III
Domenica di Quaresima – Anno C - 3 marzo 2013
Rito
Romano
Es
3,1-8a.13-15; Sal 102; 1 Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Rito
Ambrosiano
III
Domenica di Quaresima di Abramo
Dt
6,4a; 18,9-22; Sal 105; Rm 3,21-26; Gv 8,31-59
1)
Conversione: voltarsi verso Chi per primo ci ha amati.
“Convertitevi”,
ci chiede il Salvatore, il cui invito ci è fatto ascoltare in questa
Domenica, come frequentemente accade nella liturgia quaresimale.
“Convertici,
o Dio, nostra salvezza” ci fa pregare la medesima liturgia. La
conversione dunque è un invito da accogliere e un dono da domandare
al Salvatore.
Nel
Vangelo “romano” San Luca ci parla della necessità della
conversione, della sua urgenza, del giudizio di Dio che incombe. Ma
che significa convertirsi?
Il
verbo privilegiato dall’Antico Testamento per indicare la
conversione è shouv
che vuol dire: cambiare strada, tornare indietro. Sul piano
esistenziale o etico questo verbo ebraico connota un cambiamento di
orientamento, una modificazione del comportamento. Sempre nell’Antico
Testamento per indicare la conversione sono usati anche i verbi
ebraici biqqesh
e darash il
cui significato è “cercare Dio o il bene”.
Il
Nuovo Testamento usa «epistrefein»: voltarsi verso, per indicare
il mutamento esteriore e il mutamento nel comportamento, mentre si
serve di «metanoein» per indicare la mutazione interiore, il
cambiamento di mentalità. Il termine che Luca usa nel nostro testo è
«metanoia»: egli insiste dunque sul mutamento interiore, sul modo
nuovo e diverso di pensare, valutare le cose.
Il
breve passo di Luca (13,1-9) si divide in due parti: un appello alla
conversione (13,1-5) e la parabola del fico sterile (13,6-9). Le due
parti trovano il loro punto di incontro nel tema della conversione.
Il verbo «convertirsi» è ripetuto due volte nel brano.
L'avvertimento è dato in forma solenne (“Io
vi dico...”) e come
condizione indispensabile per sfuggire al giudizio di Dio (“Se
non vi convertirete, perirete tutti”).
L’odierno
Vangelo di Luca mostra che Gesù non è anzitutto interessato al
contenuto della conversione (quali cose cambiare): Lui preferisce
renderci consapevoli che il giudizio di Dio è incombente e generale.
Il
giudizio di Dio non conosce l’ingiustizia, va oltre la giustizia
(Divo Barsotti) e ad esso dobbiamo prepararci volgendo l’intelligenza
alla Verità, la volontà al Bene, testa e cuore a Gesù, Destino
nostro, in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita,
domandando che Dio ci trasformi, riconoscendo che dipendiamo da Dio,
dal suo amore creativo e misericordioso.
Una
misericordia per cui l'infecondità del fico sterile diviene per il
vignaiolo l'invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto
sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla
tentazione umana della durezza e dell'esclusione, la parabola oppone
la fatica raddoppiata della divina Carità.
Il
Signore, misericordioso e paziente, ci concede ancora del tempo per
portare frutto. Le parole di Cristo, il Vignaiolo, sono consolanti:
“Zapperò, metterò
concime, curerò... e vedrai che porterà frutti”.
L’albero della nostra vita può fiorire, se ci convertiamo a Cristo
che con il suo amore compie il miracolo. Seguiamo
quindi l’invito che già nell’Antico Testamento Dio rivolge al
suo popolo: “Ritornate
a me con tutto il cuore, con digiuno, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio,
perché egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di
benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura.”
(Gl 2, 12-13).
2)
La conversione di Abramo.
In
questo cammino verso Dio, la liturgia ambrosiana dopo averci proposto
“l’esempio” di Zaccheo e della Samaritana, oggi ci propone la
grande figura di Abramo, che ha convertito la sua vita in offerta
fino al punto di essere pronto a sacrificare il figlio Isacco.
Per
Abramo la promessa di Dio di dargli un popolo innumerevole fu più
certa del fatto del figlio Isacco, che lui non ricusò di sacrificare
all’Onnipotente che glielo chiedeva.
