Rito Romano
VI Domenica del Tempo
Ordinario - Anno B - 15 febbraio 2015.
Levitico 13,1-2.45-46;
Prima Corinzi 10,31-11.1; Marco 1,40-451
Rito Ambrosiano
Ultima Domenica dopo
l’Epifania – detta “del perdono”.
Is
54,5-10; Sal 129; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
1) La
vita è un miracolo e il Vangelo non è una fiaba.
Il brano del Vangelo
di oggi narra l’incontro tra Gesù e il lebbroso. Il Messia lascia
Cafarnao, dove aveva cominciato le prime guarigioni, e va nei
villaggi vicini, dove doveva portare il Vangelo. Nel deserto, che
avvolgeva questi piccoli paesi di Galilea, certamente non c’era la
sabbia, come nel Sahara, più che altro c’era una natura così
aspra che nessuno voleva viverci. Era zona di passaggio, una terra di
nessuno. Ma questo non voleva dire che non ci fosse nessuno, perché
l’uomo a volte abita proprio là, per scelta o colpa propria o
perché qualcuno ce l’ha mandato. E’ il caso del lebbroso. Chi
era colpito dalla lebbra, “la primogenita della morte” (Gb
18,13), doveva tenersi separato e non poteva avvicinarsi a nessuno,
perché la legge dell’Antico Testamento prescriveva: “Il lebbroso
starà solo, lontano, fuori dell’accampamento” (Lv 13,46)2.
Il lebbroso era abbandonato a se stesso, destinato ad una lenta
morte, infamato quanto era ritenuto un peccatore, che meritava quella
condanna di avere una malattia ributtante, inguaribile e infettiva.
Gesù, il Medico che è
venuto a guarire tutti i malati, tocca il lebbroso e lo guarisce. Le
nostre leggi possono solo riconoscere il male e
condannarlo. Gesù lo guarisce.
L’immondo,
il castigato, l’intoccabile diventa fonte di stupore e di Vangelo.
Ma perché Cristo tocca questo malato ripugnante? Perché, dato che
guarisce il malato con la sua volontà e con la sua parola, Gesù
aggiunge anche il tocco della sua mano? “Io ritengo che per nessun
altro motivo lo faccia, se non per mostrare che non c'è niente di
impuro per un uomo puro.”
(San Giovanni
Crisostomo).
Una
della più profonde spiegazioni di questo miracolo è l’esempio del
Poverello di Assisi. San Francesco
d'Assisi, che amò Cristo fino ad assomigliargli fisicamente con le
stimmate, i lebbrosi li ha baciati.
Certo,
non da subito.
Racconta
Tommaso da Celano: “All'inizio,
la sola vista dei lebbrosi gli era così
insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i
loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Solo nel tempo in cui
aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere
pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno
gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si
avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre
più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena
vittoria”. Visse così non perché costretto da un timore, ma
perché spinto dall’amore: era innamorato di Dio. Infatti lo fece
con il cuore: “Poco tempo dopo volle ripetere quel gesto: andò al
lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò
la mano e la bocca”.
Nel
suo testamento, San Francesco stesso scrisse:
“Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare
penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo
amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e
usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi
sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di
poi, stetti un poco e uscii dal mondo” (Fonti
Francescane, 110). Nei lebbrosi, che
Francesco incontrò quando era ancora “nei peccati – come egli
dice -, era presente Gesù. E quando Francesco si avvicinò a uno di
loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì
dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore
di Dio. Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione
profonda e la nostra risurrezione a vita nuova.
San Francesco
d’Assisi mostrò e mostra ancora che il Vangelo non è il racconto
di una fiaba per suscitare buoni sentimenti ed insegnare una morale,
ma la narrazione di una Presenza che fa miracoli. Il miracolo, per
Gesù, è la confluenza di due volontà buone; il contatto vivo tra
la volontà di bontà di chi agisce e la fede di chi è agito. La
collaborazione di due forze. Un combaciamento, una convergenza di due
certezze: una che domanda “Se vuoi, puoi guarirmi” e l’altra
che purificando guarisce non solo il corpo ma anche il cuore malato.
