19ª
Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 10 agosto 2014
Rito
Romano
1
Re 19,9a.11-13a; Sal 84; Rm 9,1-5; Mt 14,22-33
9ª
Domenica dopo Pentecoste
2Sam
12,1-13; Sal 31; 2Cor 4,5b-14; Mc 2,1-12
Premessa:
Il Vangelo è la
narrazione di fatti e parole di Gesù che non devono solamente essere
letti od ascoltati, ma vissuti.
1)
Preghiera di Gesù, da imitare.
Leggendo
il brano evangelico, che la liturgia ci propone oggi, la nostra
attenzione è attirata dalla potenza di Gesù, che cammina sulle
acque, e dalla Sua parola che calma la tempesta del lago.
Ma
credo che sia utile accennare anche a ciò che immediatamente precede
e segue questo miracolo, il quale mostra come Cristo sia il Signore
che domina anche la natura e non solo moltiplica i pani e i pesci1.
In effetti all’inizio di questo vangelo San Matteo parla della
preghiera solitaria di Gesù (“salì sul monte, solo, a pregare”
- Mt
14, 23) e, alla fine, ci racconta la professione di fede dei
discepoli “Davvero tu sei Figlio di
Dio!” – Id
14, 33).
Nel
ritmo intenso della sua giornata, Gesù ha sempre trovato il tempo
per la preghiera, o al mattino presto o alla sera tardi, dopo aver
congedato la folla come leggiamo in questo episodio del Vangelo. Non
è certo possibile per noi penetrare tutto il segreto di questa sua
preghiera solitaria. Ma possiamo almeno avvicinarci un poco, tenendo
presente che Gesù si rivolge a Dio invocandolo sempre con il nome di
Padre. La sua preghiera è anzitutto filiale. Ma proprio perché
filiale la preghiera di Gesù è obbediente. La sua è al tempo
stesso la preghiera del Figlio e del Servo del Signore. Già nel
termine Padre sono incluse ambedue le dimensioni: la familiarità e
l'obbedienza. Coscienza della propria filiazione e totale dipendenza
sono i due poli della preghiera di Gesù, e sono – ancor prima –
le strutture essenziali della sua persona. Non dovrebbe essere così
di ogni cristiano? Direi proprio di sì.
Gesù
non è solo il Figlio di Davide discendente messianico regale, o il
Servo di cui Dio si compiace, ma è anche il Figlio unigenito,
l’amato, simile a Isacco, che Dio Padre dona per la salvezza del
mondo. Nel momento in cui, attraverso la preghiera, Gesù vive in
profondità la propria figliolanza e l’esperienza della paternità
di Dio (cfr Lc 3,22b), discende lo Spirito Santo (cfr Lc
3,22a), che lo guida nella sua missione e che Egli effonderà dopo
essere stato innalzato sulla croce (cfr Gv 1,32-34; 7,37-39),
perché illumini l’opera della Chiesa..
Guardiamo
a Gesù ed alla sua preghiera, che attraversa tutta la sua vita (e
non solo l’episodio di oggi), come un canale segreto che irriga
l’esistenza, le relazioni, i gesti e che lo guida al dono totale di
sé, secondo il progetto di amore di Dio Padre per gli uomini.
Nella
nostra preghiera noi dobbiamo imparare ad entrare, sempre di più,
nella preghiera di Gesù e rinnovare davanti a Dio la nostra
decisione personale di aprirci alla sua volontà, chiedere a Lui la
forza di conformare la nostra volontà alla sua, in tutta la nostra
vita, in obbedienza al suo progetto di amore per noi.
2)
Un’invocazione da fare tutti i giorni.
Veniamo
alla parte centrale della narrazione evangelica di oggi: La barca
sballottata dal mare, la paura dei discepoli, le parole di Gesù e il
grido di paura di Pietro. Il primo degli Apostoli offre la sua paura
a Chi ama e grida “Signore, salvami”. L'importante è aver fede e
pregare come Pietro. Si noti il dialogo tra questo Apostolo e Gesù.
