venerdì 27 febbraio 2015

Gesù: icona di Dio e icona dell’uomo trasfigurato

II Domenica di Quaresima - Anno B – 1 marzo 2015.

Rito Romano
Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31-34; Mc 9,2-101.

Rito Ambrosiano – II Domenica di Quaresima – “della Samaritana”
Dt 5,1-2. 6-21; Sal 18; Ef 4,1-7; Gv 4, 5-422.

1) Quaranta giorni per trasfigurarci.
Può sembrare strano che la Liturgia di oggi, II Domenica di Quaresima, ci proponga il brano del Vangelo di San Marco, che racconta la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. Quindi è importante capire qual è il senso della Trasfigurazione nel contesto del tempo quaresimale.
Il senso di questa manifestazione di Gesù per Pietro, Giacomo e Giovanni non fu quello di dare spettacolo di sé, ma di imprimere nella mente e nel cuore dei discepoli un’immagine vera di se stesso, un’icona così gloriosa e potente al punto tale di poter mostrare che Gesù è Figlio unico e immensamente amato Dio e realizzatore del suo progetto di salvezza, anche e soprattutto nella povertà, nella sofferenza, nella passione e morte in Croce. Occorreva preparare un gruppo scelto di testimoni che resistessero validamente alle prove imminenti della sua passione ed allo scandalo della sua crocifissione e morte. Quindi la Trasfigurazione non fu uno spettacolo, ma un allenamento della fede in vista delle prove imminenti.
Il senso della Trasfigurazione di Gesù per noi è uguale a quello dei tre Apostoli. Per spiegare tale significato, prendo in prestito le parole di San Leone Magno: “(Il Signore) dava un fondamento solido alla speranza della santa Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e anche perché le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria che era brillata nel Capo. Di questa gloria lo stesso Signore, parlando della maestà della sua seconda venuta, aveva detto: Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro, e la stessa cosa affermava anche l'apostolo Paolo dicendo: Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. E in un altro passo: Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà il Cristo, vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.” (Disc. 51, 3-4. 8; PL 54, 310-311. 313).
Ma mi si potrebbe far presente che tutto ciò vale sempre. Perché dunque meditare e contemplare la Trasfigurazione nel tempo quaresimale?
Perché è proprio in Quaresima - che dovrebbe essere tempo di penitenza, per essere degni di capire e giungere alla pienezza della gioia, che è la Pasqua di Resurrezione - che occorrono le “certezze” che i sacrifici che facciamo, per la nostra conversione, non sono scelte inutili, ma portano alla gloria.
Inoltre, va tenuto presente che la Quaresima è il tempo in cui il Cristo vuole rivivere in noi il mistero della sua trasfigurazione3: trasfigurarci a sua immagine e somiglianza.