2)
Gesù ci purifica dalla nostra “lebbra”.
Non
ha nome né volto il lebbroso del Vangelo, perché così ognuno di
noi può identificarsi in lui. La sua voce esprime il nostro
desiderio di salute fisica e spirituale. In modo discreto supplica:
“Se vuoi, guariscimi”.
Il
lebbroso esprime questa supplica perché, più o meno
consapevolmente, si chiede: “Che cosa vuole Dio per me? Cosa vuole
da questa carne sfatta, da questo corpo piagato, da questi anni di
dolore (per chi soffre il tempo della malattia è sempre lungo). Gli
scribi di ogni epoca ripetono che il dolore è punizione per i
peccati o maestro di vita o incomprensibile volontà di Dio. La
domanda del lebbroso è “teologica”, perché a partire dalla sua
esperienza di sofferenza quest’uomo si rivolge al Figlio di
Dio-Amore. La fede del lebbroso non è teorica o astratta: nasce da
un cuore che palpita e che ha capito che Dio è il Dio della
compassione. Il dolore fa emergere l’amore da cui si è nati.
Facciamo
nostro questo appello del lebbroso: “Se vuoi, puoi mondarmi”. Non
la nostra purezza legale, ma la nostra miseria ci dà il diritto di
rivolgerci al Signore, invocandoLo e mettendoci in ginocchio, perché
riconosciamo la sua divinità ed il suo amore. Noi siamo bisogno di
Dio e del suo amore. L’importante è riconoscere il nostro male e
voler guarire.
E
Gesù, commosso3,
ci tocca. Per Gesù il lebbroso
(ciascuno di noi) non è un caso da risolvere, ma è una lama nella
carne. Per Lui il malato di lebbra non è un una domanda teorica a
cui rispondere, ma un fratello per il quale le sue viscere fremono,
come quelle di una madre per il figlio. Dio ha verso di noi questa
commozione materna, genera gesti, che fa quasi violenza alla mano, la
fa stendere, la fa toccare. Gesù tocca il lebbroso, sapendo che per
la legge mosaica toccare un lebbroso è diventare impuro . Per lui
l’uomo vale più di questa a legge. Con una carezza, che purifica,
il Redentore porta a pienezza la legge antica mediante la
nuova legge dell’amore e della libertà.
Eternamente Dio vuole
figli guariti. A ciascuno di noi, come al lebbroso, a Lazzaro, alla
figlia di Giairo, alla suocera di Simone ripete: lo voglio, alzati,
guarisci.
Dio è salute e
salvezza, è guarigione dal male di vivere. Non ne conosciamo i tempi
e i modi, ma sappiamo dalla fede che Lui rinnoverà il cuore, battito
su battito. Con la compassione, con una carezza della sua mano, con
la forza tenera della sua voce ci toglie sempre e per sempre
dall’abisso del dolore.
Un esempio attuale di
questa compassione sono le Vergini Consacrate nel mondo. In forza di
questa consacrazione esse sono chiamate ad essere testimoni della
compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Se da una parte
queste donne sono chiamate ad essere, mediante il dono totale di sé
stesse nella verginità a servire Dio nella preghiera, in particolare
quella liturgica, dall’altra esse sono chiamate al servizio della
carità nei confronti del prossimo, che consiste appunto nel fatto
che, in Dio e con Dio, amano anche la persona che non è gradita, che
la malattia rende ripugnante. “Totalmente
consacrate a Dio, sono totalmente consegnate ai fratelli, per portare
la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per
diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Le persone
consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono
lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono
profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e
vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente:
è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo
Popolo” (Papa Francesco).
1
“Venne
da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se
vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo
toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la
lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo
severamente, lo cacciò via subito e gli disse: ‘Guarda di non
dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e
offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come
testimonianza per loro’. Ma quello si allontanò e si mise a
proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più
entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi
deserti; e venivano a lui da ogni parte.” (Mc
1,40-45).