Pietro cammina sulle acque come Gesù, ma non per potenza propria. La
sua possibilità dipende unicamente dalla parola del Signore
(“vieni!”) e la forza sta tutta nella fede. È questa una grande
lezione per tutti. Aggrappato a questa fede, il discepolo può
ripetere gli stessi miracoli del Signore. Ma se questa fede si
incrina (“uomo di poca fede, perché hai dubitato?”), allora il
discepolo torna ad essere facile preda delle forze del male. Il
dubbio, di cui qui si parla, non è il dubbio intellettuale intorno
alle verità della fede, ma la mancanza di fiducia di fronte alle
difficoltà della vita, la mancanza di fede nell’Amore che ci ha
creati.
San
Pietro ha paura quando guarda solo a se stesso, alla forza del vento,
e non alla presenza amorosa di Gesù. Così la paura uccide il
coraggio e rende fragile l’incontro con il Signore.
Però
San Pietro ha saputo chiedere a Gesù di esercitare la sua autorità
a vantaggio del suo rapporto con Lui. La richiesta dell'Apostolo non
senza un qualche grado di temerarietà, esprime tuttavia una vera
fede nel Signore degli elementi e un sincero affetto nei suoi
confronti.
Senza
pensare al pericolo, acceso di fervore spirituale in presenza del
Salvatore Pietro esce dalla barca. Ma amando con poca costanza e con
minor sapienza si fa prendere dalla paura per le folate di vento
improvviso e così a Gesù gli tocca di prenderlo
per mano, come aveva fatto per la sua suocera malata.
È
la mano del Signore che lo salva.
Certe
volte si sopportano con animo forte prove pesanti per poi lasciarsi
vincere da sofferenze più leggere. A Pietro marinaio che fino a quel
momento aveva lottato con il mare, fa paura il vento.
Non
fu l’impeto delle onde agitata dal vento a cambiare, fu la
disposizione d’animo a cambiare. La paura, però, non crea l’amore.
Essa fa emergere l’amore che ci costituisce e a cui è ragionevole
gridare: “Signore, salvami”. A quest’uomo che urlava la
sua domanda di non morire, sùbito Gesù stese la sua mano, afferrò
quella di Pietro e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai
dubitato?”. Quella mano tesa, quel dolce rimprovero rinsaldano la
fede nei presenti più che il camminare di Gesù sulle acque. Lui
esaudisce sempre la domanda di fede e quando la fede si risveglia,
non c'è bisogno che il Signore dia ordini al vento: “Appena saliti
sulla barca, il vento cessò”. E “quelli
che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero
tu sei Figlio di Dio»” (Mt
14, 33).
3)
Gesù non tende solo la
mano.
La
risposta al grido di paura è un abbraccio di amore fraterno. Il
Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci
raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma tende la mano per
afferrare la nostra ed elimina la paura con un abbraccio. Gesù è lo
splendore di un abbraccio, che umanamente ha imparato da sua Madre,
Maria. Questa umile, grande donna che era “Vergine umile di cuore e
poneva tutta la sua speranza nella preghiera del povero” (cfr
Sant’Ambrogio, De virginibus II, 2).
Questa
creatura, per la sua pienezza di grazia, la pienezza di grazia di cui
era stata riempita dal primo istante della sua esistenza, viveva
come vergine, cioè come una persona cosciente di essere sempre amata
da Dio. La verginità è quella gratuità che l’essere amati da Dio
dona alla vita. Viveva come vergine. Dal cuore umile, perché era
stata sempre amata. Non si era data lei questo essere sempre amata.
Non ci si può dare l’essere amati, si può solo ricevere. Era di
cuore umile e poneva così tutta la sua speranza, tutta la speranza
della sua vita nella preghiera del povero, nel domandare che questo
amore fosse rinnovato in ogni istante, che questa pienezza di grazia
fosse rinnovata continuamente.
San
Tommaso d’Aquino dice che la carità, come attrattiva, per l’uomo
pur ferito dal peccato, è più potente, come intensità di
attrattiva e di diletto, che qualunque attrattiva naturale
(Summa theologiae II-II q. 23 a. 2). La carità è
imparagonabile, come attrattiva avvincente, rispetto all’attrattiva
naturale dell’uomo verso la donna.
La
verginità vissuta dalle persone consacrate nel mondo è un amore che
nasce dalla felicità di essere amate da Dio, non nasce da una
mancanza e non è un di meno rispetto all’amore coniugale. Anzi è
una pienezza.
