venerdì 3 aprile 2020

Domenica della Palme

Rito Romano
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66

Rito Ambrosiano
Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12, 1b-3; Gv 11, 55 -12, 11

Premessa.
A causa della pandemia del Covi-19, quest’anno la Liturgia della Domenica delle Palme e della Settimana Settimana sarà celebrata senza concorso di popolo. Il che non implica che le celebrazioni liturgiche siano private. Sono e restano pubbliche. Come insegna il Concilio Vaticano II la Liturgia  ha per sua natura un’ indole pubblica e sociale.
Nella Lettera Enciclica Misterium Salutis (3 settembre 1965), S. Paolo VI ribadiva l’insegnamento che il sacrificio di Cristo, che si rinnova nella Messa, è universale, cioè esso è per la salvezza del mondo intero. E questo avviene anche quando la Messa è detta in forma cosiddetta “privata” perché, se per qualche motivo e in questi tristi giorni a causa del Coronavirus, non può esservi un’assemblea in Chiesa, anche in questo caso essa mantiene un significato pubblico e contribuisce molto “anche alla salvezza del genere umano”.
In questi giorni di pandemia, la Messa celebrata dal prete da solo non è la “Messa del prete”. E durante la Settimana Santa non avremo celebrazioni liturgiche del prete ma il “Servizio di Dio” celebrato dal prete in comunione con i fedeli a lui affidati, membra del “Mistico Corpo” che è la Chiesa. Solo non si deve considerare il genitivo di Dio unicamente come oggettivo (servizio che l’uomo rende a Dio), bensì anche come soggettivo (servizio di Dio all’uomo). Quindi non è solo la comunità che serve Dio, ma anche Dio serve gli uomini, dona loro il servizio della salvezza in Cristo. A questo riguardo, va anche tenuto presente che nella Messa chi celebra è Cristo.
Una liturgia così compresa fa parte delle manifestazioni essenziali della vita della Chiesa. Insieme con l’annuncio della fede (missione che si fa testimonianza cioè martirio) e con il servizio di carità (diakonía) essa è una funzione fondamentale della Chiesa. Nella Sacrosantum Concilium, il Concilio Vaticano II non esita ad assegnarle il rango più alto parlando del culmine verso cui tende l’azione della Chiesa» e della fonte da cui promana tutto il suo vigore (SC 10). Nessun’altra azione della chiesa» raggiunge la sua efficacia «allo stesso titolo e allo stesso grado (SC 7).
Se si tiene presente che la Liturgia nasce dal Mistero Pasquale di Cristo e ne attualizza i frutti (santificazione degli uomini e suprema glorificazione di Dio) allora veramente si può affermare che essa (la Liturgia) è l’attività della Chiesa più preziosa, più efficace e più necessaria.


