Rito
romano
XXIX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 20 ottobre 2019
Es
17, 8-13a; Sal 120; 2 Tm 3, 14 - 4, 2; Lc 18, 1-8
Necessità
di pregare insistentemente, senza stancarsi.
Rito
ambrosiano
Dedicazione
del Duomo di Milano,
Is
60,11-21; Sal 117; Eb 15-17.20-21; Lc 6,43-48
Uno
abita dove è amato.
1)
Necessità della preghiera
In
questa domenica le letture della Messa ci propongono un insegnamento
fondamentale: la necessità di pregare sempre, senza stancarsi.
Ma
prima di cercare di capire come sia possibile pregare sempre e
instancabilmente, conviene rispondere a questa domanda: “Che cos’è
la preghiera?”
Pregare
ha la stessa radice di precario: vuol dire che possiamo avere
una cosa soltanto se la chiediamo e qualcuno ce la dà. In effetti
il nostro rapporto con Dio, come con le persone, è sempre precario.
Ogni relazione è precaria: ce l’abbiamo perché la desideriamo,
ma non possiamo pretenderla, e l’altro te la dà gratuitamente.
Dunque di per sé la preghiera è l’atto fondamentale di
relazione che c’è tra le persone; infatti la prima cosa che si
insegna al bambino è quella di chiedere e di dire grazie, sempre.
Per
questo Cristo di dice che “dobbiamo” pregare sempre. Troppo
spesso noi ci stanchiamo di pregare e abbiamo l'impressione che la
preghiera non sia tanto utile per la vita, che sia poco efficace.
Perciò siamo tentati di dedicarci all'attività, di impiegare tutti
i mezzi umani per raggiungere i nostri scopi, e non ricorriamo a Dio.
Gesù invece afferma che “bisogna pregare sempre”.
Ciò
che non è preghiera, ciò che non rientra nel rapporto di grazia,
nel rapporto di dono, è morto. Ogni cosa che non è ottenuta per
amore orante, che non è data per amore gratuito, è data per
egoismo.
La
preghiera costante fa della nostra vita un dono costante e ci
stabilisce in una relazione filiale costante con Dio, Creatore e
Padre. Inoltre, non dimentichiamo che la preghiera non ha come scopo
di informare Dio circa i nostri bisogni, che Lui conosce
infinitamente meglio di noi. Non si propone neppure di convincerLo ad
acconsentire alla soddisfazione delle nostre esigenze, ma piuttosto
di far coincidere la nostra volontà con la sua, perché il suo amore
abbia nel nostro una risposta sempre più perfetta.
La
preghiera è una consegna e un abbandono di se stessi a Dio Padre,
che ci libera e fa rinascere. La preghiera, che molti considerano
come una schiavitù, in verità è la consacrazione della nostra
libertà. Infatti essa, giustamente, significa che non siamo più
rinchiusi nel determinismo del mondo fisico e siamo liberati dalla
morsa impersonale di forze incoscienti, ma abbracciati da una
Presenza vivificante e sostenuti da una tenerezza infinita, con la
possibilità di trasformare incessantemente la nostre dipendenza in
un’offerta d’amore.
Insomma,
la preghiera è la nostra comunione con il Figlio e con il Padre,
che ci mette in comunione con il creato come dono e con gli altri
come fratelli: è la vita umana, pienamente realizzata. Per questo
bisogna pregare sempre. Senza però scoraggiarsi se Dio sembra sordo
ad ascoltare la nostra preghiera. Infatti non è importante ciò che
ci dà: importante è che noi stiamo con lui e abbiamo fiducia in
lui. Questo è il vero frutto della preghiera
2)
La preghiera deve essere insistente.
Nella
prima lettura e nel vangelo di oggi ci sono presentate due persone
che “usano” la preghiera1:
Mosè che fa vincere la battaglia agli ebrei e ottiene da Dio
giustizia contro i nemici, perché prega insistentemente tenendo le
mani alzate, e la vedova che con la sua insistente costanza ottiene
da un giudice ingiusto che le faccia giustizia.
