IV
Domenica di Quaresima – Anno C - 10 marzo 2013
Rito
Romano
Gs
5,91.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
Rito
Ambrosiano
IV
Domenica di Quaresima del Cieco
Es
17,1-11; Sal 35; 1Ts 5,1-11; Gv 9,1-38b
1)
La pecora salvata, la dracma trovata, il figlio perdonato, sempre.
La
liturgia romana di oggi offre alla nostra meditazione la parabola del
figlio prodigo e del Padre misericordioso. Questa parabola, nel
capitolo 15 del Vangelo secondo Luca, è preceduta da altre due:
quella della pecorella smarrita e riportata all’ovile sulle spalle
del buon Pastore, e quella della dracma perduta e ritrovata (una
dracma era equivalente a un denaro che era allora stipendio di un
giornata di lavoro, come ce lo dice anche la parabola degli operai
dell’undicesima ora).
Lo
scopo di questi tre racconti è di fare in modo tale che prendiamo
coscienza che la salvezza ci viene dalla fraternità di Cristo che ci
porta sulle spalle, dalla maternità della Chiesa che ci cerca e
dalla paternità di Dio che ci accoglie sempre.
In
effetti, se assumiamo il Corpo di Cristo, sulle Sue spalle di buono e
fraterno Pastore, siamo riportati all’ovile della comunione. Se
accettiamo la sollecitudine materna della Chiesa, che cerca noi come
quella donna cercava la sua moneta perduta, diventiamo parte del
tesoro di casa. Se confidiamo nella riconciliazione che Dio ci riceve
come tenero padre, la Casa di Dio diventa la nostra dimora di figli.
(cfr Sant’Ambrogio da Milano, Commento
a San Luca,
XV).
L’importante
è lasciarsi trovare come la pecora e la dracma, e lasciarsi
perdonare come il figlio prodigo.
Per
fare questo occorre belare come la pecora smarrita, il cui lamento fu
udito dal pastore che la cercava e che la tolse dai rovi. Occorre
stare fermi, saldi nella pazienza perché la madre ci ritrovi.
Occorre avere fede nel perdono per tornare dal Padre, il cui pianto
si trasforma in gioia. In effetti che cosa è mai una pecora in
confronto d’un figlio tornato alla vita, d’un uomo salvato. E
cosa vale una dracma in confronto di un peccatore che ritrova la
santità.
La
rivelazione di Dio come Padre è una delle grandi novità della lieta
novella di Cristo. Dio è Padre e ci ama come un Padre ama i suoi
figli, e non come un Re ama i suoi sudditi, e dà a tutti i suoi
figli il pane quotidiano e accoglie nella gioia anche quelli che
peccarono, quando tornano ad appoggiare il capo sul suo petto di
Padre ricco di misericordia, Sovrano di tenera pietà.
2)
Misericordia: spiegazione etimologica, ma non solo.
La
parola “misericordia” è usata per tradurre il termine greco
“éleos”, che usiamo ancora oggi nella liturgia per domandare a
Dio di avere pietà di noi. Ma a sua volta questo termine greco è
usato per tradurre due termini ebraici hesed
e rahamin.
Il
primo,
hesed,
significa “la responsabilità del proprio amore":
responsabilità che deriva da un impegno preso, da una fedeltà a se
stressi e, quindi, all’altro con il quale ci si è liberamente
impegnati. Nel nostro caso, è la responsabilità che il Dio
dell’Alleanza ha del suo stesso amore offerto e pattuito.
Responsabilità che richiede l’umana risposta, ma va oltre la
possibile infedeltà dell’uomo. Hesed
è dunque dono, fedeltà e perdono.
Il
secondo termine, rahamim,
si riferisce direttamente alle viscere materne che si “commuovono
per il loro frutto”, per il figlio, che impediscono alla madre di
dimenticare. Il testo di Isaia 49, 15: “Si dimentica forse una
donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle
sue viscere? Anche se queste donne dimenticassero, Io invece non ti
dimenticherò mai” è il versetto biblico più conosciuto, in cui
un atteggiamento più che materno viene esplicitamente attribuito a
Dio. Più in generale,
rahamin
indica “il luogo tenero di un essere umano”. Esso significa
dunque “sentirsi o sapersi una cosa sola con un altri; descrive
soprattutto il senso di intima unione del padre e della madre con il
proprio figlio, dei fratelli, degli sposi tra di loro”. Secondo il
Bultman – a cui si deve quest’ultima definizione nel
Kittel - Grande Lessico del Nuovo Testamento -
- la traduzione migliore sarebbe semplicemente la parola “amore”.
