IV Domenica di Pasqua - Anno
B – 26 aprile 2015
Rito Romano
At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv
3,1-2; Gv 10,11-18
Rito Ambrosiano
At 20,7-12; Sal 29; 1Tim
4,22-16; Gv 10,27-30
1)
Cristo, Pastore buono1
e Uomo nuovo.
In ogni persona umana c’è
il desiderio di sconfiggere la morte e di vivere per sempre. Il
Cristo risorto si pone come risposta vera e concreta a questo
desiderio e il brano del Vangelo Gv
10, 11 – 18) di oggi ci insegna che se vogliamo la vita dobbiamo
seguire il Pastore buono, che è Vita e che la dona incessantemente.
Infatti in questo brano,
Gesù stesso
non solo spiega il significato dell’immagine del buon
pastore, descrivendone
l’identità
(vv. 11-13)
e
la conoscenza
esistente tra il pastore e il suo gregge (vv. 13-16), ma soprattutto
sottolineando il gesto più bello: il
dono della vita.
Per cinque volte (Gv
10, 11.15.17.18) Gesù
rivela di essere il Pastore per eccellenza mediante il dono della
vita, che è offerta completamente
.
Con l’espressione “donare
la vita” Gesù non intende solamente la sua morte in Croce per noi,
anche perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il
lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita va inteso, in primo luogo,
nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che
dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Un
dono di vita per noi, che Cristo ama al punto tale da sacrificare la
vita sulla croce.
Dunque quando Cristo
afferma: “Offro la vita” significa: “Vi do il mio modo di
essere e di amare”. Quindi ci propone un modello di “uomo nuovo”
che non è frutto di un’astrazione: è lui stesso, il Figlio
che si sa amato dal Padre, che ama i fratelli e propone questa
libertà di amare e di servire. Gli altri – dice Gesù - sono
semplicemente ladri e briganti, prendono la vita delle pecore, non la
danno a loro.
Il pastore buono è il
pastore che ama. L’uomo buono è l’uomo che ama, imitando il buon
Pastore.
Definendo se stesso come
“buon pastore” e chiedendo di seguirlo, Gesù indica un modello
di uomo nuovo che, da una parte, è disarmante e disarmato,
dall’altro è pieno di coraggio perché affronta i lupi e la croce.
Gesù è il pastore bello (che in greco si dice “kalòs” e che è
stato tradotto con “buono”), perché la bellezza di Lui pastore è
il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio.
Con quale bellezza Cristo
ci attrae? Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi?
Con un verbo ripetuto cinque volte: io dono la mia vita. Gesù ci
offre questo scambio: “la mia vita per la tua”. Il Dio incarnato
è attraente e Sant’Agostino
spiega “Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]:
‘Ciascuno è attratto dal suo piacere, non dalla necessità ma dal
piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione
possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il
suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella
vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo”. Sempre
Sant’’Agostino
riguardo alla bellezza di Gesù Cristo scrive: “Perché anche nella
croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli
uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (Cor
1,23-25) […] Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della
Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello
il Verbo nato fanciullo […]. È bello dunque in cielo, bello in
terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei
miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita e bello
nel riprenderla, bello nel non curarsi della morte, bello
nell’abbandonare la vita e nel riprenderla; bello sulla croce,
bello nel sepolcro, bello nel cielo […]. Suprema e vera bellezza è
la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se
ovunque è giusto, ovunque è bello. Venga a noi per farsi
contemplare dagli occhi dello spirito”.
2)
La vocazione è dono per condividere.
Gesù Cristo ha ricevuto
dal Padre questo comando di “donare”, che fa la vita bella e
lieta: il dono fa la vita lieta perché “c’è più gioia nel dare
che nel ricevere” e perché con il dono non si è mai soli, si vive
nell’esperienza gioiosa della condivisione e della comunione.
