Rito
romano
XXX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2019
Sir
35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Rito
ambrosiano
I
Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At
13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20
-
Due tipi di preghiera.
Come
il fariseo e il pubblicano della parabola proposta dal Vangelo di
oggi, anche noi andiamo “nel tempio a pregare”. (cfr Lc 18,9-14).
Anche noi potremmo essere tentati, come il fariseo, di ricordare a
Dio i nostri meriti. Ma, per salire al Cielo, la preghiera deve
partire da un cuore umile, povero e pentito. E quindi anche noi
andiamo a Messa prima di tutto per rendere grazie a Dio, non per i
nostri meriti, ma per i doni che Dio ci ha fatti e costantemente ci
fa. Ci riconosciamo piccoli e bisognosi del suo amore misericordioso
che ci salva. Dunque, riconosciamo che tutto viene da Lui e che solo
con la sua Grazia si realizzerà quanto lo Spirito Santo ci dice.
Solo così potremo “tornare a casa” veramente arricchiti, resi
più giusti e più capaci di camminare sulle vie del Signore nella
vita di ogni giorno.
Ma
prima di spiegare il Vangelo di oggi, penso sia utile presentare
brevemente il suo contesto. Siamo nella seconda parte del cammino di
Gesù a Gerusalemme, dove Gesù continua ad istruire i suoi discepoli
sullo spirito del Figlio, che è spirito di accoglienza e di
misericordia. San Luca, al cap 13 quando i discepoli chiedono “chi
sarà salvato?”, racconta che Gesù risponde: “Sforzatevi per
entrare per la porta stretta”. La salvezza è una porta stretta,
talmente stretta che non entra nessun giusto, entrano invece tutti i
peccatori, perché la salvezza è l’amore gratuito di Dio e
l’amore gratuito ce l’ha non chi vuol meritarlo – il giusto –
ma chi l’accoglie come dono e come grazia, cioè il peccatore. E
allora nel capitolo 14 ridimensiona il cosiddetto “giusto”. In
questo capitolo del Vangelo di Luca leggiamo di un fariseo che invita
Gesù a pranzo e davanti c’è un idropico e l’idropico è
l’immagine del fariseo, cioè del giusto, il quale usa i doni di
Dio per gonfiarsi sempre di più di orgoglio e di morte. E allora
quell’idropico per il quale tutto ciò che mangia invece che
diventare energia e vita diventa principio di morte, è immagine del
giusto che usa il suo essere giusto per condannare gli altri.
Quindi
è colui che pensa di essere giusto che fa il vero peccato contro
Dio, considera Dio come cattivo e terribile e vende il suo amore
pretendendo di essere “pagato” con una ricompensa divina. Dio non
è cattivo, è ricco di misericordia e le parabole delle misericordia
(cap. 15) esprimono con chiarezza questa verità. Anche il capitolo
16 è su questo. Nei capitoli successivi, si parla della seconda
parte del cammino che comincia con la guarigione dei 10 lebbrosi che
sono inviati a Gerusalemme – cosa impossibile – e guariscono
durante il cammino. Cioè noi, ascoltando la Parola di Gesù così
come siamo - peccatori, lebbrosi, impossibilitati ad andare a
Gerusalemme - possiamo guarire se abbiamo fede nella Parola. Dunque,
se nella vita quotidiana, a casa e al lavoro, viviamo con criteri
nuovi insegnati da Cristo e non con il lievito dell’ipocrisia, del
protagonismo, della paura, viviamo già il Regno di Dio perché
viviamo con lo spirito del Figlio che sa farsi fratello degli altri.
In effetti, il Regno di Dio c’è dove ci sono persone che
desiderano il Signore e che lo amano e lo seguono. Quando noi amiamo
come lui il Padre e i fratelli, ecco che siamo nel Regno di Dio. E la
fede è questo: desiderare questa comunione nella preghiera col
Signore.
Insomma,
la parabola di oggi ci è ricordato che ci sono due modi per cercare
di essere in comunione con Dio. La parabola del pubblicano e del
fariseo ci descrive due tipi di preghiera, come ci sono due tipi di
uomini, che vivono in noi ed essa è una parabola molto provocante,
che è un po’ la sintesi di tutte le parabole che abbiamo visto
sulla misericordia e che ci istruisce su quale deve essere la nostra
preghiera per essere vera, cioè quale deve essere il nostro
rapporto con Dio e il nostro rapporto coi fratelli, perché la
preghiera serve per avere un rapporto nuovo con Dio. Se abbiamo un
nuovo rapporto con Dio che è Padre, abbiamo un nuovo rapporto coi
fratelli.