2) Salire sul monte per trasfiguraci.
All’inizio della vita pubblica di Gesù ci fu il battesimo; all’approssimarsi della Sua passione e risurrezione ci fu la trasfigurazione. Col battesimo di Gesù “fu manifestato il mistero della prima rigenerazione: il nostro Battesimo”; la trasfigurazione fu il sacramento della seconda rigenerazione: la nostra risurrezione” (San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, III, 45, 4, ad 2). Fin d’ora noi partecipiamo alla risurrezione del Signore mediante lo Spirito Santo che agisce nel sacramento del corpo di Cristo. La trasfigurazione ci offre un anticipo della venuta gloriosa di Cristo “il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,21). Ma ci ricorda anche che “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22): “Pietro non lo capiva ancora quando sul monte desiderava vivere con Cristo” (Lc 9,33). “Questa felicità Cristo te la riservava dopo la morte, o Pietro. Ora invece egli stesso ti dice: Discendi ad affaticarti sulla terra, a servire sulla terra, a essere disprezzato, a essere crocifisso sulla terra. È discesa la vita per essere uccisa; è disceso il pane per sentire la fame; è discesa la via, perché sentisse la stanchezza del cammino; è discesa la sorgente per aver sete; e tu rifiuti di soffrire? (Sant'Agostino, Sermo 78, 6: PL 38, 492-493).
Quale luogo dove incontrare Dio che discende dal cielo non è solo il deserto, che anche il monte, dove Dio si manifesta.
Credo che sia utile ricordare i monti della rivelazione dell'Antico Testamento:
il monte Oreb, dove Dio si rivelò a Elia non è nel vento che spacca la roccia, non nel fulmine, nella folgore, non nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente “un mormorio di vento leggero”; dove Mosè vide il cespuglio ardente che non si consumava, vide il fuoco di Dio e ascoltò la Sua voce.
Il monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l'idolatria (cfr 1 Re, 18),
Il monte Sinai, dove Dio incontrò Mosè e gli diede le tavole della legge,
Il monte MoriaSion, dove Abramo avrebbe dovuto sacrificare suo figlio Isacco e dove Dio Padre “fece” morire Suo Figlio quale Agnello immacolato. Dove Salomone fece costruire il Tempio4. Luogo dell'intreccio delle mani di Dio e dell'uomo attraverso il santuario.
Richiamiamo alla mente i vari monti della vita di Gesù:
il monte della Tentazione,
il monte delle Beatitudini (il Sinai cristiano),
il monte della Preghiera, luogo di dialogo,
il monte della Trasfigurazione, il Tabor,
il monte dell’Angoscia, il monte degli Ulivi,
il monte Calvario, il monte della croce e infine
il monte dell’Ascensione.
La Trasfigurazione avvenuta sul Tabor permette di accettare, capire e condividere quanto è avvenuto sul Calvario, che è, sì, il monte della morte ma anche il monte della vita. Il monte sul quale Gesù è stato crocifisso è il monte dell’umanità che uccide colui che è venuto a salvarla, è il luogo della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Ma il Calvario è anche il luogo nel quale il Vangelo di Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione di Cristo. Credo sia legittimo affermare che il Calvario è già anche il monte dell'ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell'esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell'infinito. A questo punto penso che possiamo capire come il Calvario riesca a riassumere questi due aspetti fondamentali: 1- sul monte c’è Dio che noi cerchiamo, 2 - però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
E, non dimentichiamolo, per ascendere ci vuole l’ascesi5, che non vuol dire in primo luogo “penitenza”, perché etimologicamente significa “esercizio”. Pensiamo per esempio all'atleta che riesce a battere record con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio (= ascesi) che alla fine diventa vittoria.
Questa è l’ascesi, che è senza dubbio fatica, esercizio impegnativo, ma alla fine fa arrivare alla meta desiderata e diventa anche esperienza di libertà.
Quindi approfittiamo del tempo di Quaresima per vivere questa ascesi come un “cammino” di conversione 
realizzato nella preghiera, nel digiuno e nella carità,
per progredire nell'amore di Dio e ai fratelli.
Questa conversione può essere chiamata anche trasfigurazione. Ciò che noi indichiamo come trasfigurazione è chiamato nel greco del Nuovo Testamento “metamorfosi” (“trasformazione”), e questo fa emergere un fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto lontano, che in prospettiva può accadere. Nel Cristo trasfigurato si rivela molto di più ciò che è la fede: trasformazione, che nell’uomo avviene nel corso di tutta la vita.
Dal punto di vista biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne che si conclude con la morte. Vivere significa morire, implica una metamorfosi verso la morte. La trasfigurazione del Signore vi aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere.