Il
brano evangelico di oggi ci parla del Messia, il quale per dare un
insegnamento sulla preghiera si serve della figura di una donna
vedova, che per la mentalità del tempo è quasi un'emarginata. In
effetti, nella Bibbia si difendono “gli
orfani2
e le vedove3”,
perché sono le persone più deboli e vulnerabili, le più esposte ad
ogni prepotenza, ad ogni ingiustizia: le più indifese. Gesù
valorizza questa povertà e racconta di questa donna indifesa, che da
tempo soffre delle ingiustizie, ma non si scoraggia e affronta un
giudice
arrogante, uno di quelli che il grande profeta Isaia stigmatizzava
così: “Guai
a coloro che fanno decreti iniqui, e scrivono in fretta sentenze
oppressive, per negare la giustizia ai miseri, e per frodare il
diritto dei poveri, per far delle vedove la loro preda, e spogliare
gli orfani...”
(Is.10,1-2).
Con
stupefacente ostinazione la voce della vedova si leva contro
l’arroganza di questo magistrato: “Fammi giustizia contro il
mio avversario” (Lc 18,3).
Nelle
parole della donna c'è una straordinaria forza di un’“orante”
che vuole raggiungere lo scopo a tutti i costi; c'è un'insistenza
che sembra importuna, fastidiosa, ma è il segno di una speranza che
non muore: è la profonda certezza che, prima o poi, la sua supplica
verrà esaudita. E così accade, infatti il giudice iniquo dice:
“Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che
questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non
venga continuamente a importunarmi” (Lc 18, 5).
Se
un uomo ingiusto esaudisce una preghiera insistente, infinitamente di
più la preghiera instancabile e tenace sarà esaudita da Dio, il
Giudice giusto.
Dunque,
per la nostra preghiera, Gesù è interlocutore, amico, testimone e
maestro. Lui ci insegna a pregare, non solo con la preghiera
del ‘Padre nostro’, ma anche quando Lui stesso, oltre al
contenuto, ci mostra le disposizioni richieste per una vera
preghiera. Questi atteggiamenti sono: “La purezza del cuore, che
cerca il Regno e perdona i nemici; la fiducia audace e filiale, che
va al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo; la vigilanza, che
protegge il discepolo dalla tentazione” (Compendio del
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 544). Oggi il Cristo
aggiunge un’altra disposizione: l’insistenza, e chiede una
cosa apparentemente impossibile: quella di pregare sempre.
San
Tommaso d’Aquino insegna che per ottenere con certezza quello che
ciascuno domanda con la preghiera “si
richiede il concorso di queste quattro condizioni: 1- che preghi per
se stesso, 2- che chieda cose necessarie per salvarsi, e lo faccia 3-
con pietà e 4- con perseveranza”4.
3)
La preghiera deve essere fatta sempre.
In
effetti, l’insegnamento a pregare con perseverante insistenza è
abbastanza facile da capire ed da mettere in pratica, ma
l’affermazione all’inizio del vangelo di oggi “Bisogna
pregare sempre, senza stancarsi5
mai”(Lc
18,1), senza scoraggiarsi, non solo sembra difficile, pare
impraticabile. Poiché è Gesù stesso a dirlo, non osiamo dire che
ci è
impossibile mettere in pratica questa indicazione, perché la nostra
attenzione non riesce a concentrarsi a lungo in un'azione6
così alta come la preghiera.
C'è
un salmo che, più di altri, ci aiuta a capire sostanzialmente cosa
sia pregare sempre: è il salmo, in cui l'orante è presentato
come un bambino che “compie l’azione” di stare tra le braccia
della madre: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in
braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia. Speri
Israele nel Signore, ora e sempre” (Sal
130 (131), 2-3). Questo bambino è l'uomo di preghiera, cioè l'uomo
che spera sempre nel Signore, come un bambino spera sempre in suo
padre ed in sua madre.
E il paragone biblico del bambino è
perfetto perché la preghiera, pur essendo l'azione più alta e
sublime, è anche la più semplice; anzi, nel pensiero del Salmista,
essa è la più naturale, come è naturale che un bimbo ancora
piccolo, tra le braccia della madre, contempli sempre e per prima
cosa il volto di lei che lo rassicura, e avverta attorno a sé quelle
braccia, che lo accolgono, lo proteggono, gli danno fiducia e gli
trasmettono amore.
La
preghiera semplice e fiduciosa è la certezza che lo sguardo di Dio è
su di noi, come quello di nostra madre. Pregare è fare esperienza
dell'amore di Dio, che ci avvolge come le braccia di chi ci ha messi
al mondo, che ci tiene per mano e ci guida anche quando ci sembra di
essere soli.