Per
concludere queste digressione etimologica, il termine éleos
che San Luca usa nel suo Vangelo è tradotto con misericordia: questa
“misericordia” a sua volta rimanda sia alla grazia dell’Alleanza,
sia alla tenerezza della paternità (materna) di Dio (si veda Giovani
Paolo II, Enciclica Dives
in misericordia
che fa notare questa ricchezza terminologica, cfr n 5 e nota 64)
La
parola “misericordia” (dal latino misereor:
ho pietà, e cor,
cordis:
cuore, quindi significa avere
il cuore mosso a compassione dalla miseria altrui)
traduce adeguatamente il greco influenzato dalle due parole ebraiche,
perché mette in rilevo la tenerezza e la fedeltà perenne di Dio
verso il suo popolo, verso i suoi figli. Dio è fedele. San Paolo
osserva che anche se noi siamo infedeli, Dio rimane fedele, perché
non può negare se stesso (cfr. 2
Tm
2,13).
L'esperienza
della paternità nella famiglia si realizza come compagnia sicura coi
figli, come fedeltà discreta, sempre pronta a intervenire,
vigilante, nei loro confronti. Compagnia fedele, dunque, fino al
perdono, all'infinito, ciò che impariamo continuamente dalla
paternità smisurata di Dio con noi.
È quanto scrive Paul Claudel
ne “L'annuncio a Maria” in cui il vecchio padre Anna Vercors
rivolto alla figlia Violaine dice: «L'amore
del Padre non chiede compenso e il figlio non occorre che lo
conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così
resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, sua
giustificazione».
Quale
gioia avere un Padre della cui tenerezza e perdono noi siamo sicuri.
Preghiamo dunque per prendere coscienza di essere figli di un Padre
che non sa fare altro che amarci e perdonarci.
3)
La gioia del figlio perdonato e del cieco guarito
Il
figlio prodigo non tornò dal Padre perché era stanco di guardare i
porci e di mangiare le ghiande, aveva fame del pane della gioia, che
solo il Padre gli poteva donare. Tornò alla “verità di se stesso”
(cfr Dives in misericordia, n 6), perché capì la sua dignità umana
di figlio. Arrivato a casa sua il padre lo abbracciò e mettendo le
mani sulle sue spalle lo benedì, accogliendolo nella sua pace.
In
nessuna cosa l’anima di quel figlio errante aveva potuto quietarsi,
all’ombra di nessun albero il suo corpo poté gustare riposo vero,
e il cuore, che sempre è alla ricerca, e sempre è disilluso, in
nessun bene trova la sua pace, in nessun piacere la sua gioia, in
nessun conquista la sua felicità. Ma ricevendo la benedizione di
perdono dal Padre, questo giovane che aveva sperperato tutto torna a
casa e per lui il Padre organizza subito una pranzo offrendo il
vitello migliore e il pane della gioia
La
felicità viene dall’esperienza dell’essere amato e
dall’accettare questo amore divino che nessuno merita. Ma se il
peccato nostro non è un’obiezione a Dio per perdonarci, non lo
deve essere per noi per domandare umilmente la sua misericordia.
Un
perdono, che dà luce, aiuta a credere e a crescere nella fede come
accadde al cieco nato guarito da Cristo, di cui ci racconta il
vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana.
Immedesimiamoci
in questo cieco e cerchiamo di immaginare quale visione si aprì
davanti agli occhi suoi di cieco quando per la prima volta vide il
volto umano, la luce del sole e un mondo nuovo, mai immaginato;
eppure ne era circondato fin dalla nascita; ma era vissuto nel buio.
Se vogliamo capire meglio la gioia del cieco diventato vedente,
pensiamo all’esperienza dei bambini nei primi anni di vita: con
stupore indescrivibile guardano il mondo e ne scoprono sempre nuove
bellezze. Cerchiamo di non soffocare in noi questo stupore e saremo
capaci di vita. A questo riguardo San Giovanni Damasceno diceva: “I
concetti creano gli idoli, lo stupore genera la vita”
Una
vita da vivere con Dio che ci offre un’alleanza d’amore, un
legame d’amore che rende lieti. Si tratta di un amore che ha tutte
le caratteristiche di ogni amore, di amore filiale da parte
dell'uomo, di amore paterno da parte di Dio. E’ amore di amicizia
perché Gesù è un fratello nostro, Gesù si è fatto nostro
fratello È amore di sposo nei confronti di Dio che è lo sposo nei
confronti dell'anima che è la sposa.
Un
vita da vivere nella luce di Dio, fonte di gioia che è piena perché
la si sperimenta in qualcuno non in qualcosa. In qualcuno da cui ci
si sente voluti infinitamente bene. e che ci sentiamo di amare.
