Rito
Romano
Is
50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
Rito
Ambrosiano
Is
52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12, 1b-3; Gv 11, 55 -12, 11
A
causa della pandemia del Covi-19, quest’anno la Liturgia della
Domenica delle Palme e della Settimana Settimana sarà celebrata
senza concorso di popolo. Il che non implica che le celebrazioni
liturgiche siano private. Sono e restano pubbliche.
Come
insegna il Concilio
Vaticano II la Liturgia ha
per sua natura un’ “indole
pubblica e sociale”.
Nella
Lettera Enciclica Misterium Salutis (3 settembre 1965), S.
Paolo VI ribadiva l’insegnamento che il
sacrificio di Cristo, che si rinnova
nella Messa, è universale, cioè
esso è per la salvezza del mondo intero.
E questo avviene anche quando la Messa è detta in forma cosiddetta
“privata” perché, se per qualche
motivo e in questi tristi giorni a causa del Coronavirus, non
può esservi un’assemblea in Chiesa,
anche in questo caso essa mantiene un significato pubblico e
contribuisce molto “anche alla salvezza del genere umano”.
In
questi giorni di pandemia, la Messa celebrata dal prete da solo non è
la “Messa del prete”. E durante la Settimana Santa non avremo
celebrazioni liturgiche del prete ma il “Servizio di Dio”
celebrato dal prete in comunione con i fedeli a lui affidati, membra
del “Mistico Corpo” che è la Chiesa. Solo non
si deve considerare il genitivo “di Dio”
unicamente come oggettivo (servizio che l’uomo rende a Dio),
bensì anche come soggettivo
(servizio di Dio all’uomo). Quindi non è
solo la comunità che
serve Dio, ma anche Dio serve gli uomini,
dona loro il “servizio della salvezza”
in Cristo. A questo riguardo, va
anche tenuto presente che nella Messa chi celebra è Cristo.
Una
liturgia così compresa fa parte delle manifestazioni essenziali
della vita della Chiesa. Insieme
con l’annuncio della fede (missione
che si fa testimonianza cioè martirio)
e con il servizio di carità
(diakonía) essa è una funzione
fondamentale della
Chiesa. Nella Sacrosantum
Concilium, il Concilio Vaticano II non esita
ad assegnarle il rango più alto parlando
del “culmine verso cui tende l’azione
della Chiesa» e della “fonte
da cui promana tutto il suo vigore “
(SC 10). “Nessun’altra azione della
chiesa» raggiunge la sua efficacia «allo stesso titolo e allo
stesso grado” (SC 7).
Se
si tiene presente che la Liturgia
nasce dal Mistero Pasquale
di Cristo e ne attualizza i frutti (santificazione degli uomini e
suprema glorificazione di Dio) allora veramente si può
affermare che essa (la Liturgia) è l’attività della Chiesa più
preziosa, più efficace e più necessaria.
1)
Rami di palma per fare memoria, non spettacolo.
La
liturgia di oggi avrebbe dovuto cominciare con la processione delle
palme che implica la partecipazione del popolo. Almeno in spirito
siamo tra le persone che portano questi rami di palma. Oggi come
circa duemila anni fa, i “partecipanti” non sono le comparse di
uno spettacolo folcloristico, ma sono i fedeli di Gesù che fanno
memoria di Lui, il quale non resta nel sepolcro dopo la sconfitta del
Venerdì santo ma esce vittorioso dal sepolcro il giorno di Pasqua.
Il trionfo di oggi è il preludio di quello di Pasqua, in cui
celebriamo il trionfo della misericordia. La croce non portò Cristo
alla morte, ma alla vita.
Iniziamo
questa Settimana Santa facendo memoria della grandezza dell'amore
appassionato di Dio per l'uomo, che per consegnarsi per amore nostro
ai suoi nemici decide di entrare in Gerusalemme, montando una
cavalcatura umile qual è l’asino. Per il suo trionfo Gesù prende
l’animale della semplice gente comune della campagna, e per di più
si tratta di un asino che non gli appartiene, ma che Egli chiede in
prestito per questa occasione. Non arriva in una lussuosa carrozza
regale, non a cavallo come i Re del mondo, ma su un asino preso in
prestito.