Al
nostro gesto di preghiera Dio risponde con il suo amore. Lui ci
prende in braccio teneramente, quando cresciamo, ci prende per mano,
quando cadiamo ci risolleva e ci mette sulle sue spalle, quando
sembra che i flutti della vita ci sommergano, lui ci tende la mando e
ci salva dalla morte. Come ricorda oggi il Salmista: “Non
lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode,
perché non prende sonno il custode di Israele... Il Signore è il
tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra... Il
Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita...”
(Sal 120 (121) 3).
La
preghiera è come respiro della vita ed esprime la certezza
indubitabile che Dio è con noi, che Dio è per noi e noi siamo la
creatura a lui più cara. Quindi la preghiera va fatta sempre,
costantemente.
All’obiezione
che è impossibile pregare sempre, risponderei non con un discorso,
ma con il consiglio di non essere avari nel dare tempo a Dio. Più si
prega e più si rimarrà nella preghiera.
A
chi le chiedeva come imparare a pregare Madre Teresa rispondeva:
“Pregando”.
Per Padre Pio da Pietrelcina “pregare
sempre”
era diventato “Rosari
sempre”,
cioè Maria sempre nella sua vita. Don Luigi Giussani spiegava il
“pregare
sempre”
con l’affermazione “pregate
più che potete”.
Il Beato Stefan, maronita fratello laico, visse ripetendo a sé e
agli altri “Dio
ti vede”:
cioè si santificò, vivendo costantemente nella consapevole certezza
che Dio ha sempre il suo sguardo di amore su ciascuno essere umano.
Nella tradizione delle Chiese d’Oriente come preghiera incessante è
quella usata particolarmente nel movimento monastico esicasta7,
che è una preghiera strettamente legata alla preghiera del cuore, è
chiamata la preghiera di Gesù e consiste nel dire il più
frequentemente possibile “Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore”.
Questo modo di pregare usando la preghiera “Signore Gesù Cristo,
Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore” come giaculatoria così
frequente da farla coincidere con il respiro del corpo è
particolarmente pratico ed è, secondo la teologia spirituale
orientale, necessario e addirittura indispensabile per l’efficacia
della preghiera: esso è alla portata di tutti i cristiani che vivono
con pietà e cercano la salvezza, siano essi monaci o laici.
La
preghiera è un rapporto. Pregare vuol dire rivolgersi a qualcuno; è
vivere questo rapporto, un rapporto che diventa sempre più grande,
più intimo e più vero, così da trasformarci in Colui che
preghiamo, così da divenire una sola cosa col Cristo.
A
questo sono chiamate le Vergini consacrate come il Vescovo prega su
di loro durante la preghiera di consacrazione: “Che brucino di
carità e non amino niente al di fuori di Te … In Te possiedano
tutto perché è Te che loro preferiscono a tutto” (Rito
della consacrazione delle Vergini, n. 24). Queste donne sono
chiamate a dare testimonianza di fedeltà alla preghiera personale e
liturgica perché non ci si lasci prendere dall'attivismo vorticoso.
Con
l’esempio di una preghiera non saltuaria, ma costante, piena di
fiducia in Dio-Amore “che ci concede quello che ci fa chiedere”
(cfr Sant’Anselmo), le Vergini consacrate comunicano alle persone
che stanno loro vicine, a coloro che incontrano in parrocchia o sul
lavoro, la gioia dell’incontro costante con il Signore, luce per
l’esistenza del mondo intero.
Con
la fedeltà alla via della preghiera queste persone consacrate
aiutano anche gli altri a percorrerla: anche per la preghiera
cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini di verità e
amore infiniti, il cui vertice è il rapporto di comunione che si fa
preghiera.
1Si
veda la voce preghiera
nel Dizionario
critico di Teologia
(Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la
direzione di Jean-Yves Lacoste.
3Dal
latino viduus/a
che
propriamente vuol dire “privo”, quindi essere
vuoto, mancare di qualcosa o di qualcuno.
Anche il termine greco χῆρος, -α, -ον [chéros] vuol dire
“privo, vuoto, mancante” e quindi senza marito o moglie.
Pertanto “vedova” vorrebbe dire “è senza”, cioè manca
della sua parte. Ora siccome la sposa è tale se ha lo sposo, senza
sposo è ciò che è niente, la vedova è senza ciò che la farebbe
essere ciò che è: “sposa”.