Il
totale abbandono a Dio è fonte di tranquillità e di serenità sia
nei confronti del passato che dell'avvenire. La conversione si
realizza con la rinuncia di sé e di quanto si ha di più caro, come
un figlio nel caso di Abramo, per occuparsi esclusivamente di Dio e
del suo disegno buono su di sé e sul mondo.
Se
a questo abbandono totale uniamo un’amorosa fiducia saremo sempre
più capaci di non aver cura di noi ma di lasciare che di noi abbia
cura il Signore. Allora il nostro cuore si dilata e siamo sollevati
dal peso di noi stessi, peso che ci opprime. Con stupore ci renderemo
conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.
Noi
pensiamo che per la conversione siano necessari sforzo e tensione
ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di
fatti. Secondo me per voltarci verso Cristo e seguirlo stabilmente
poche sono le cose da fare: è sufficiente, senza neppure troppo
ragionare sul passato o sul futuro, guardare a Lui sulla Croce con
fiducia, come ad un Fratello che ci conduce nella realtà presente,
come per mano. Se per una più o meno lunga distrazione lo dovessimo
perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Lui, e
comprenderemo quale sia la sua volontà buona per noi. Se facciamo
dei peccati, convertiamoci accostandoci al sacramento della Penitenza
e facciamo una penitenza che sia un dolore tutto d'amore.
3)
Dalla conversione alla consacrazione
La
confessione è chiamata “sacramento
della Penitenza poiché
consacra un cammino personale ed ecclesiale di conversione, di
pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore” (Catechismo
della Chiesa Cattolica, n. 1423). La prima conversione l’abbiamo
avuto con il battesimo, ma “la vita nuova ricevuta nell'iniziazione
cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura
umana” (1426), dunque la conversione è la legge che dura tutta la
vita, fino
al momento in cui l'uomo dà l'ultimo respiro: è stato così per San
Pietro come per San Paolo, per tutti i santi, a maggior ragione per
ciascuno di noi.
In
questo ci sono di testimonianza le Vergini consacrate che alla
domanda del Vescovo: “Volete
vivere solamente per Dio nel silenzio e nella solitudine, nella
preghiera assidua e nella penitenza gioiosa, nel lavoro nascosto e
nel servizio degli altri” hanno risposto: “Si, lo vogliamo”
(RCV, n. 55)
Queste
persone testimoniano che la consacrazione della vita a Dio significa
la verità dell'amore, del lavoro, della giustizia, della vita
stessa. La vita intera si trasfigura mediante l’offerta di sé a
Dio. La carità perfetta (nella quale consiste la perfezione di tutti
i Cristiani) vissuta verginalmente porta tutta la persona nel suo
Creatore e può essere definita: una totale consacrazione o
sacrificio che l’essere umano fa di sé a Dio, ad imitazione di
quanto fece il nostro Redentore Gesù Cristo.
Mediante
questa consacrazione le Vergini consacrate sono segno per tutti che
l’importante é non aver altro scopo ultimo in tutte le nostre
azioni che Dio, e di non far altra professione, né cercar altro
gusto sulla terra, eccetto quella di piacere a Dio e di servirlo:
cioè di essere giusti praticando la legge santa della carità.
Lettura
patristica
San
Bernardo di Chiaravalle
Sulla
conversione – Sermoni 34-39
Poiché,
non esiste (o almeno, io non l’ho trovata) la traduzione italiana
del testo citato di San Bernardo propongo un estratto di uno scritto
di P. Giovanni Lunardi.
"Ma per imboccare e vivere
la via dell’amore, è condizione indispensabile una unica cosa,
convertirsi, cioè abbandonare
la volontà propria, attraverso l’umiltà. Bernardo
lo scopre leggendo il Vangelo, là dove Gesù raccomanda ai
discepoli: “ In
verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come
bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” ( Mt 18,3).
E che altro significa
divenire bambini – si domanda Bernardo – se non “divenire
umili”? (Sulla quaresima II,1).
Convertirsi si riduce, quindi, ad apprendere la difficile arte
dell’umiltà!
E l’umiltà consiste
semplicemente nel formarsi una valutazione esatta di se stessi.