Dal punto di vista spirituale la fede è una metamorfosi, nella quale l’uomo matura nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo l’evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione, fondendo la trasfigurazione e la croce: nell’ultima liberazione da se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.
La trasfigurazione promessa dalla fede come metamorfosi dell’uomo è anzitutto cammino di purificazione, cammino di sofferenza, ma non solo. Il cammino che dopo la Trasfigurazione Gesù fa verso Gerusalemme, verso la croce, è un cammino di gloria. Se uno lo vede dall’esterno dice: è un cammino di sofferenza e di sconfitta, perché termina nella croce. La trasfigurazione invece dice che è un cammino di gloria, che passa dal Calvario ma si conclude sul monte dell’Ascensione.
È molto significativo il fatto che il racconto della trasfigurazione ci sia nel Vangelo di San Matteo, di San Marco e di San Luca, ma non in quello di San Giovanni. Mentre se c’è un episodio giovanneo è proprio quello della trasfigurazione. Perché San Giovanni non l’ha ricordato? Secondo me non la fatto per questa ragione: perché l’Apostolo prediletto racconta la vita di Gesù come esistenza di un trasfigurato. Per esempio se ripensiamo all’incontro con i primi discepoli vi si trova un Gesù glorioso (cfr. Gv 1, 34). Se contempliamo l’episodio delle nozze di Cana con il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, vi troviamo un Gesù glorioso: “videro la sua gloria” (cfr. Gv 2, 11). Andate a Gerusalemme per la purificazione del tempio e trovate ancora Gesù glorioso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedifico» (Gv 2, 19), evidentemente quello di cui parla è il suo corpo glorioso. Cioè la trasfigurazione è diventata in san Giovanni una chiave di interpretazione di tutto; non è più un episodio, un momento particolare che sta prima del viaggio verso Gerusalemme. Nel Vangelo di san Giovanni è diventato il criterio per capire tutti gli avvenimenti della vita di Gesù. Quindi, la trasfigurazione deve diventare una chiave di lettura della nostra vita come lo è per la vita di Cristo.
Forse è per questo che quando i monaci della tradizione orientale incominciano a scrivere le icone, dicono: la prima icona da scrivere (questo è il verbo usato per “fare” le icone) è la Trasfigurazione. Prima di dipingere l’icona debbono pregare e digiunare, quindi deve diventare un atto religioso. L’icona deve uscire dalla contemplazione. La prima icona che devono fare è la Trasfigurazione, cioè debbono fare vedere la gloria di Dio nei colori, nei disegni e nella scrittura dell’icona. Se riescono fare quello, possono fare qualunque altra icona, altrimenti rimane semplicemente un disegno esterno, cioè una riproduzione degli avvenimenti dal punto di vista esterno; ma l’icona non è questa. L’icona vuole trasfigurare il legno, i colori e la figura in modo che possa aiutare ed esprimere la contemplazione. Proprio per questo bisogna partire dalla trasfigurazione.
Concludo con due suggerimenti.
Il primo è quello di elevare a Dio la Preghiera prima di iniziare a scrivere un’icona, perché la nostra persona scriva nella sua vita quotidiana l’icona di Cristo: “Concedimi, Signore Gesù Cristo, una mente e un cuore puri come il cristallo e roventi come il tuo amore; preparami, Maestro, per una fruttuosa meditazione; allontana da me i pensieri inutili, i turbini della mente e le insidie del maligno, poiché Tu sei la Via, la Vita e la Verità. Ti prego, Signore, fa del mio intelletto uno splendido specchio di diamante, perché in esso si rifletta la luce perenne della Trinità Santa. E tu Sofia, e tu Vergine Madre, e voi Santi Apostoli, e voi Pietro e Paolo, assistete la mia trasmutazione, oggi, domani e sempre. Amen”.
Il secondo è di guardare l’esempio delle Vergine Consacrate nel mondo.
Queste donne hanno preso sul serio l’invito a vivere “La contemplazione della gloria del Signore Gesù nell'icona della Trasfigurazione che rivela a loro innanzitutto il Padre, creatore e datore di ogni bene, che attrae a sé (cfr Gv 6, 44) una sua creatura con uno speciale amore e in vista di una speciale missione. “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!” (Mt 17, 5). Assecondando quest’appello accompagnato da un’interiore attrazione, la persona chiamata si affida all'amore di Dio che la vuole al suo esclusivo servizio, e si consacra totalmente a Lui e al suo disegno di salvezza (cfr 1 Cor 7, 32-34). (S. Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, n. 17)
Qui sta il senso della vocazione alla vita consacrata: un'iniziativa tutta del Padre (cfr Gv 15, 16), che richiede da coloro che ha scelti la risposta di una dedizione totale, esclusiva e trasfigurante.