4Summa
Theologica, IIa-IIae, q. 83, a 15 ad 2.
5Nel
testo greco c’è ἐγκακεῖν (egkakeìn),
vuol dire essere
completamente abbattuto, sfinito, esausto,
quindi me
egkakeìn
è tradotto senza
stancarsi
in italiano e senza
scoraggiarsi
in francese, ma si potrebbe tradurre letteralmente “senza perdersi
d’animo”.
6Ho
scritto azione e non discorso, perché la preghiera non è un puro e
semplice parlare, è un lavoro (cfr Divo Barsotti, Preghiera
lavoro del cristiano,
Milano 2005, pp . 144).
7Gli
esicasti praticano la cosiddetta preghiera
di Gesù
o preghiera
del cuore,
che consiste nella ripetizione incessante della questa formula, fino
a farla coincidere con il ritmo del respiro:
“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me
peccatore”.
A condizione che ci si metta al riparo dalle distrazioni e che si
custodisca la pace dell’anima, questa pratica permette di
avvicinarsi a Dio e di unirsi a Lui.
L’esicasmo
(dal greco
ἡσυχασμός hesychasmos,
da ἡσυχία hesychia,
calma,
pace, tranquillità, assenza di preoccupazione)
è una dottrina
e pratica ascetica
diffusa tra i monaci
dell'Oriente
cristiano
fin dai tempi dei Padri
del deserto
(IV secolo). Scopo dell'esicasmo è la ricerca della pace interiore,
in unione con Dio
e in armonia con il creato. Divulgata da Evagrio
Pontico
(IV
secolo)
e da altri maestri spirituali tra cui nel VI
secolo
spicca San
Giovanni Climaco
autore della Scala
del Paradiso,
la pratica dell'esicasmo è ancora viva sul Monte
Athos
e in altri monasteri ortodossi.
Sull'Athos essa ricevette un impulso decisivo dall'opera di Gregorio
Palamas
(morto nel 1359)
e nei secoli successivi dagli scritti di teologi e mistici raccolti
nella Filocalia.
Si
veda la voce esicasmo nel Dizionario critico di Teologia
(Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la
direzione di Jean-Yves Lacoste.
Lettura
Patristica
Sant’Agostino
d’Ippona (354 -430)
Preghiere
dalle Confessioni
Come
invocare Dio?
Tu
sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e
la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella
del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si
porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai
superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti.
Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai
fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te.
Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti
o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe
invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo
per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma
come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se
prima nessuno dà l'annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo
cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno.
Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti,
perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia
fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo,
mediante l'opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).
Perché
invocare Dio?
Ma
come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà
comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove
il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me
Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C'è davvero dentro di me,
Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono
forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato?
Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste,
avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch'io esisto
così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei,
se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei
anche là, e quando pure sarò disceso all'inferno, tu sei là.
Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in
me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te,
tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove
dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi
ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me
il mio Dio, che disse: "Cielo e terra io colmo?" (1, 2, 2).
Cosa
sei, Dio mio?
Cosa
sei dunque, Dio mio? Cos'altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi
è invero signore all'infuori del Signore, chi Dio all'infuori del
nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo,
misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo,
bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che
tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a
loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre
quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che
crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza
smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti
adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto
trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro,
esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha
qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li
condoni senza perdere nulla.
Che
ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi
parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché
sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)
Tu
sei la mia salvezza!
Chi
mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a
inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene
abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io
parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti
e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure,
quasi fosse una sventura lieve l'assenza stessa di amore per te? Oh,
dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di'
all'anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l'oda. Ecco, le
orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile
e di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce
io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per
non morire, per vederlo ( 1, 5, 5).
La
mia anima è la tua casa
Angusta
è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala
dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono
offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi
potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: "purificami,
Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo
le brutture degli altri"? Credo, perciò anche parlo. Signore,
tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e
tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te,
che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore
che la mia iniquità s'inganni. Quindi non disputo con te, perché,
se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà?
(1, 5, 6).
Signore,
che io ti ami fortissimamente
Ascolta,
Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la
tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua
commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu
mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che
io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la
tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco,
non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia
rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia
capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).
Grazie,
Signore, per i tuoi doni!