2
La prima
e la terza lettura di oggi ci pongono dinanzi a quello che è stato
per secoli un vero e proprio incubo, un terribile spettro che
suscita repulsione e orrore: la lebbra.
Il primo testo è
tratto dal libro del Levitico, in particolare da quella sezione
(capp.13-14) che tratta minuziosamente della lebbra: il cap.13 ne
descrive la tipologia includendo in maniera piuttosto larga forme
diverse (72 ne avrebbe elencato la Mishnah, raccolta di commenti
tradizionali della Legge del Vecchio Testamento) di malattie della
pelle, di cui molte guaribili; il cap. 14 presenta il rituale della
purificazione dei lebbrosi e delle case infette.
E' evidente il motivo
igienico che ispira un comportamento comunitario attento alle
malattie infettive. I sacerdoti erano i competenti ad esaminare
l'ammalato e a diagnosticarne il contagio dichiarandolo "immondo"
(cap.13, a.3); lo stesso sacerdote avrebbe poi, eventualmente,
certificato la guarigione (cap.14, vv.1-4). Nelle società antiche
le norme precauzionali erano effettivamente l'unica difesa possibile
verso malattie contagiose, soprattutto se inguaribili; di qui le
dure norme esposte nei vv. 45-46:
“Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà
vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà
gridando: - Immondo! Immondo! - Sarà immondo finché avrà la
piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori
dell'accampamento”.
3
Il
verbo greco, che è tradotto con “commosso” indica
l’essere preso allo stomaco, dice di una mano che ti stringe le
viscere: provò compassione.
Lettura Patristica
In Evang. Marc.,
2, 3-5
La guarigione del
paralitico e la salvezza dell’anima
"E
vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro
persone"
(Mc
2,3).
La
guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima,
la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio
carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere
sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che
le ispirino la speranza nella guarigione e intercedano per lei. A
buon diritto viene riferito che il paralitico era condotto da quattro
persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che
convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo, sia
perché sono quattro le virtù che infondono sicurezza allo spirito e
lo portano alla salvezza. Di tali virtù si parla quando si loda
l’eterna sapienza: "Temperanza
e prudenza ella insegna, e giustizia e fortezza, delle quali niente
c’è li più necessario per gli uomini nella vita"
(Sg
8,7).
Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù
prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
"E
non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono
il tetto nel punto dove egli stava"
(Mc
2,4).
Desiderano
presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla
che li preme da ogni parte. Accade ugualmente sovente all’anima,
dopo l’inerzia del torpore carnale, che volgendosi a Dio e
desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia celeste, sia
ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini. Spesso, quando
l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e
intrattiene quasi un soave colloquio con il Signore, sopraggiunge la
folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito
veda Cristo. Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo
certamente restar fuori e in basso dove tumultuano le folle; dobbiamo
salire sul tetto della casa nella quale Cristo insegna, cioè
dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della Sacra Scrittura e
meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del
Signore. «Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio
cammino? Nel custodire - dice il salmista - le tue parole» (Ps
118,9).
"E
praticata un’apertura, calarono giù il lettuccio sul quale giaceva
il paralitico"
(Mc
2,4).
Scoperchiato
il tetto, l’infermo è calato dinanzi a Gesù: infatti, svelati i
misteri delle Scritture, si giunge alla conoscenza di Cristo, cioè
si discende alla sua umiltà con la pietà della fede. Secondo il
racconto di un altro evangelista, non è senza un motivo che la casa
di Gesù appaia coperta da tegole, in quanto, se c’è chi squarcia
il velo della lettera che pure può apparire d’insignificante
valore, vi troverà la potenza divina della grazia spirituale.
Togliete le tegole alla casa di Gesù, significa scoprire nell’umiltà
della lettera il significato spirituale dei misteri celesti. Infine,
il fatto che l’infermo sia calato giù insieme con il lettuccio,
significa che dobbiamo conoscere Cristo mentre siamo ancora in questa
nostra carne.
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