“L’umiltà è la
virtù per cui l’uomo si crede spregevole a motivo di una
esattissima conoscenza di se stesso – humilitas est virtus qua homo
verissima sui cognitione sibi ipsi vilescit” (Sull’umiltà,
2). E cioè: siamo grandi, perché “nessuna
creatura è più vicina a Dio di quella fatta ad immagine di Dio”
(De diversis, IX,2).
Ma anche siamo piccoli per la presenza del peccato personale- “ La
superbia è il desiderio della propria preminenza – Superbia
estappetitus propriae excellentiae” (epist.
42).
Conversione, perciò, significa
riprendere, riconquistare faticosamente ciò che è nativo nella
natura umana, cioè l’umiltà. L’uomo è per natura umile! La
superbia, invece, è un prodotto inventato dal diavolo, e esportato
nell’uomo. Bisogna,
in altre parole,
scandagliare le profondità del proprio cuore, ottenere con un lavoro
duro e assiduo, una valutazione esatta di se stessi. Infatti
l’orgoglio e la superbia, i grandi nemici dell’esistenza
cristiana, nascono proprio dall’ignoranza di se stessi. Più si
ignora se stessi e più si corre il pericolo di cadere nella
superbia.
Dall’umiltà nasce la carità
verso gli altri. La
nostra miseria davanti a Dio ci fa prendere il nostro giusto posto
anche davanti agli altri. Proprio attraverso l’esatta conoscenza di
noi stessi arriviamo alla conoscenza della debolezza altrui. Noi,
dice Bernardo, attraverso la nostra personale debolezza e fragilità,
riflettiamo quasi in uno specchio, quella del prossimo: Il cristiano,
"partendo dalla
propria miseria mediterà su quella di tutti gli altri” - “ex
propria miseria generalem perpendat “ (Sui
gradi dell’umiltà e
della superbia, 16).
Dio ci lascia nei nostri difetti, perché comprendiamo quelli degli
altri. Infatti noi e gli altri siamo fatti della stessa pasta. Di qui
una unica conclusione appare possibile: come io ho compassione delle
mie miserie personali e non mi condanno, così non potrò mai
assumere atteggiamenti severi nei confronti del fratello che pecca,
dovrò essere aperto ad un indefinito perdono. Tu sei un malato
grave- ricorda Bernardo- e non potrai non aver compassione del
fratello che è malato come te. Infatti “solo un
malato può comprendere e aver compassione di un altro malato “
– “ solus aeger
aegro compatitur” (Sull’umiltà, VI).
I cristiani “ partendo
dalle proprie sofferenze imparano a compatire quelle degli altri“(Sui
gradi dell’umiltà ,
18).
In questo contesto si
comprende la necessità della preghiera, come espressione di amore.
Per questo
bisognerebbe pregare sempre, pregare sempre a Dio: “ Tutto
il tempo in cui non pensi a Dio,devi considerarlo come tempo perduto”
– “ omne tempus in quo de Deo non cogitas, hoc te computes
perdidisse” ( PL
184, 497A).”Non bisogna
mettersi in preghiera una volta o due, ma frequentemente e
assiduamente, presentando a Dio i desideri del tuo cuore e, a tempo
opportuno, anche ad alta voce” – “Non enim semel vel bis ad
orationem est accedendum, sed frequenter et assidue, ad Deum
extendentes desideria cordis et in tempore opportuno aperientes vocem
oris” (Sermone
sull’avvento).
Qualità della preghiera:
1.- umile..
La preghiera è
incontro con il Signore mentre tu sei così piccolo. "“e sei
stato privato della grazia, stai pur certo che il motivo ne è stato
la tua superbia, anche se non lo si vede, anche se tu non te ne rendi
conto"”(Sul cantico 54, 10). 2.- Pura.
Si tratta di
cercare unicamente Dio per se stesso (Sul cantico, 40, 3). :
“Tu non preghi in maniera conveniente se nella stessa preghiera tu
cerchi qualcos’altro all’infuori del Cristo, o se nella preghiera
tu cerchi, sì, il Cristo, ma non lo cerchi per se stesso” (Sul
cantico 86, 3). 3.-
devota, cioè
fervorosa.”
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