Oggi
quell’asino, che porta Gesù nel mondo, che lo rivela, che parla di
lui, siamo noi, come diceva il defunto Cardinale di Parigi Jean-Marie
Lustiger, e questa è una “bella” immagine perché ci ricorda che
Gesù non vuole essere portato da cavalcature imponenti, ma piccole e
umili.
Gesù
è un Re “povero” e, quindi, è un Re di pace, che ha scelto la
Croce come trono. E’ un Re coraggioso perché entra in Gerusalemme
sapendo che va incontro alla Crocifissione, per far maturare i suoi
frutti solamente al di là della Croce, passando attraverso essa per
entrare nella vita eterna: “Se il chicco di grano, caduto in
terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in
questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,
24-25).
La
croce che è simbolo di morte, la croce che è simbolo di
maledizione, che è l’espressione della peggiore delle condanne,
diviene con Cristo e per Cristo lo strumento di un’elevazione di
tutta l’umanità e di tutto quanto l’universo nella gloria di Dio
(cfr Sant’Ignazio d’Antiochia).
Questo
è il paradosso cristiano: chi orienta se stesso verso il Regno
eterno seguendo le indicazioni di Cristo Gesù, uomo mite,
misericordioso, pacificatore, puro di cuore, assetato della giustizia
di Dio, costui è in grado di cambiare la storia del mondo in modo
più profondo e più efficace dei detentori del potere, per i quali
niente è più importante del dominio.
Ne
consegue che la Croce è necessaria. Come cristiani noi non dobbiamo
solo indirizzare il nostro sguardo al Regno permanente, al di là
della morte, e predicarlo. Insieme con Cristo dobbiamo vivere la
necessità della Croce per noi, per completare, nel nostro corpo, per
la Chiesa e per il mondo ciò che ancora, in noi, manca alla Passione
di Cristo (cfr Col 1, 24).
Tutti quelli che soffrono: i malati, gli inguaribili, i migranti, i
prigionieri, i torturati, gli oppressi e quelli che sono poveri,
senza speranza, devono sapere che essi nella loro situazione non sono
condannati all’impotenza. Se uniscono la loro difficile speranza o
la dolorosa disperazione alla speranza del Figlio di Dio in Croce,
concorrono alla costruzione del vero Regno di Dio più attivamente di
molti “architetti” della felicità terrena. Certo, gli uomini e
ancor più i cristiani devono far di tutto per alleviare la
sofferenza fisica e spirituale dell’umanità, ma non devono
dimenticare le Beatitudini di Cristo, che in Croce Lui non smentisce
anzi le conferma: “Beati voi poveri,
perché vostro è
il regno di Dio.
Beati voi che ora avete fame,
perché sarete
saziati.
Beati voi che ora piangete,
perché riderete.
Beati
voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e
v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a
causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed
esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei
cieli.”(Lc 6, 20 – 24).
2)
Gesù è veramente il Figlio di Dio.
Il
Redentore dunque entra oggi in Gerusalemme, facendo festa per
rivelare sulla Croce la grandezza dell'amore di Dio per l'uomo. Una
festa che avrà il suo vertice il giorno di Pasqua. Giorno in cui
mostrerà in modo radioso il fatto che Lui è il Figlio di Dio, che
ci ama di amore infinito. Come nelle tentazioni del deserto (Lc
4,3.6) così sulla Croce a chi diceva: «Se sei Figlio di Dio»
(27,40.43.44) è in gioco la filiazione divina di Gesù. Una
filiazione negata e svelata, e che proprio nella ragione per cui è
negata mostra la sua novità. Tutti, anche coloro che lo negano,
riconoscono che Gesù ha preteso una filiazione che si è espressa
nella totale consegna alla volontà del Padre, non in concorrenza con
essa. Gli stessi sacerdoti ebrei dicono, citando il Salmo 22: “Ha
confidato in Dio” (Mt 27,43). Il verbo greco adoperato da Matteo
dice l’obbedienza fiduciosa, l’abbandono, l'atteggiamento di chi
pone la propria vita nelle mani di un altro Il tempo perfetto dice,
poi, la stabilità: Gesù ha sempre, in tutta la sua vita, posto la
propria fiducia in Dio Padre.