1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. (Mc 9, 2-10)

2 In quel tempo. Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».” (Gv 4, 5-34).

3 Il significato generale della Trasfigurazione è riassunto in un breve versetto, tratto dall’Esperinòs della liturgia bizantina: “In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò”. La semplicità di queste poche parole, come quelle del racconto evangelico, hanno una profondità straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una prefigurazione. Questi due elementi appaiono con altrettanta evidenza e forza anche a Pasqua. La Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo trasferisce l’esistenza umana nella dimensione gloriosa, mostrando ai tre apostoli vivi dinanzi ai due profeti defunti l’attualità illuminata del passato e dell’avvenire. La Trasfigurazione rivela così il senso intimo del cristianesimo: Il Dio-uomo mostra loro l’uomo divinizzato.

4 È molto bello il termine con cui viene definito nella Bibbia il Tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico 'ohel mo'ed, cioè "la tenda dell'incontro", naturalmente la tenda dell'incontro degli Ebrei tra di loro:  è, infatti, il luogo dell'assemblea, qahal in ebraico, l'assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell'incontro e dell'abbraccio dell'uomo con Dio.

5 Dal latino ascesis che deriva dal greco ἄσκησις derivazione di ἀσκέω cioè “esercitare”. La definizione che se ne dà è: “esercizio” o “pratica” spirituale e fisica, composta di preghiera, meditazione e varie attività anche fisiche per tendere alla perfezione interiore, per distacco dal mondo materiale per ascendere verso il Cielo. Il giudizio sulla realtà senza preconcetti alienanti, irragionevoli, richiede un «distacco da sé» (cfr. Lc 17,33), un lavoro faticoso che, nella tradizione religiosa, si chiama ascesi, e che può essere realizzato solo dalla persuasione dell’«amore a noi stessi come destino, come affezione al nostro destino, che è Dio.




Lettura Patristica
San Leone Magno, Papa
Sermo 38, 4-8

La Trasfigurazione, manifestazione del «Figlio diletto»

       Per gli apostoli, che invero avevano bisogno di essere rafforzati nella fede e di essere iniziati alla conoscenza di ogni cosa, da quel miracolo scaturisce un altro insegnamento. In effetti, Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, apparvero intrattenendosi con il Signore: ciò affinché si compisse perfettamente, attraverso la presenza di cinque persone, quanto è scritto: "Ogni parola è certa, se pronunciata in presenza di due o tre testimoni" (Dt 19,15 Mt 18,16). Per proclamarla, la duplice tromba dell’Antico e del Nuovo Testamento risuona in pieno accordo e tutto ciò che serviva a darle testimonianza nei tempi antichi si ricongiunge con l’insegnamento del Vangelo! Le pagine dell’una e dell’altra Alleanza, infatti, si confermano vicendevolmente, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo dei misteri, lo sfolgorio della sua gloria presente lo mostra manifesto e certo: si è che - come afferma san Giovanni -: "La legge fu data da Mosè, ma la grazia e la verità ci sono venute da Gesù Cristo" (Jn 1,17), nel quale si sono compiuti tanto le promesse delle figure profetiche, tanto il significato dei precetti della Legge; infatti, con la sua presenza, egli insegna la verità della profezia, e, con la sua grazia, rende possibile la pratica dei comandamenti.

       Animato dalla rivelazione dei misteri e preso dal disprezzo e dal disgusto delle terrene cose, l’apostolo Pietro era come rapito in estasi nel desiderio di quelle eterne, e, ripieno del gaudio di tutta quella visione, desiderava abitare con Gesù là dove la di lui gloria si era manifestata, costituendo la sua gioia. Ecco perché disse: "Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia" (Mt 17,4). Ma il Signore non rispose a tale suggerimento, certo non per mostrare che quel desiderio era cattivo, bensì per significare che era fuori posto, non potendo il mondo essere salvato senza la morte di Cristo; così, l’esempio del Signore invitava la fede dei credenti a capire che, senza alcun dubbio nei confronti della felicità promessa, dobbiamo nondimeno, in mezzo alle prove di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria; la felicità del Regno non può, infatti, precedere il tempo della sofferenza.