Queste
Vergini consacrate mostrano con la vita ciò che Sant’Agostino
disse sulla bellezza di Gesù: “Per noi dunque che Lo riconosciamo,
il Verbo di Dio ci venga incontro in ogni occasione bello, bello
quale Dio, Verbo presso Dio (pulcher Deus, Verbum apud Deum),
bello nel ventre della Vergine (pulcher in utero Virginis),
dove non abbandonò la divinità e assunse l’umanità, bello
bambino appena nato; perché, anche mentre era bambino che succhiava
il latte e mentre veniva portato in braccio, di Lui i cieli hanno
parlato, Lui piccolo bambino gli angeli hanno lodato, a Lui una
stella ha condotto i magi, Lui è stato adorato nella mangiatoia,
cibo dei miti. Bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel
ventre di Maria, bello preso in braccio da Maria e da Giuseppe, bello
nei miracoli, bello anche nella flagellazione2,
bello quando invitava a seguirlo, bello quando non ha disdegnato la
morte, bello quando è spirato, bello quando è risorto, bello sulla
croce, bello anche nel sepolcro, bello nel cielo ((pulcher in
ligno, pulcher in sepulcro, pulcher in coelo)” (
Sant’Agostino, Enarrationes in psalmos, 44, 3).
A
questa bellezza le Vergini si sono consacrate lietamente come indica
anche la preghiera solenne di consacrazione: “Felici quelle che
consacrano la loro vita a Cristo e lo riconoscono come sorgente e
ragion d’essere della verginità. Hanno scelto di amare colui che
lo Sposo della Chiesa e il Figlio della Vergine Maria” (Rito di
consacrazione delle Vergini, n 24)
2
Sì, anche nella flagellazione perché – dice Sant’Agostino –
nella flagellazione, quando era tutto sfigurato, se consideri perché
era diventato così, perché si era lasciato battere dai flagelli
così, se consideri la misericordia per cui per te, per tuo amore si
era fatto ridurre così, è bello anche nei flagelli. Quando Maria
Lo ha preso in braccio sotto la croce morto, non c’era cosa più
bella di quel suo figlio sfigurato. Così quando il buon ladrone
Gli disse: “Gesù, ricordati di me quando sarai in paradiso” (Lc
23, 42), non aveva mai in tutta la vita incontrato una cosa così
bella come in quel momento, nel momento della morte, quando si è
sentito dire: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc
23, 43).
Lettura
Patristica
San
Giovanni Crisostomo,
In
Matth. 49, 3; 50, 1-2
1.
Perché Gesù si ritira sul monte
Egli è solito, d’altra
parte, quando compie grandi miracoli, congedare le turbe e anche i
discepoli, per insegnarci a non cercare in nessun modo la gloria
degli uomini e a non trascinarsi dietro la folla. La parola che usa
l’evangelista, «obbligò», indica il gran desiderio che i
discepoli avevano di stare in compagnia di Gesù. Gesù, dunque, li
manda via con il pretesto che egli deve congedare la moltitudine, ma
in realtà è perché egli vuole ritirarsi sul monte. Il Signore si
comporta così per darci un nuovo ammaestramento: non dobbiamo cioè
star continuamente in mezzo alla folla, né dobbiamo d’altra parte
fuggire sempre la moltitudine; dobbiamo, invece, fare entrambe le
cose con profitto, alternando l’una cosa e l’altra secondo la
necessità e l’opportunità.
Perché Gesù sale sul
monte? Per insegnarci che il deserto e la solitudine sono propizi
quando dobbiamo supplicare Dio. Per questo infatti egli si ritira
spesso in luoghi solitari e ivi passa le notti in preghiera,
inducendo così anche noi a cercare sia il tempo sia il luogo più
tranquillo per le nostre orazioni. La solitudine infatti è la madre
della quiete, è un porto tranquillo che ci mette al riparo da ogni
tumulto. Ecco perché Gesù sale sulla montagna. I suoi discepoli,
invece, sono nuovamente travolti dai flutti e devono sopportare una
tempesta violenta come la precedente. Allora, però, il Signore era
con loro nella barca, mentre qui essi sono soli e lontani dal
Maestro. Egli vuole infatti condurli soavemente e farli progredire a
poco a poco verso esperienze più grandi; in particolar modo desidera
che sopportino coraggiosamente tutto quanto accade loro. Quando
stavano per correre il primo pericolo, egli era presente anche se
dormiva, e poteva offrir loro un immediato conforto e un sostegno.