1) Rami di palma per fare memoria, non spettacolo.
La liturgia di oggi avrebbe dovuto cominciare con la processione delle palme che implica la partecipazione del popolo. Almeno in spirito siamo tra le persone che portano questi rami di palma. Oggi come circa duemila anni fa, i “partecipanti” non sono le comparse di uno spettacolo folcloristico, ma sono i fedeli di Gesù che fanno memoria di Lui, il quale non resta nel sepolcro dopo la sconfitta del Venerdì santo ma esce vittorioso dal sepolcro il giorno di Pasqua. Il trionfo di oggi è il preludio di quello di Pasqua, in cui celebriamo il trionfo della misericordia. La croce non portò Cristo alla morte, ma alla vita.
Iniziamo questa Settimana Santa facendo memoria della grandezza dell'amore appassionato di Dio per l'uomo, che per consegnarsi per amore nostro ai suoi nemici decide di entrare in Gerusalemme, montando una cavalcatura umile qual è l’asino. Per il suo trionfo Gesù prende l’animale della semplice gente comune della campagna, e per di più si tratta di un asino che non gli appartiene, ma che Egli chiede in prestito per questa occasione. Non arriva in una lussuosa carrozza regale, non a cavallo come i Re del mondo, ma su un asino preso in prestito.
Oggi quell’asino, che porta Gesù nel mondo, che lo rivela, che parla di lui, siamo noi, come diceva il defunto Cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger, e questa è una “bella” immagine perché ci ricorda che Gesù non vuole essere portato da cavalcature imponenti, ma piccole e umili.
Gesù è un Re “povero” e, quindi, è un Re di pace, che ha scelto la Croce come trono. E’ un Re coraggioso perché entra in Gerusalemme sapendo che va incontro alla Crocifissione, per far maturare i suoi frutti solamente al di là della Croce, passando attraverso essa per entrare nella vita eterna: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 24-25).
La croce che è simbolo di morte, la croce che è simbolo di maledizione, che è l’espressione della peggiore delle condanne, diviene con Cristo e per Cristo lo strumento di un’elevazione di tutta l’umanità e di tutto quanto l’universo nella gloria di Dio (cfr Sant’Ignazio d’Antiochia).
Questo è il paradosso cristiano: chi orienta se stesso verso il Regno eterno seguendo le indicazioni di Cristo Gesù, uomo mite, misericordioso, pacificatore, puro di cuore, assetato della giustizia di Dio, costui è in grado di cambiare la storia del mondo in modo più profondo e più efficace dei detentori del potere, per i quali niente è più importante del dominio.
Ne consegue che la Croce è necessaria. Come cristiani noi non dobbiamo solo indirizzare il nostro sguardo al Regno permanente, al di là della morte, e predicarlo. Insieme con Cristo dobbiamo vivere la necessità della Croce per noi, per completare, nel nostro corpo, per la Chiesa e per il mondo ciò che ancora, in noi, manca alla Passione di Cristo (cfr Col 1, 24).
Tutti quelli che soffrono: i malati, gli inguaribili, i migranti, i prigionieri, i torturati, gli oppressi e quelli che sono poveri, senza speranza, devono sapere che essi nella loro situazione non sono condannati all’impotenza. Se uniscono la loro difficile speranza o la dolorosa disperazione alla speranza del Figlio di Dio in Croce, concorrono alla costruzione del vero Regno di Dio più attivamente di molti “architetti” della felicità terrena. Certo, gli uomini e ancor più i cristiani devono far di tutto per alleviare la sofferenza fisica e spirituale dell’umanità, ma non devono dimenticare le Beatitudini di Cristo, che in Croce Lui non smentisce anzi le conferma: “Beati voi poveri, 
perché vostro è il regno di Dio. 
Beati voi che ora avete fame, 
perché sarete saziati. 
Beati voi che ora piangete, 
perché riderete. 
Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli.”(Lc 6, 20 – 24).