       Ed ecco che, mentre ancora parlava, una nube luminosa li avvolse e una voce dalla nube diceva: "Questi è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto, ascoltatelo" (Mt 17,5). Il Padre, senza alcun dubbio era presente nel Figlio e, in quella luce che il Signore aveva misuratamente mostrato ai discepoli, l’essenza di colui che genera non era separata dall’Unigenito generato, ma, per evidenziare la proprietà di ciascuna persona, la voce uscita dalla nube annunciò il Padre alle orecchie, così come lo splendore diffuso dal corpo rivelò il Figlio agli occhi. All’udire la voce, i discepoli caddero bocconi, molto spaventati, tremando non solo davanti alla maestà del Padre, ma anche davanti a quella del Figlio: per un moto di più profonda intelligenza, infatti, essi compresero che unica era la Divinità di entrambi, e poiché non vi era esitazione nella fede non vi fu discrezione nel timore. Quella divina testimonianza fu dunque ampia e molteplice e il potere delle parole fece capire più del suono della voce. Infatti, quando il Padre dice: "Questi è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo", non si doveva forse intendere chiaramente: "Questi è il mio Figlio", per il quale essere da me e essere con me è una realtà che sfugge al tempo? Infatti, né Colui che genera è anteriore al Generato, né il Generato è posteriore a Colui che lo genera. "Questi è il mio Figlio", che da me non separa la divinità, non divide la potenza, non distingue l’eternità. Questi è il mio Figlio, non adottivo, ma proprio; non creato d’altronde, ma da me generato; non di natura diversa e reso a me simile, ma della mia stessa essenza e nato uguale a me. "Questi è il mio Figlio per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla è stato fatto" (Jn 1,3), il quale, tutto ciò che io faccio egli del pari lo compie (Jn 5,19) e quanto io opero, egli opera con me senza differenza. Nel Padre infatti è il Figlio e nel Figlio il Padre (Jn 10,38), e la nostra unità mai si separa. E quantunque io che genero sia altro da colui che ho generato, non vi è tuttavia permesso avere a suo riguardo opinione diversa da quella che vi è possibile avere di me. "Questi è il mio Figlio", che non considerò bottino di rapina l’uguaglianza che ha con me (Ph 2,6), né se ne appropriò usurpandola; ma, pur restando nella condizione della sua gloria, egli, per portare a termine il disegno di restaurazione del genere umano, umiliò fino alla condizione di servo l’immutabile Divinità.

       Quegli, dunque, in cui ripongo tutta la mia compiacenza, e il cui insegnamento mi manifesta, la cui umiltà mi glorifica, ascoltatelo senza esitazione; egli, infatti, è verità e vita (Jn 14,6); egli è mia potenza e mia sapienza (1Co 1,24). "Ascoltatelo", lui che i misteri della Legge hanno annunciato, che la voce dei profeti ha cantato. "Ascoltatelo", lui che ha riscattato il mondo con il suo sangue, che ha incatenato il diavolo e gli ha rapito le spoglie (Mt 12,29), che ha lacerato il chirografo del debito (Col 2,14) e il patto della prevaricazione. "Ascoltatelo", lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi prepara la scalinata per salire al Regno. Perché avete paura di essere riscattati? Perché temete di essere sciolti dalle vostre catene? Avvenga pure ciò che, come anch’io lo voglio, Cristo vuole. Buttate via il timore carnale e armatevi della costanza che la fede ispira; è indegno di voi, infatti, temere nella Passione del Salvatore ciò che per suo aiuto, non temerete nella vostra morte.

       Queste cose, o carissimi, non furono dette soltanto per utilità di coloro che le intesero con le proprie orecchie; bensì, nella persona dei tre apostoli, è tutta la Chiesa che apprende ciò che essi videro con i loro occhi e percepirono con le loro orecchie. Si rafforzi dunque la fede di tutti secondo la predicazione del santo Vangelo, e nessuno arrossisca della croce di Cristo, per la quale il mondo è stato riscattato. Di conseguenza, nessuno abbia paura di soffrire per la giustizia (1P 3,14), né dubiti di ricevere la ricompensa promessa, poiché è attraverso la fatica che si accede al riposo, e alla vita attraverso la morte. Egli, infatti, si è presa in carico tutta la debolezza propria alla nostra bassezza; egli, nel quale, se rimaniamo (Jn 15,9) nella di lui confessione e nel suo amore, siamo vincitori di ciò che egli ha vinto e riceveremo ciò che egli ha promesso.

       Si tratti allora di praticare i comandamenti o si tratti di sopportare le avversità della vita, la voce del Padre che si è fatta udire deve sempre risuonare alle nostre orecchie: "Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo"; lui che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

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