Rito
Romano – IV Domenica di Quaresima - Anno B – 11 marzo 2018
2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
Rito
Ambrosiano
Es
33, 7-11a; Sal 35; 1Ts 4,1b-12; Gv 9,1-38b
Domenica
del cieco - IV di Quaresima
1)
Contemplare Cristo in Croce.
Il
cammino quaresimale è come l’esodo degli ebrei, che per
quarant’anni pellegrinarono nel deserto. In quel lungo periodo loro
furono fortificati dalla prova e vissero un tempo particolare di
purificazione e di grazia. Inoltre sperimentarono il dono della
benevolenza del Signore che, camminando davanti a loro - come colonna
di fumo, di giorno, e di fuoco, di notte - li condusse alla Terra
promessa.
Gli
Israeliti furono pellegrini nel deserto, perché credevano
completamente nel Signore che li conduceva verso la libertà. A un
certo punto questa fede piena venne meno e protestarono contro Yahvé.
Dio li punì con il morso di serpenti velenosi che sbucavano da ogni
parte della sabbia. Però, nella sua misericordia Dio si commosse per
le loro lacrime di pentimento e soprattutto ascoltò la preghiera
piena di fiducia che Mosè Gli rivolse in favore dei connazionali.
Allora ordinò di fare un serpente di bronzo e di collocarlo su un
bastone in un posto elevato del deserto, perché fosse ben visibile,
in modo tale che tutti quelli. che lo guardavano fossero resi immuni
dal veleno dei serpenti veri, che imperversavano da tutte le parti
nel deserto. Ciò facendo gli Israeliti venivano salvati dalla morte
per avvelenamento.
In
questa domenica il serpente di bronzo, a cui fa cenno il Vangelo, ci
invita a riflettere sul Cristo Salvatore Crocifisso destinato a
diventare Risorto.
Come
fu ordinato a Mosè di innalzare il serpente di bronzo nel deserto
per salvare il popolo ebreo, e questo è diventato strumento di
salvezza per quanti venivano feriti dai morsi dei serpenti materiali,
così oggi è ordinato a noi di guardare a Cristo innalzato
sul legno della Croce. Guardando al Crocifisso, i Cristiani sono
salvati dal veleno del serpente spirituale.
Nella
conversazione con Nicodemo, di cui il brano evangelico di oggi ne è
una parte, Gesù svela il senso più profondo della sua morte e
risurrezione: il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno
della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. Dunque, se ci si
vuole salvare dai morsi velenosi del male, dobbiamo guardare a Cristo
che dalla Croce sparge amore.
Il
guardare Cristo crocifisso
con occhi purificati dal dolore permette di vedere l’amore
di Dio per noi e di credere all’amore.
Il
guardare Cristo crocifisso e seguirlo, prendendo ogni giorno la
nostra croce, ci fa diventare persone che amano come Dio ha amato.
Guardiamo
alla Croce per farla entrare non solo nei nostri occhi, ma nel nostro
cuore e nella nostra vita. Guardiamo alla Croce per diventare
testimoni di Cristo crocifisso. Quando la guardiamo, ovunque essa sia
esposta, essa ci ricorda la possibilità di salvezza per la vita. La
croce è li per dirci che se crediamo nel Vangelo, in quello che Gesù
ha fatto e detto, allora la nostra vita è salva e diventa guaritrice
per tutti coloro che ci sono vicini.
2)
La gioia della Croce
Sulla
croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama e il contemplare
questo amore, un amore così grande porta nei nostri cuori una
speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può
essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita
per lui. Ma la Croce non è
solamente da guardare con sguardo di adorazione, è anche da
abbracciare.