2) Gesù è veramente il Figlio di Dio.
Il Redentore dunque entra oggi in Gerusalemme, facendo festa per rivelare sulla Croce la grandezza dell'amore di Dio per l'uomo. Una festa che avrà il suo vertice il giorno di Pasqua. Giorno in cui mostrerà in modo radioso il fatto che Lui è il Figlio di Dio, che ci ama di amore infinito. Come nelle tentazioni del deserto (Lc 4,3.6) così sulla Croce a chi diceva: «Se sei Figlio di Dio» (27,40.43.44) è in gioco la filiazione divina di Gesù. Una filiazione negata e svelata, e che proprio nella ragione per cui è negata mostra la sua novità. Tutti, anche coloro che lo negano, riconoscono che Gesù ha preteso una filiazione che si è espressa nella totale consegna alla volontà del Padre, non in concorrenza con essa. Gli stessi sacerdoti ebrei dicono, citando il Salmo 22: “Ha confidato in Dio” (Mt 27,43). Il verbo greco adoperato da Matteo dice l’obbedienza fiduciosa, l’abbandono, l'atteggiamento di chi pone la propria vita nelle mani di un altro Il tempo perfetto dice, poi, la stabilità: Gesù ha sempre, in tutta la sua vita, posto la propria fiducia in Dio Padre.
Porre la propria vita nelle mani di un altro è la manifestazione più alta della dipendenza. Così Gesù ha espresso la sua coscienza di essere Figlio: non nella ricerca e nell'affermazione di una grandezza concentrata su se stesso, rivendicata in concorrenza col Padre, ma in una grandezza tutta sospesa all'ascolto del Padre, tutta rivolta al Padre. La filiazione di Gesù rinvia al Padre.
Quei sacerdoti dunque, senza volerlo, manifestano la profonda verità di Gesù. E mostrano intuizione legando insieme la sua fiducia nel Padre e la sua pretesa di essere Figlio (Mt 27,43). Sbagliano però il modo di guardare la Croce.
Per loro, come per noi, è il momento in cui il Padre deve rispondere alla fiducia del Figlio, venendo in suo soccorso. Invece è il momento in cui il Figlio mostra tutta la sua fiducia nel Padre. Il Padre risponderà, ma dopo.
Gesù muore sulla Croce assaporando sino in fondo l’abbandono. Ma appena morto la prospettiva si rovescia. La luce scaturisce solo dopo che le tenebre divennero più fitte (Mt 27,45).
Occorre essere veramente santi perché la Croce non sia scandalo e assurdità.
Non è facile accettare che Dio salvi l’umanità, si manifesti Salvatore degli uomini proprio nel totale fallimento umano, proprio nella suprema umiliazione, nell'abbandono dei discepoli, nell'oltraggio da parte di coloro che Egli stesso aveva beneficato e nello stesso abbandono del Padre.
Ci vuole veramente una grande fede perché noi possiamo riconoscere il Figlio di Dio in Colui che sopra la Croce grida: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Ci vuole una grande fede per riconoscere che proprio quest’Uomo è Colui nel quale riposa ogni nostra speranza: ogni speranza dell'uomo in uno che grida all'abbandono di Dio.
Due segni verso la fine del racconto della passione secondo San Mattero testimoniano che la morte di Gesù è salvezza. Il primo è il velo del tempio che si lacera (Mt 27,51), il secondo è il riconoscimento della filiazione divina di Gesù da parte dei soldati pagani (Mt 27,54).
Il giudizio dei passanti e dei sacerdoti ebrei era, dunque, falso. La lacerazione del velo del tempio è una risposta alla derisione dei passanti: il tempio è davvero finito e una prospettiva nuova si apre. E il riconoscimento dei soldati è una risposta alle derisioni di quei sacerdoti.
Gesù è davvero il Figlio di Dio - proprio perché è rimasto sulla Croce anziché scendere - e mentre i giudei lo rifiutano, i pagani lo riconoscono. Noi pagani convertiti e con il cuore puro possiamo vedere ciò che gli altri non vedono.
E un cuore puro è possibile non solamente quando sentiamo proclamare: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, e pensiamo istintivamente alla virtù della purezza. Questo rimando è innegabile: c’è una “purezza di cuore” che si esprime nella castità dei pensieri, degli sguardi e dei gesti, nel modo di vivere la nostra sessualità.
Ma il riferimento più diretto della Beatitudine dei “puri di cuore” non è all’impurità, ma all’ipocrisia che è fare della vita un teatro in cui si recita; è indossare una maschera, cessare di essere persona e diventare personaggio. Coltivare l’apparenza più che il cuore, significa dare più importanza all’uomo che a Dio. L’ipocrisia è dunque essenzialmente mancanza di fede; ma è anche mancanza di carità verso il prossimo perché non riconosce all’altro una dignità.
Secondo il Vangelo quello che decide della purezza o meno di una azione è l’intenzione: cioè se è fatta per essere visti dagli uomini o per piacere a Dio (cf Mt 6,2-6). Il puro di cuore in ogni sua parola, gesto e scelta lascia trasparire se stesso in modo del tutto sincero, vero, autentico. Il puro di cuore è schietto, leale, retto, non ambiguo, non inquinato. Si presenta, non si rappresenta! Non prende a prestito la personalità a secondo delle circostanze. “È puro un cuore che non finge e non si macchia con menzogna e ipocrisia. Un cuore che rimane trasparente come acqua sorgiva, perché non conosce ; un cuore il cui amore è vero e non è soltanto passione di un momento” (Benedetto XVI). Come le Vergini consacrate ce lo testimoniano ogni giorno nell’abbandono totale a Cristo Sposo. Come lo afferma il Vescovo durante la preghiera di consacrazione delle Vergini consacrate : « Signore, Dio nostro, tu che vuoi dimorare nell’uomo prendi dimora in color che ti sono consacrati, tu che ami i cuori liberi e puri »  (Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).