Ora, invece, per abituarli a una maggiore pazienza non resta con
loro, ma si apparta permettendo che si scateni una grande tempesta in
mezzo al mare, tanto che sembra non esservi da nessuna parte speranza
di salvezza. E li lascia per tutta la notte in balia delle onde,
desiderando, come io credo, risvegliare il loro cuore indurito.
Questo infatti era l’effetto del terrore, cui contribuiva, oltre la
tempesta, anche la notte con la sua oscurità. In realtà il Signore,
oltre a questo acuto e profondo spavento, vuole eccitare nei suoi
discepoli un più grande desiderio e un continuo ricordo di lui:
perciò non si presenta immediatamente a loro.
"Alla
quarta vigilia della notte egli se ne venne a loro, camminando sopra
il mare"
(Mt
14,25):
voleva abituarli a non cercar subito di essere liberati dalle
difficoltà, ma a sopportare gli avvenimenti con coraggio.
Ma quando sembra che
siano fuori pericolo, ecco che sono colti di nuovo dalla paura. "E
i discepoli, vedutolo camminare sopra il mare, si impaurirono,
pensando che fosse un fantasma; e dalla paura si misero a gridare"
(Mt
14,26).
Dio agisce sempre così: quando sta per liberarci da prove terribili,
ne fa sorgere altre più gravi e spaventose. E così accade anche in
questa occasione. Insieme alla tempesta, l’apparizione del Maestro
turba ancor di più i discepoli. Ma neppure ora Gesù dissipa
l’oscurità, né si rivela immediatamente perché vuol prepararli
con questa continua sequela di prove a sostenere altre lotte e
indurli a essere pazienti e costanti.
Così Dio si comportò
con Giobbe. Quando infatti si apprestava a liberarlo dalla prova,
permise che la fine delle sue sofferenze fosse più dura dell’inizio:
non dico per la morte dei figli o per le lamentele e le tentazioni
della moglie, ma a causa degli insulti rivoltigli dai suoi stessi
domestici e dagli amici. Quando Dio decise di trarre Giacobbe dalla
miseria sofferta in terra straniera, permise che egli si trovasse a
temere ancor più fortemente: il suocero infatti lo minacciava di
morte (Gn
31,1-23)
e, dopo di lui, il fratello che stava per accoglierlo in patria lo
mise in estremo pericolo (Gn
32,7-12).
Siccome i giusti non possono essere provati con violenza per lungo
tempo, quando stanno per terminare le loro battaglie, Dio, volendo
che essi ne ritraggano una più grande ricompensa, aggiunge altre
prove. Nello stesso modo agì con Abramo, ponendogli come ultima
prova il sacrificio del figlio (Gn
22,1).
Così le prove più intollerabili si fanno sopportabili: esse,
infatti, quando sono giunte al limite della sopportazione hanno
prossima la liberazione. In tal modo Cristo si comporta qui con gli
apostoli. Si rivela loro solo dopo che si sono messi a gridare. Così,
quanto più grande è stato il terrore che li ha assaliti, tanto più
gioiscono nel vederlo.
"Ma
Gesù subito rivolse loro la parola dicendo:
"«Fatevi
coraggio, sono io; non abbiate paura!»"
(Mt
14,27).
Queste parole dissipano del tutto il loro timore e ridanno loro
fiducia. Siccome essi, a causa di questa sua straordinaria maniera di
camminare sulle onde e per l’oscurità della notte, non lo possono
riconoscere con la vista, egli si fa riconoscere con la voce.
Ma che fa ora Pietro,
che è sempre ardente e va sempre avanti agli altri? Gli rispose
Pietro: "«Signore,
se sei tu, comandami di venire a te sopra le acque»
(Mt
14,28).