Porre
la propria vita nelle mani di un altro è la manifestazione più alta
della dipendenza. Così Gesù ha espresso la sua coscienza di essere
Figlio: non nella ricerca e nell'affermazione di una grandezza
concentrata su se stesso, rivendicata in concorrenza col Padre, ma in
una grandezza tutta sospesa all'ascolto del Padre, tutta rivolta al
Padre. La filiazione di Gesù rinvia al Padre.
Quei
sacerdoti dunque, senza volerlo, manifestano la profonda verità di
Gesù. E mostrano intuizione legando insieme la sua fiducia nel Padre
e la sua pretesa di essere Figlio (Mt 27,43). Sbagliano però il modo
di guardare la Croce.
Per
loro, come per noi, è il momento in cui il Padre deve rispondere
alla fiducia del Figlio, venendo in suo soccorso. Invece è il
momento in cui il Figlio mostra tutta la sua fiducia nel Padre. Il
Padre risponderà, ma dopo.
Gesù
muore sulla Croce assaporando sino in fondo l’abbandono. Ma appena
morto la prospettiva si rovescia. La luce scaturisce solo dopo che le
tenebre divennero più fitte (Mt 27,45).
Occorre
essere veramente santi perché la Croce non sia scandalo e assurdità.
Non
è facile accettare che Dio salvi l’umanità, si manifesti
Salvatore degli uomini proprio nel totale fallimento umano, proprio
nella suprema umiliazione, nell'abbandono dei discepoli,
nell'oltraggio da parte di coloro che Egli stesso aveva beneficato e
nello stesso abbandono del Padre.
Ci
vuole veramente una grande fede perché noi possiamo riconoscere il
Figlio di Dio in Colui che sopra la Croce grida: “Dio mio, Dio
mio perché mi hai abbandonato?”. Ci vuole una grande fede per
riconoscere che proprio quest’Uomo è Colui nel quale riposa ogni
nostra speranza: ogni speranza dell'uomo in uno che grida
all'abbandono di Dio.
Due
segni verso la fine del racconto della passione secondo San Mattero
testimoniano che la morte di Gesù è salvezza. Il primo è il velo
del tempio che si lacera (Mt 27,51), il secondo è il
riconoscimento della filiazione divina di Gesù da parte dei soldati
pagani (Mt 27,54).
Il
giudizio dei passanti e dei sacerdoti ebrei era, dunque, falso. La
lacerazione del velo del tempio è una risposta alla derisione dei
passanti: il tempio è davvero finito e una prospettiva nuova si
apre. E il riconoscimento dei soldati è una risposta alle derisioni
di quei sacerdoti.
Gesù
è davvero il Figlio di Dio - proprio perché è rimasto sulla Croce
anziché scendere - e mentre i giudei lo rifiutano, i pagani lo
riconoscono. Noi pagani convertiti e con il cuore puro possiamo
vedere ciò che gli altri non vedono.
E
un cuore puro è possibile non solamente quando sentiamo proclamare:
“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, e pensiamo
istintivamente alla virtù della purezza. Questo rimando è
innegabile: c’è una “purezza di cuore” che si esprime nella
castità dei pensieri, degli sguardi e dei gesti, nel modo di vivere
la nostra sessualità.
Ma
il riferimento più diretto della Beatitudine dei “puri di cuore”
non è all’impurità, ma all’ipocrisia che è fare della vita un
teatro in cui si recita; è indossare una maschera, cessare di essere
persona e diventare personaggio. Coltivare l’apparenza più che il
cuore, significa dare più importanza all’uomo che a Dio.
L’ipocrisia è dunque essenzialmente mancanza di fede; ma è anche
mancanza di carità verso il prossimo perché non riconosce all’altro
una dignità.