Eppure,
Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore
dell'universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto
soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo,
avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della
misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l'istinto
interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei
piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non
volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di
parola, mi intenerivo all'amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo,
l'ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole
e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me
stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi
lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni
di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato
era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso
e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando
nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza
mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu
però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi
hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò
con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).
O
mia gioia tardiva!
Assordato
dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita
la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove
mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo
tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi
allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli
sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e
insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).
Tu
sei sempre vicino
Tu,
Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una
mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La
tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo
lontani da te (2, 2, 3).
Signore,
che dài per maestro il dolore
Tu
eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle
più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi
alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l'avessi trovata,
non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore
e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di
te (2, 2, 4).
Ti
amerò, Signore!
Come
rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili
azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti
renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato
malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla
tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati;
attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso.
Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso?
Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà
commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi,
lo confesso (2, 7, 15).
Voglio
te
Voglio
te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di
un'insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita
imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore;
non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi
dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza
per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me
regione di miseria (2, 10, 18).
Dio
mio, sconfinata misericordia mia!
Pure,
la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In
quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai
per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi
nell'abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo
in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di
flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue
festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e
brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato
duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o
sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili
pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre
più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito
della mia libertà di evaso (3, 3, 5).
O
Verità, Verità!
O
Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore
sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in
vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi
pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece
di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma
pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime
creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste
corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime
creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a
trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece
mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non
sarebbe stato meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole,
vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che
attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo,
perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non
avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse
finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre
maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della
veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi
che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te,
quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei,
corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli
occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e
gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed
anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo
da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto
inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi.
Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i
corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo,
essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo
ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora,
fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono
le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i
corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l'anima,
che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più
alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle
vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell'anima
mia (3, 6, 10).
Cosa
sono io senza di te?
Cosa
sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio?
e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo
latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l'uomo,
qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi,
deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).
Ascolta
il mio pianto
Ed
ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia
ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla
tua bocca l'orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto
possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque
presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre
tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove?
Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non
rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che
dall'amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di
pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla
speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere,
perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche
nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora
mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il
ritorno dell'amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero
infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una
realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo
godute e ora aborrite? (4, 5, 10).
Dio,
speranza mia
Eccolo
il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i
miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall'impurità di
questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando
dal laccio i miei piedi (4, 6 ,11).
Dio
delle virtù, volgiti a me
Dio
delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo
salvi. L'animo dell'uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di
te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a
te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero
da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a
esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a
morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono... Ti lodi per quelle
cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse
invischiare dall'amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).
Ascolta,
anima mia...
Non
essere vana, anima mia, non assordare l'orecchio del cuore nel
tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti
grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove
l'amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui
invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire
l'universo inferiore nella sua interezza. "Ma io, dice il Verbo
divino, mi dileguo forse da qualche parte?". Fissa dunque in lui
la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente
stanca d'inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità,
e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue
debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate,
fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro
abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio
eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).
Amiamolo,
amiamolo!
Se
ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro
artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se
ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch'esse,
ma in lui si Fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e
perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre
anime puoi e di' loro: "Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore
di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo
averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov'è? Dove si
assapora la verità? E' nell'intimo del cuore, ma il cuore errò
lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi
a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi;
riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni?
Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende
a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché
ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale
vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie
aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò
che cercate, ma non è 11, dove voi cercate. Voi cercate una vita
felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una
vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).
Fino
a quando questo peso nel cuore?
Discese
nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la
nostra morte e l'uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci
gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a
noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come
sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere
definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo,
uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai
attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita,
con la discesa e l'ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si
dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo.
Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con
noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era
mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo
mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia
anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro
di lui. "Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel
cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a
vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca
nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché
cadeste nell'ascendere contro Dio". Di' loro queste parole,
anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così
rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t'ispira queste
parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).
O
dolce verità!
Pure
tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore
nell'atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio
desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi
preso dalla gioia alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo
poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso
del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti
gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano
state ancora umiliate (4, 15, 27).
Tu,
ci proteggi e ci sorreggi
O
Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu
proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora
canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è
fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre
accanto a te, e nell'avversione a te è la nostra perversione.
Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il
nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo
lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui
siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra
assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).
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