II Domenica di Pasqua –
Domenica della Misericordia - Anno B – 12 aprile 2015
Rito Romano
At 4,32-35; Sal 117; 1
Gv 5,1-6; Gv 20,19-31
Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col
2,8-15; Gv 20,19-31
Domenica II di Pasqua -
(della Divina Misericordia)
(ormai
tolte le vesti battesimali)
1) Un incontro
che conferma la fede.
I discepoli avranno
perso la fede a causa della passione e morte di Gesù? Poteva la fede
di questi futuri pescatori di uomini venire meno del tutto? Certo i
giorni drammatici culminati con Cristo morto in Croce, l’aveva resa
debole, fragile, incrinata e il cuore era pieno di paura. Tant’è
vero che, anche se restano a Gerusalemme, si sono rinchiusi nel
Cenacolo con le porte sprangate per paura dei Giudei. Ma, ecco che
alcune donne (come ci ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa)
avevano annunciato loro che Cristo era risorto. Tuttavia questo
annuncio non bastò loro. In effetti, è necessario, ma non
sufficiente che qualcuno Lo abbia visto e annunciato: è necessario
incontrarLo.
Nel luogo dove si
erano rifugiati c’era ancora aria di paura. Paura dei Giudei,
certo, ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria
viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento.
Eppure, nonostante il loro cuore inaffidabile - e il nostro cuore
lento – Gesù venne in quella casa e stette in mezzo a loro.
Gesù sapeva che la
fede non poteva rifiorire, essere confermata solamente dal ricordo di
Lui, di quanto Lui aveva detto e fatto nei tre anni trascorsi con i
suoi apostoli. Il ricordo, per quanto vivo, non basta a rendere viva
una persona, al massimo può far nascere una scuola di vita e di
pensiero.
Dunque Gesù, dopo
aver lasciato il luogo di morte che era il sepolcro, entra in un
luogo dove ci sono i suoi discepoli1
morti di paura, morti nel cuore, e sta in mezzo a loro, che - secondo
me – non vuol dire solo al centro ma anche dentro.
Gesù risorto sta di
nuovo con i suoi discepoli e cosa fa? Porta la sua pace. La prima
esperienza di resurrezione è che nel luogo chiuso dove io mi trovo,
nelle mie paure, Lui è lì presente al centro e mi annuncia la pace.
E’ lì che Lo incontro, proprio nel chiuso delle mie paure.
Quindi, è importante
questo incontro, perché è un fatto che cambia la vita. Dopo
l’incontro della Maddalena, che cerca Cristo con santo amore e pura
pietà, oggi siamo chiamati a celebrare l’incontro di amore e di
pietà di Cristo che cerca noi. Il Risorto viene incontro a noi che
siamo morti nelle nostre paure, nelle nostre fragilità, nel nostro
peccato, nelle nostre chiusure, nel nostro buio, per farci risorgere
attraverso la pace e la gioia.
La pace e la gioia
sono un dono del Risorto, che affondano le loro radici nell’amore.
Pace e gioia sono il dono del Risorto e, al tempo stesso, le tracce
per riconoscerlo. Ma occorre frantumare l’attaccamento a se stessi.
Solo così non si è più ricattabili e si è liberati dalla paura.
La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due
condizioni senza le quali non è possibile alcuna esperienza della
presenza del Risorto.
Il risorto Gesù,
ricco di misericordia e di bontà e di pace, non è fermato
dalle porte chiuse del Cenacolo. Sant’Agostino spiega che “le
porte chiuse non hanno impedito l’entrata di quel corpo in cui
abitava la divinità. Colui che nascendo aveva lasciata intatta la
verginità della madre poté entrare nel cenacolo a porte chiuse” e
confermare le debole fede mostrando le piaghe gloriose (cfr Inno ai
Vespri di Pasqua).
2) Un gesto di
misericordia.
Come ci è detto nel
brano del Vangelo di oggi, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo
ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo
interpella: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la
mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma
credente”. Tommaso si inginocchia e fa una splendida professione di
fede: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il Risorto Gesù
mostra i segni della passione, fino a concedere all’incredulo
Tommaso di toccarli. La condiscendenza divina ci permette di imparare
anche da Tommaso incredulo e non solamente dai discepoli credenti.