Secondo
il Vangelo quello che decide della purezza o meno di una azione è
l’intenzione: cioè se è fatta per essere visti dagli uomini o per
piacere a Dio (cf Mt 6,2-6). Il puro di cuore in ogni sua
parola, gesto e scelta lascia trasparire se stesso in modo del tutto
sincero, vero, autentico. Il puro di cuore è schietto, leale, retto,
non ambiguo, non inquinato. Si presenta, non si rappresenta! Non
prende a prestito la personalità a secondo delle circostanze. “È
puro un cuore che non finge e non si macchia con menzogna e
ipocrisia. Un cuore che rimane trasparente come acqua sorgiva, perché
non conosce ; un cuore il cui amore è vero e non è soltanto
passione di un momento” (Benedetto XVI). Come le Vergini
consacrate ce lo testimoniano ogni giorno nell’abbandono totale a
Cristo Sposo. Come lo afferma il Vescovo durante la preghiera di
consacrazione delle Vergini consacrate : « Signore, Dio
nostro, tu che vuoi dimorare nell’uomo prendi dimora in color che
ti sono consacrati, tu che ami i cuori liberi e puri »
(Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).
Lettura
Patristica
Sant’Agostino
di’Ippona
DALLE
“ESPOSIZIONI SUI SALMI” (En. in Ps. 61, 22)
Quanti
beni ci ha recati la passione di Cristo!
Sí,
fratelli, era necessario il sangue del giusto perché fosse cassata
la sentenza che condannava i peccatori. Era a noi necessario un
esempio di pazienza e di umiltà; era necessario il segno della croce
per sconfiggere il diavolo e i suoi angeli (cf. Col 2, 14.
15). La passione del Signore nostro era a noi necessaria; infatti,
attraverso la passione del Signore, è stato riscattato il mondo.
Quanti beni ci ha arrecati la passione del Signore! Eppure la
passione di questo giusto non si sarebbe compiuta se non ci fossero
stati gli iniqui che uccisero il Sìgnore. E allora? Forse che il
bene che a noi è derivato dalla passione del Signore lo si deve
attribuire agli empi che uccisero il Cristo? Assolutamente no. Essi
vollero uccidere, Dio lo permise. Essi sarebbero stati colpevoli
anche se ne avessero avuto solo l'intenzione; quanto a Dio, però,
egli non avrebbe permesso il delitto se non fosse stato giusto.
Che
male fu per il Cristo l'essere messo a morte? Malvagi furono certo
quelli che vollero compiere il male; ma niente di male capitò a
colui che essi tormentavano. Venne uccisa una carne mortale, ma con
la morte venne uccisa la morte, e a noi venne offerta una
testimonianza di pazienza e presentata una prova anticipata, come un
modello, della nostra resurrezione. Quanti e quali benefici
derivarono al giusto attraverso il male compiuto dall'ingiusto!
Questa è la grandezza di Dio: essere autore del bene che tu fai e
saper ricavare il bene anche dal tuo male. Non stupirti, dunque, se
Dio permette il male. Lo permette per un suo giudizio; lo permette
entro una certa misura, numero e peso. Presso di lui non c'è
ingiustizia. Quanto a te, vedi di appartenere soltanto a lui, riponi
in lui la tua speranza; sia lui il tuo soccorso, la tua salvezza; in
lui sia il tuo luogo sicuro, la torre della tua fortezza. Sia lui il
tuo rifugio, e vedrai che non permetterà che tu venga tentato oltre
le tue capacità (cf. 1 Cor 10, 13); anzi, con la tentazione
ti darà il mezzo per uscire vittorioso dalla prova. È infatti segno
della sua potenza il permettere che tu subisca la tentazione; come è
segno della sua misericordia il non consentire che ti sopravvengano
prove più grandi di quanto tu possa tollerare. Di Dio infatti è la
potenza, e tua, Signore, è la misericordia; tu renderai a ciascuno
secondo le sue opere.
IN
BREVE...
Si celebra la passione del Signore: è tempo di
gemere, tempo di piangere, tempo di confessare e di pregare. Ma chi
di noi è capace di versare lacrime secondo la grandezza di tanto
dolore? (En. in Ps. 21, 1)
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