Ma il buon Pastore, che è
bello e coraggioso, non ha semplicemente un ordine da eseguire ha un
movente: l’amore del Padre e per noi. Questa carità è ciò che lo
muove. Per Lui ogni essere umano è importante e per ciò dà la sua
vita. Agli apostoli che sulla barca sballottata dal mare in tempesta
Gli gridano: “Signore, non ti importa che moriamo?” il Signore
risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: “Sì, mi
importa di voi, mi importa la vostra vita, voi siete importanti per
me”. In un certo senso, ripete a ciascuno noi: “Mi importano i
passeri del cielo, ma tu vali più di molti passeri. Mi importano i
gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in
capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a
Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo,
soffrendo per l'assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo
comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene
l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare
bene finché non sta bene ogni sua pecora.
La vocazione è a vivere
Cristo e diventare come Lui dono. Per
salvare gli uomini e per insegnare loro il vero amore, il Figlio Dio
si è “abbassato” fino a loro, e proprio in questo “abbassamento”
ha offerto l'agape, cioè l'amore non possessivo ma “donativo”.
E’
bello
dire di sì a Dio che chiama. E' vero che da una parte occorre
rinunciare a se stesi e darGli tutto, ma se ne riceve in cambio la
vita eterna e cento volte tanto di tutto quello che si è lasciato
per seguire Lui, il Signore.
La
vocazione è un esodo, come ha recentemente ricordato Papa Francesco,
da se stessi verso Dio in compagnia dei nostri fratelli e sorelle in
umanità. Alla
radice di ogni vocazione cristiana – spiega il Papa – c’è
proprio l’uscita “dalla comodità e rigidità del proprio io per
centrare la nostra vita in Gesù Cristo”. Un’uscita che non
rappresenta però “un disprezzo della propria vita del proprio
sentire e della propria umanità”, anzi. La vocazione – spiega
Papa Francesco citando l’enciclica “Deus
Caritas est”
di Benedetto XVI – è una chiamata d’amore che attrae e rimanda
oltre sé stessi, innescando “un esodo permanente dall’io chiuso
in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé”.
Con
l’offerta totale di se stesse, le Vergini consacrate nel mondo si
abbandonano totalmente nel cuore di Cristo, loro Sposo, e questo
amore “oblativo” testimoniano. Esse mostrano in modo particolare
che il dono ricevuto diventa un dono offerto per la lode a Dio e la
salvezza del mondo. Come lo ricorda il RCV: “La
verginità consacrata manifesta più compiutamente l’amore
verginale di Cristo per la Chiesa sua Sposa e la fecondità
soprannaturale di questo spirituale unione”. Perché una vita non
donata è arida, una vita donata è feconda di bene.
Infine
è importante ricordare che questo vita donata nella spiritualità
delle vergini consacrate nell’Ordo Virginum ha tratti
caratteristici specifici. Questi tratti sono collegati almeno a tre
immagini che la tradizione ha utilizzato per delineare la figura
spirituale delle vergini consacrate e che il Rito
di consacrazione tratteggia
sul modello della Chiesa sposa,
sorella e
madre.
La
figura della sposa
rappresenta
l’esperienza dell’unione intima e indissolubile con Cristo. La
figura della sorella
raccomanda
l’impegno della condivisione con cui le vergini consacrate si
pongono all’interno del contesto ecclesiale e sociale; la figura
della madre
allude
alla fecondità della consacrazione che trova in Maria un’icona
splendida e illuminante.
1
Nel Vangelo di oggi, Gesù
si definisce per la prima volta in modo esplicito come il “buon
pastore”. Il termine «buono» (così è tradotto l’aggettivo
greco kalos,
che vuol dire bello) è inteso nel senso di “generoso, ideale,
genuino, vero”: egli è il pastore ideale annunziato nelle
Scritture. Questo appellativo gli compete perché egli “(de)pone
la vita per le sue pecore”. L’espressione viene ripetuta con
qualche variazione ben cinque volte nel brano (Gv 10, 11.15.17.18).