Infatti, toccando le ferite del Signore, il discepolo esitante
guarisce non solo la propria, ma anche la nostra diffidenza.
In un primo tempo,
egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto:
“Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito
nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non
crederò”. Otto giorni dopo, Cristo risorto tornò nel cenacolo,
stette2
nel mezzo (Gv 20,19). Gesù sta in piedi, diritto (è la
posizione del Vivente, il cui corpo “giaceva” nel sepolcro) e si
rivolge alla comunità intera, infatti, dice: “Pace a voi”, nella
quale ora c’è anche Tommaso, al quale Gesù si rivolge
personalmente e –come ho citato poco sopra- gli dice: “Metti qui
il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio
fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Per farsi
riconoscere è il Risorto stesso che sceglie i segni della
crocifissione: il fianco e le mani trafitte. Gesù invita Tommaso a
realizzare il suo desiderio: vedere e toccare i buchi provocati dai
chiodi che avevano sostenuto Gesù in Croce, e la ferita che la
lancia aveva aperto nel costato del Redentore.
La Risurrezione non
abolisce la Croce: la trasfigura. Le tracce della crocifissione sono
ancora visibili, perché sono proprio loro a indicare l’identità
del Risorto e a indicare la strada che il discepolo deve percorrere
per raggiungerlo. Il Risorto porta per sempre le ferite, ora
gloriose, memoria perenne del suo amore immenso e misericordioso per
noi. San Tommaso poté mettere il dito nel buco dei chiodi e spingere
la mano nella ferita aperta dalla lancia, perché riteneva
giustamente che segni qualificanti dell’identità di Gesù fossero
soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela anche oggi fino a che
punto Dio ci ha amati e che il Risorto è il Crocifisso. Le ferite
di Cristo restano misteriosamente aperte anche dopo la risurrezione:
sono la porta sempre spalancata, attraverso la quale il Figlio di Dio
si apre a noi e noi entriamo in Lui. Come Tommaso, noi oggi siamo
chiamati a vedere e toccare il Corpo di Cristo, per entrare in
comunione con Lui.
3) L’Amore è
missione.
Il brano del Vangelo
di oggi non ci parla solo dell’incontro tra il Risorto e san
Tommaso, ma va oltre, affinché tutti possano ricevere il dono della
pace e della vita con il “Soffio creatore”. Infatti, per due
volte Gesù disse ai discepoli: “Pace a voi!”, e aggiunse: “Come
il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Detto questo, soffiò
su di loro, dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui
perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non
perdonerete, non saranno perdonati”. È questa la missione della
Chiesa perennemente assistita dallo Spirito Santo: portare a tutti il
lieto annuncio, la gioiosa realtà dell'Amore misericordioso di Dio.
L’amore è sempre
missionario, perché manda la persona fuori di sé. Non nel senso di
uscire di testa, cioè di impazzire, ma in quello di uscire dal
proprio egoismo per affermare l’altro, perché l’altro viva.
L’amore del Padre che ci offre il Figlio ci spinge verso i fratelli
( cfr 2 Cor 5, 14) perché anche loro scoprano questo amore
divino e lo accolgano. Allora Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor
15, 28).
Perché possiamo
compiere questa missione, Gesù ci dona il suo soffio di vita: la
vita di Dio diventa la nostra vita. E’ lo spirito nuovo, che ci
toglie il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne, capace di
vivere secondo la parola di Dio e di “abitare” la terra (cfr Ez
36, 24 ss). E’ quel soffio che Dio alitò su Adamo (cfr Gn 2,7) e
che il nuovo Adamo “spirò” dalla Croce, facendo scaturire dal
suo fianco sangue (segno dell’Eucaristia) e acqua (segno del
Battesimo). E’ lo Spirito del Figlio di Dio, che ci rende capaci di
vivere da fratelli e sorelle, vincendo il male con il bene. Per
questo la missione dei discepoli consiste nel perdonare i peccati. Il
perdono fraterno realizza sulla terra l’amore del Padre. In questo
modo la Chiesa, sacramento di salvezza per tutti, continua la
missione dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Con il dono del suo
Spirito, Gesù invia anche noi a continuare nel mondo la sua opera di
misericordia e riconciliazione. A questo ministero di misericordia
partecipano in modo molto significativo le Vergini consacrate nel
mondo.