Le
Vergini Consacrate ci sono di esempio in questa risposta di amore che
realizzano in modo completo con l’offerta della loro vita e sono
icone di Cristo, lietamente.
Sono esempio di consacrazione lieta alla verità e all’amore.
La
donna consacrata all’ “Amore
perfetto” (cfr RCV
n. 55) che non lascia nessuno senza la sua luce, consacrata alla Vita
come radicale gioia di esistere, risponde al compito di essere
profezia vivente di quel ‘regno’ di carità a cui tutti siamo
chiamati.
Lettura
patristica
Sant’Ambrogio
Dal
Commento al Vangelo di Luca
"Un
uomo
aveva due figli e il più giovane gli disse: «Dammi la mia parte di
patrimonio"
(Lc
15,11-12).
Vedi che il patrimonio divino viene dato a coloro che lo chiedono. E
non credere che il padre sia in colpa perché ha dato il patrimonio
al più giovane: non si è mai troppo giovani per il Regno di Dio, e
la fede non sente il peso degli anni.
In
ogni caso colui che ha domandato il patrimonio si riteneva capace di
possederlo: Dio volesse che egli non si fosse mai allontanato dal
padre, e non avesse ignorato gli inconvenienti della sua età! Ma poi
se ne partì per un paese straniero - necessariamente dissipa il suo
patrimonio chi si allontana dalla Chiesa -; lasciando la casa e la
patria, "se
ne partì per un paese straniero, in una regione lontana"
(Lc
15,13).
Non
c'è luogo più remoto di quello in cui va chi va lontano da sé, e
si allontana non per lo spazio, ma per i costumi, si separa non per
la distanza ma per i desideri, e, come se mettesse in mezzo l'onda
dei piaceri mondani, con la sua condotta spezza ogni legame. Chiunque
infatti si separa da Cristo è un esule dalla sua patria, diventa
cittadino del mondo.
Noi
altri, invece, non siamo stranieri di passaggio, "siamo
concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio"
(Ef
2,19);
eravamo lontani, ma siamo stati fatti vicini nel sangue di Cristo
(cf. Ef
2,13).
Ma
non siamo maldisposti verso chi viene da una regione lontana, perché
anche noi siamo stati in una regione lontana, come insegna Isaia;
così leggi: "Per
coloro che sedevano nella regione dell`ombra della morte, per loro è
sorta la luce"
(Is
9,2).
La regione lontana è dunque quella dell`ombra della morte; ma noi
che abbiamo per spirito dinanzi al volto il Cristo Signore (cf. Lam
4,20),
viviamo nell'ombra di Cristo. Per questo la Chiesa dice: "Nella
sua ombra sedetti desiderosa"
(Ct
2,3).
Quello,
vivendo nella lussuria, ha sciupato ogni ornamento proprio della sua
natura: ebbene tu, che hai ricevuto l'immagine di Dio e che sei
simile a lui, guardati bene dal rovinarla con una irragionevole e
degenerata condotta. Tu sei opera di Dio...
"Venne
la carestia in quella regione"
(Lc
15,14):
carestia non di pane e cibo, ma di buone opere e di virtù. Esiste un
digiuno peggiore di questo?
In
verità chi si allontana dalla Parola di Dio è affamato, perché
"non
di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola di Dio"
(Lc
4,4).
Se ci si allontana dalla fonte siamo colti dalla sete, si diventa
poveri se ci si allontana dal tesoro, si diviene sciocchi se ci si
allontana dalla sapienza, si distrugge infine se stessi
allontanandosi dalla virtù.
È
quindi naturale che costui cominciò a sentirsi in gravi
ristrettezze, in quanto aveva abbandonato i tesori della sapienza e
della scienza di Dio e la profondità delle ricchezze celesti (cf.
Col 2,3). Egli cominciò a sentire la miseria e a soffrire la fame,
perché niente è abbastanza per la prodiga voluttà. Sempre patisce
la fame, chi non si sa nutrire degli alimenti eterni...
"E
bramava di riempirsi il ventre di carrube"
(Lc
15,16).
I lussuriosi non hanno infatti altro desiderio che di riempirsi il
ventre, perché "il
ventre è il loro dio"
(Fil
3,19).
E a simili uomini quale cibo è più adatto di questo che è, come le
carrube, vuoto di dentro, di fuori è molle, ed è fatto non per
alimentare, ma per gravare il corpo, e che è più pesante che
nutriente?...