Il verbo “(de)porre” (tithêmi)
è usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Gesù
(de)pone/(es)pone la vita ‘per’ (hyper)
le sue pecore. Questa frase richiama dove si dice che Gesù dà “la
sua vita come riscatto ‘per’ (anti)
molti”. Ma, mentre la preposizione hyper,
usata da Giovanni,
significa espressamente
«in favore di», in Marco l’uso di anti
(al posto di) dà adito all’idea di sostituzione, anche se nel
greco ellenistico una distinzione netta tra preposizioni simili era
scomparsa: in pratica le due espressioni si equivalgono. Inoltre il
testo greco usa la parola “psyche”, che è tradotta con “vita”,
ma letteralmente vuol dire “anima”. L’espressione “dare
l’anima” esiste anche nelle lingue moderne. Quindi si può
legittimamente intendere l’espressione: “dare la vita” : 1°)
come offerta di sé, 2°) come mettere al mondo, e 3°) come dare la
vita eterna, perché spirituale e non solo materiale.
Lettura
Patristica
Clemente
di Alessandria,
da
il
Paedagogus,
83, 2 - 84, 3
Gesù, il Logos
salvatore, pastore, pedagogo
Le
persone in buona salute non hanno bisogno del medico (Mt
9,12e
parall.), almeno finché stanno bene; i malati al contrario
richiedono la sua arte. Allo stesso modo, noi che in questa vita
siamo malati di desideri riprovevoli, di intemperanze biasimevoli, di
tutte le altre infiammazioni delle nostre passioni, abbiamo bisogno
del Salvatore. Egli ci applica dolci medicamenti, ma del pari amari
rimedi: le radici amare del timore bloccano le ulcere dei peccati.
Ecco perché il timore, anche se amaro, è salutare.
Dunque
noi, i malati, abbiamo bisogno del Salvatore; gli smarriti, di colui
che ci guiderà; i ciechi, di colui che ci darà la vista; gli
assetati, della sorgente di acqua viva, e coloro che ne berranno non
avranno più sete (cf. - Jn
4,14);
i morti, abbiamo bisogno della vita; il gregge, del pastore; i
bambini, del pedagogo; e tutta l’umanità ha bisogno di Gesù: per
paura che, senza educazione, peccatori, cadiamo nella condanna
finale; è necessario, al contrario, che siamo separati dalla paglia
ed ammassati "nel
granaio"
del Padre. "Il
ventilabro è nella mano"
del Signore e con esso separa il grano dalla pula destinata al fuoco
(Mt
3,12).
1) Se volete, Possiamo
comprendere la suprema sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo,
che è il Signore di tutto e il Logos del Padre, quando impiega
un’allegoria e si dà il nome di pastore del gregge (cf. Jn
10,2s);
ma è anche il Pedagogo dei piccolini.
2) È così che egli si
rivolge diffusamente agli anziani, attraverso Ezechiele, e dà loro
il salutare esempio di una sollecitudine quanto mai accorta: "Io
medicherò colui che è zoppo e guarirò colui che è oppresso;
ricondurrò lo smarrito
(Ez
34,16)
e lo farò
pascolare sul mio monte santo"
(Ez
34,14).
Tale è la promessa di un buon pastore. Facci pascere, noi piccolini,
come un gregge;
3) sì, o Signore, dacci con
abbondanza il tuo pascolo, che è la giustizia; sì, Pedagogo, sii
nostro pastore fino al tuo monte santo, fino alla Chiesa che si
eleva, che domina le nubi, che tocca i cieli! (Ps
14,1
Ap
21,2).
"E io
sarò",
egli dice, "loro
pastore e starò loro vicino"
(Ez
34,23),
come tunica sulla loro pelle. Egli vuole salvare la mia carne,
rivestendola con la tunica dell’incorruttibilità (1Co
15,53);
ed ha unto la mia pelle.
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