Quando una cosa viene
consacrata, essa è sottratta ad ogni altro uso per essere adibita
solo a uso sacro. Così è di un oggetto, quando è destinato al
culto divino. Ma può esserlo anche di una persona, quando essa viene
chiamata da Dio a rendergli un culto perfetto. Essere consacrate a
Cristo, vuol dire lasciarsi condurre da Lui, fidarsi di Lui e portare
il suo amore misericordioso nella vita di ogni giorno. “Preghiamo
il Signore che moltiplichi sulle vergini consacrate la grazia,
affinché compiano le dovute opere di misericordia, e tutti coloro
che le vedono glorifichino il Padre della Misericordia che è nei
Cieli” (Santa Faustina Kowalska.). Come, fra l’altro, è
confermato nel Rituale delle Vergini Consacrate, il quale
afferma che il loro compito e di “attendere, ognuna secondo il
proprio stato e propri carismi, alle opere di penitenza e
misericordia3,
all’attività apostolica e alla preghiera” (Prenotanda, n.
2)
1
Il
fatto che il Vangelo di oggi parli di “discepoli”, non di
“apostoli” vuol dire che la cerchia è più ampia e comprende
anche noi.
2
Il verbo
greco che indica “stare”, in un suo composto significa
“risorgere” (an-istemi: stare su). Il morto giace, messo a
parte. Il Risorto sta diritto, nel mezzo della comunità dei
credenti.
3
La
Chiesa - servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza
bimillenaria - riassume l'atteggiamento positivo verso chi è in
difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle
corporali e quelle spirituali.
Le sette opere di
misericordia corporale sono:
1) Dar da mangiare
agli affamati,
2) Dar da bere
agli assetati,
3) Vestire gli ignudi,
4) Alloggiare i
pellegrini,
5) Visitare gli
infermi,
6) Visitare i
carcerati,
7) Seppellire i morti.
Le sette opere di
misericordia spirituale sono:
8) Consigliare i
dubbiosi,
9) Insegnare agli
ignoranti,
10) Ammonire i
peccatori,
11) Consolare gli
afflitti,
12) Perdonare le
offese,
13) Sopportare
pazientemente le persone moleste,
14) Pregare Dio per i
vivi e per i morti.
Ricorrendo al numero
sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero il valore
simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel numero, che
significa completezza, si vuol esprimere tutto ciò che riguarda
l’aiuto verso il prossimo.
Lettura Patristica
San Gregorio Magno
Omelia 26, 7-9
Tommaso, modello di
fede per noi
"Ma
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando
venne Gesù"
(Jn
20,24).
Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che
era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore
ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo
toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue
ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli
carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che
quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo
dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò
avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente
stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella
carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A
noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede
dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano,
ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio
si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo
dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel
dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa
testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del
Signore) era stato custode della perfettissima verginità.
[Tommaso]
toccò, ed esclamò: "Mio
Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso,
hai creduto"
(Jn
20,28-29).
Quando l’apostolo Paolo dice: "La
fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che
non si vedono"
(He
11,1),
parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si
possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma
conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò,
perché gli viene detto: "Perché
mi hai veduto, hai creduto?"
Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità
non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era
Dio, dicendo: "Mio
Signore e mio Dio"!
Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo,
ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.
Riempie
di gioia ciò che segue: "Beati
quelli che non hanno visto, e hanno creduto"
(Jn
20,29).
Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che
non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo
indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede.
Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al
contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo
afferma: "Dichiarano
di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti"
(Tt
1,16).
E Jc aggiunge: "La
fede senza le opere è morta"
(Jc
2,26).
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