Lettura Patristica
Sant’Agostino di’Ippona

DALLE “ESPOSIZIONI SUI SALMI” (En. in Ps. 61, 22)
Quanti beni ci ha recati la passione di Cristo!
Sí, fratelli, era necessario il sangue del giusto perché fosse cassata la sentenza che condannava i peccatori. Era a noi necessario un esempio di pazienza e di umiltà; era necessario il segno della croce per sconfiggere il diavolo e i suoi angeli (cf. Col 2, 14. 15). La passione del Signore nostro era a noi necessaria; infatti, attraverso la passione del Signore, è stato riscattato il mondo. Quanti beni ci ha arrecati la passione del Signore! Eppure la passione di questo giusto non si sarebbe compiuta se non ci fossero stati gli iniqui che uccisero il Sìgnore. E allora? Forse che il bene che a noi è derivato dalla passione del Signore lo si deve attribuire agli empi che uccisero il Cristo? Assolutamente no. Essi vollero uccidere, Dio lo permise. Essi sarebbero stati colpevoli anche se ne avessero avuto solo l'intenzione; quanto a Dio, però, egli non avrebbe permesso il delitto se non fosse stato giusto.
Che male fu per il Cristo l'essere messo a morte? Malvagi furono certo quelli che vollero compiere il male; ma niente di male capitò a colui che essi tormentavano. Venne uccisa una carne mortale, ma con la morte venne uccisa la morte, e a noi venne offerta una testimonianza di pazienza e presentata una prova anticipata, come un modello, della nostra resurrezione. Quanti e quali benefici derivarono al giusto attraverso il male compiuto dall'ingiusto! Questa è la grandezza di Dio: essere autore del bene che tu fai e saper ricavare il bene anche dal tuo male. Non stupirti, dunque, se Dio permette il male. Lo permette per un suo giudizio; lo permette entro una certa misura, numero e peso. Presso di lui non c'è ingiustizia. Quanto a te, vedi di appartenere soltanto a lui, riponi in lui la tua speranza; sia lui il tuo soccorso, la tua salvezza; in lui sia il tuo luogo sicuro, la torre della tua fortezza. Sia lui il tuo rifugio, e vedrai che non permetterà che tu venga tentato oltre le tue capacità (cf. 1 Cor 10, 13); anzi, con la tentazione ti darà il mezzo per uscire vittorioso dalla prova. È infatti segno della sua potenza il permettere che tu subisca la tentazione; come è segno della sua misericordia il non consentire che ti sopravvengano prove più grandi di quanto tu possa tollerare. Di Dio infatti è la potenza, e tua, Signore, è la misericordia; tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
IN BREVE...
Si celebra la passione del Signore: è tempo di gemere, tempo di piangere, tempo di confessare e di pregare. Ma chi di noi è capace di versare lacrime secondo la grandezza di tanto dolore? (En. in Ps. 21, 1)

Nessun commento:

Posta un commento