruiti nella
conoscenza della volontà divina. Ebbene, le dita di Dio messe nelle
orecchie dell’infermo che doveva essere risanato, sono i doni dello
Spirito Santo, che apre i cuori che si erano allontanati dalla via
della verità all’apprendimento della scienza della salvezza...
"E
levati gli occhi al cielo, emise un gemito e pronunciò: «Effata»,
cioè «apriti»"
(Mc
7,34).
Ha
levato gli occhi al cielo per insegnare che dobbiamo prendere da lì
la medicina che dà la voce ai muti, l’udito ai sordi e cura tutte
le altre infermità. Ha emesso un gemito non perché abbia bisogno di
gemere per chiedere qualcosa al Padre colui che in unità col Padre
dona ogni cosa a coloro che chiedono, ma per presentarsi a noi come
modello di sofferenza quando dobbiamo invocare l’aiuto della divina
pietà per i nostri errori oppure per le colpe del nostro prossimo.
"E
subito si aprirono le orecchie di lui e subito si sciolse il nodo
della sua lingua e parlava correttamente"
(Mc
7,35).
In
questa circostanza sono chiaramente distinte le due nature dell’unico
e solo Mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti, levando gli occhi al
cielo per pregare Dio, sospira come un uomo, ma subito guarisce il
sordomuto con una sola parola, grazie alla potenza che gli deriva
dalla divina maestà. E giustamente si dice che «parlava
correttamente» colui al quale il Signore aprì le orecchie e sciolse
il nodo della lingua. Parla infatti correttamente, sia confessando
Dio, sia predicandolo agli altri, solo colui il cui udito è stato
liberato dalla grazia divina in modo che possa ascoltare e attuare i
comandamenti celesti, e la cui lingua è stata posta in grado di
parlare dal tocco del Signore, che è la Sapienza stessa. Il malato
così risanato può giustamente dire col salmista: "Signore,
apri le mie labbra, e la mia bocca annunzierà la tua lode"
(Ps
50,17),
e con Isaia: "Il
Signore mi ha dato una lingua da discepolo affinché sappia rianimare
chi è stanco con la parola. Ogni mattina mi sveglia l’orecchio,
perché ascolti, come fanno i discepoli"
(Is
50,4).
"E
ordinò loro di non dirlo a nessuno. Ma quanto più così loro
ordinava, tanto più essi lo divulgavano e, al colmo dello stupore,
dicevano: «Ha fatto tutto bene; ha fatto udire i sordi e parlare i
muti»"
(Mc
7,36-37).
«Se
il Signore, che conosceva le volontà presenti e future degli uomini,
sapeva che costoro avrebbero tanto più annunziato i suoi miracoli
quanto più egli ordinava loro di non divulgarli, perché mai dava
quest’ordine, se non per dimostrare con quanto zelo e con quanto
fervore dovrebbero annunziarlo quegli indolenti ai quali ordina di
annunziare i suoi prodigi, dato che non potevano tacere coloro cui
egli ordinava di non parlare? «(Agostino).
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