2)
La preghiera deve essere umile.
Oggi,
dunque, Cristo completa il suo insegnamento sulla preghiera,
sottolineando che la preghiera è vera e efficace, quando è umile.
Tuttavia, non dimentichiamo quanto la Liturgia della Parola di
Domenica scorsa ci ha insegnato affermando che, per essere vera, la
preghiera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante.
Nell’introduzione
al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La
preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla
preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal
102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc
18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili,
sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).
E
questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti,
si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente
nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina
alla quale si rivolge supplichevole”.
Per
pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e
avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a
chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la
vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia" (Sal
33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene
la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc
18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della
preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate
dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si
riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che
diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come”
viviamo il nostro rapporto con Dio.
Di
conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera
non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra
relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di
raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me,
perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei
-Antifona ambrosiana).
Esaminiamo
ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
Iniziamo
dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero
praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della
sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta
dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un
giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
Però
Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché?
Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere
accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro
della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non
attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono
gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il
dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa
l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante,
facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di
fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è
Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto
abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti
ringrazio» detto all'inizio non prega: non guarda a Dio, non si
confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si
concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli
duramente. In questo suo atteggiamento non c'è nulla della
preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Passiamo
ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al
tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l'opposto di
quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O
Dio, abbi pietà di me peccatore»1
(Lc
18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei
romani invasori e pagani, ed è esoso nell'esigere le tasse. E’
certamente un peccatore, ma è consapevole di essere
peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di
non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha
nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se
stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso
l’Alto, da cui attende la misericordia.
La
conclusione è chiara e semplice: l'unico modo corretto di mettersi
di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello
di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore.
Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come
pure non è il caso di fare confronti con gli altri.
3)
Il perdono ricrea.
Dunque,
il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu
perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si
merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una
porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo
peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con
il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come
quello di un bambino.
Come
Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio”
a noi quali peccatori sinceramente pentiti, e saremo resi “giusti”,
cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati,
restituiti alla vita di fede.
Il
fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace,
ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la
genericità non offende nessuno - ma proseguì “o anche come
questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il
suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e,
quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più
che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per
bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa.
Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e
insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia
voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli
innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente
sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa
condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia
sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata
per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori
al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
Imitiamo
Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” della sua
Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per
questo Dio l'ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
Le
Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale
quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne
hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate
da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime
vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di
questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che
l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù
che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês.
Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo
stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si
gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo»
- il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -;
l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella
condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato
l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria -
perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del
nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca,
VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse
vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se
secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede
tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il
Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del
Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo
prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle
che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita
felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini,
n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita
ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra
vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo
nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel
mondo intero.
1
Il
testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La
formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono
dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più,
perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente.
Inoltre lui sa che le parole a nulla servirebbero. Si rimette
semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui
scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole,
tutto perdona: tutti riconcilia
Lettura
spirituale
Card.
John-Henri Newman
Umiltà
di spirito e santità
estratto
dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind,
1856 SVO, 2, 15-29
Le
parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore
» (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota
caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue
dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra
nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una
confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti
di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal
cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza.
È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità
come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno,
comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della
nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo:
il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più
eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della
storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature
redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di
quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé
anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È
una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o
di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente
comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto
mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello
spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica
né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da
sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati
delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel
sangue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano
la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e
della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto
grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le
hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma
essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi
continuano a parlare solo delle proprie infedeltà. I giovani
senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha
peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi
volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica
supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa
profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei
servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto
a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo
riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta
sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo,
lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della
colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle
antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel
mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo
singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli
stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In
taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di
chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una
funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza
alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze
in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che
sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di
perfezione proprio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è
alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) - « Tutti hanno
peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23)
- « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma
secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) - insegna san
Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e
pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia
pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i
concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da
parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo
fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro
descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso
ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai
istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun
accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione
tra le qualità dell’uomo virtuoso.
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