Non gli dice: prega, o supplica, ma «comandami». Vedete quale
fervore? E che fede! Certo, molte volte egli si espone al pericolo,
perché va oltre la misura e difatti anche qui chiede una cosa molto
grande: tuttavia lo fa solo per amore e non per un sentimento di
vanità. Ecco perché non dice semplicemente: comandami di camminare
sopra le acque, ma precisa «comandami di venire a te». Nessuno ha
infatti tanto amato Gesù quanto lui. La stessa cosa egli farà dopo
la risurrezione del Salvatore. Allora, non attenderà di andare con
gli altri al sepolcro, ma li precederà. In questa circostanza egli
dimostra non soltanto il suo amore, ma anche la sua fede. Pietro non
solo crede che Gesù può camminare sull’acqua, ma che egli può
farvi camminare anche gli altri: perciò desidera avvicinarsi subito
a lui.
"Ed
egli rispose: «Vieni». E Pietro, disceso dalla barca, si mise a
camminare sulle acque e giunse presso Gesù. Ma, vedendo il vento
gagliardo, ebbe paura. E cominciando ad affondare, gridò: «Signore,
salvami». E subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò e gli disse:
«Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»"
(Mt
14,29-31).
Questo miracolo è più
straordinario di quello della tempesta sedata e perciò il Signore lo
compie dopo di quello. Aveva mostrato, in quel primo miracolo, che
egli comandava al mare; qui compie un prodigio ben più sorprendente.
Allora s’era fatto obbedire dai venti; ora egli cammina sulle acque
e concede a un altro di fare la stessa cosa. Se al tempo del primo
miracolo avesse ordinato a Pietro di camminare sulle acque,
l’apostolo non si sarebbe dimostrato ugualmente pronto e deciso,
perché non possedeva ancora tanta fede.
Ma perché ora Gesù
acconsente alla richiesta di Pietro? Perché, se gli avesse risposto:
Non puoi, l’apostolo, essendo tanto ardente, avrebbe insistito.
Gesù quindi lo persuade per via di fatti, così che in avvenire sia
più moderato. Ma neppure in tal modo Pietro si conterrà. Buttatosi
dunque fuori della barca, incominciò ad essere sbattuto dai flutti,
poiché aveva avuto timore.
Gettatosi, dunque,
dalla barca, Pietro andava verso Gesù, felice non tanto di camminare
sopra le acque, quanto di andare verso di lui. Ma, dopo aver compiuto
quanto era più difficile, l’apostolo cominciò ad essere
sopraffatto da un pericolo minore, dall’impeto cioè del vento, non
dalla violenza del mare.
Così è la natura
dell’uomo: spesso, dopo aver trionfato delle più grandi prove,
cade nelle più piccole.
Quando ancora è scosso
dal terrore della tempesta, ha il coraggio di gettarsi in acqua,
mentre, subito dopo, non può resistere al gagliardo assalto del
vento, nonostante sia vicino a Gesù. Non giova a nulla infatti esser
vicini al Salvatore, se non gli siamo vicini con la fede.
Ma perché, in questo
caso, il Signore non comanda ai venti di smettere di soffiare e
stende invece la mano per afferrare e sostenere Pietro? Perché c’era
bisogno della sua fede. Quando noi cessiamo di fare la nostra parte,
anche Dio cessa di aiutarci. Per far capire quindi al suo apostolo
che non è l’impeto del vento, ma la scarsezza della sua fede a
farlo affondare, Gesù gli dice: «Uomo di poca fede, perché hai
dubitato?». Se la sua fede non si fosse indebolita, egli avrebbe
facilmente resistito anche al vento. E la prova sta nel fatto che il
Signore, anche dopo aver preso Pietro per mano, lascia che il vento
continui a soffiare con tutta la sua forza, per manifestare che esso
non potrebbe assolutamente nuocergli, qualora la sua fede fosse
salda. E come la madre sostiene con le sue ali e riporta nel nido
l’uccellino che uscito anzitempo sta per cadere a terra, così fa
anche Cristo con Pietro.
Quando sopravvenne la
calma dopo la prima tempesta, gli apostoli si chiesero: "E
chi è mai costui che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?"
(Mt
8,27).
Ma ora non si rivolgono più questa domanda. "Allora
quelli che erano nella barca gli si prostrarono davanti, dicendo:
«Veramente tu sei il Figlio di Dio!»"
(Mt
14,33)
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