"Ed
ecco, nessuno gliene dava"
(Lc
15,6);
si trovava infatti nella regione di colui che non ha nessuno, perché
non ha quelli che sono. Infatti tutte le nazioni sono stimate un
niente (cf. Is
40,17);
non c'è che Dio, "che
vivifica i morti, e chiama le cose che non sono come cose che sono"
(Rm
4,17).
"Allora,
tornato in sé, disse: «Quanti pani hanno in abbondanza i mercenari
di mio padre!»"
(Lc
15,17).
È
ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé. Chi
torna infatti al Signore torna in sé, mentre chi si allontana da
Cristo rinnega sé.
Ma
chi sono i mercenari? Non sono forse quelli che servono per il
salario, cioè quelli d'Israele? Che non perseguono il bene per amore
dell'onestà, che sono attirati non dalla bellezza della virtù ma
dal desiderio del guadagno? Ma il figlio che ha in cuore il pegno
dello Spirito Santo (cf. 2Cor
1,22)
non cerca il meschino profitto di un salario di questo mondo, perché
possiede il diritto all'eredità.
Vi
sono anche dei mercenari che sono impegnati nei lavori della vigna.
Buoni mercenari sono Pietro, Giovanni, Giacomo, ai quali è detto:
"Venite,
farò di voi pescatori di uomini"
(Mt
4,19).
Costoro
hanno in abbondanza non carrube, ma il pane: perciò poterono
riempire dodici ceste di avanzi.
O
Signore Gesù, se tu ci togliessi le carrube e ci donassi il pane, tu
che sei il dispensiere nella casa del Padre! Se tu ti degnassi anche
di accoglierci come mercenari, anche se veniamo sul tardi! Tu infatti
assumi mercenari anche all'undicesima ora, e ti compiaci di pagare
un'eguale mercede (cf. Mt
20,6-16),
eguale mercede di vita, non di gloria; non a tutti infatti è
«riservata la corona di giustizia», ma a colui che può dire:
"Ho
combattuto la buona battaglia"
(2Tm
4,7ss)...
Se
vi fosse restato anche quello, non si sarebbe mai allontanato da suo
padre. Ma stiamo tuttavia attenti a non ritardare la sua
riconciliazione, che il padre non gli ha ritardato. Egli si
riconcilia volentieri, quando è pregato intensamente.
Apprendiamo
con quali suppliche è necessario avvicinare il Padre. Padre, egli
dice. Quanta misericordia, quanta tenerezza, vi è in colui che, pur
essendo stato offeso, non sdegna di sentirsi chiamare padre! "Padre"
- dice -, "ho
peccato contro il cielo e dinanzi a te"
(Lc
15,18).
Ecco
la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura,
all'arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebbene egli
sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione,
infatti "è
con la bocca che si fa la confessione per la salvezza"
(Rm
10,10).
Solleva
il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica:
taglia corto all'animosità dell'accusa chi previene l'accusatore
confessando: infatti "il
giusto nell'esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso"
(Pr
18,17).
E
d'altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che
su nessuna cosa può trarre in inganno; non rischi niente, a
denunziare ciò che sai esser già noto.
Meglio
è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo
come avvocato presso il Padre (cf. 1Gv
2,1),
per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver
timore di ottenere. L'avvocato ti garantisce il perdono, il patrono
ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione
con l'amore paterno.
Credi
dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il
Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo
favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te. E anche il Padre
ha ben ragione di perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo
vuole anche il Padre.
Ti
viene incontro colui che ti ha sentito parlare nell'intimo della tua
anima; e mentre tu sei ancora lontano, egli ti vede e ti corre
incontro (cf. Lc
15,20).
Egli
vede nel tuo cuore, e corre a te perché niente sia di ritardo, ti
abbraccia, anche. Nel venirti incontro è chiara la sua prescienza;
nell'abbracciarti si manifesta la sua clemenza e il suo amore
paterno. Si getta al collo, per sollevare colui che giaceva in terra
carico di peccati, per sollevarlo verso il cielo in modo che possa
cercarvi il suo autore.
Cristo
si getta al tuo collo, per liberare la tua nuca dal giogo della
schiavitù, e mettervi il suo giogo soave (cf. Mt
11,30).
Non ti sembra che egli si sia gettato al collo di Giovanni, quando
Giovanni riposava sul suo petto, con la testa rovesciata
all'indietro?
Per
questo egli vide il Verbo presso Dio, perché si era innalzato verso
altezze sublimi. Il Signore si getta al collo, quando dice:
"Venite
a me, voi che siete affaticati, e io vi darò sollievo; prendete su
di voi il mio giogo"
(Mt
11,28-29).
È in questo modo che egli ti abbraccia, se tu ti converti.”
(Ambrogio,
In
Lc.,
7,213-230)
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