Ma
perché è così importante abbracciare la Croce e perché ciò è
fonte di gioia? Risponderò a questo domande con un episodio della
vita di Madre Teresa di Calcutta. Una
giorno questa santa andò da una malata e le disse che doveva essere
lieta perché era così sofferente da essere vicina a Cristo. La
donna le rispose che allora desiderava allontanarsi da Cristo, perché
troppo acuta la sua sofferenza. Madre Teresa le sorrise, l’abbracciò
e continuo a curare le piaghe puzzolenti della malata. La Santa di
Calcutta aveva ben capito che dire di abbracciare la croce non era
un’esortazione alla rassegnazione
dicendo: “soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili
croci della vita”. E Gesù non dice: “Sopporta la sofferenza”,
ma dice: “Prendi su di te l’amore che è dono di sé commosso”,
cioè capace di com-patire donandosi fino a morirne.
Non
ci è chiesto di subire passivamente, ma di prendere attivamente
parte alla passione di Cristo per il mondo, ricordando che la
passione è quella degli innamorati. Prendere la croce significa
“prendere su di noi una vita che assomigli alla sua”.
Che
cos'è allora la croce?
Per
Cristo non fu lo strumento di morte, ma di manifestazione del suo
amore “esagerato”. La Croce è la sintesi dell'intera vita di
Gesù, vissuta per amore.
Con
Cristo la Croce diventa sinonimo di amore. Quindi la frase di Cristo:
“Chi
mi vuol seguire rinneghi se stesso,
prenda la sua croce e mi segua”, possiamo riscriverla così: “Se
qualcuno vuole venire con me, preda su di sé il giogo dell’amore,
tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”.
Naturalmente,
sperimenteremo che l’amore ha un prezzo: il prezzo del dono di sé,
quindi l’amore ha anche le sue spine e le sue ferite. Queste non
offuscano l’amore, lo purificano perché è amore che non possiede
l’altro ma lo esalta, e lo allietano, perché si fa esperienza di
appartenere, di essere voluti bene e che nel dono di sé che si ha la
vera gioia. Di tale gioia parla l'Apostolo Paolo: “Sono
lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1, 24).
E
ciò è possibile se si mette l’accento non tanto sul fatto che
Cristo ci chiede di “perdere” la vita”, ma sul “trovare” la
vita.
L’esito
finale è “trovare vita”, come è accaduto a Cristo con la
risurrezione. Ciò che Cristo offre è quanto tutti gli uomini
cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è
dato loro di gustare: la fioritura della vita, di una vita che dura
per sempre, di una vita lieta e ricca, perché l’amore cresce solo
quando si dona.
3)
Croce, gioia e verginità.
Potremmo paragonare la
croce al letto dove una mamma dà alla luce un figlio. Le doglie del
parto non sono un’ostacolo alla gioia di una neo-mamma, ne sono la
condizione. Vivere la croce è dare alla luce. Come non pensare al
Signore crocifisso che mentre tutto è compiuto (Gv 19,30) inonda
d’amore chi è sotto il suo letto di dolore, donando a una madre il
figlio e al figlio una madre, per sempre? Morente sulla Croce, Gesù
affidò Giovanni alla sua mamma, dicendo: “Donna, ecco tuo figlio”
(Gv 19, 26). Se Egli non la chiamò col dolce nome di Madre, fu
perché era arrivata per lei l’ora – come arriva per le anime che
progrediscono nell’amore – di affidarle un’altra maternità. La
maternità spirituale sulle anime; quella maternità che il Salvatore
aveva promesso di concedere a tutti quelli che avessero fatto la sua
divina volontà: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei
cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 50).
Fu
quello un momento di gioia. Apparentemente, non lo fu, perché quel
parto era nel dolore. Di fatto, quella maternità rese Maria causa
della nostra letizia, perché la gioia più vera è quella di vedere
la luce dentro l’amore di una Madre che ci accetta come suoi figli
nati dal dolore del Figlio. Sulla
croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama.
In
effetti la vera gioia non
consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore,
nel farsi dono per gli altri e nel volersi bene.
Il
modo più alto di donarsi a Dio ed agli altri e di volere bene a Dio
e al prossimo è quello delle vergini consacrate, che innestano il
fiore della loro consacrazione sulla croce, la cui linfa è la vita
di Cristo.
Il
fiore è un simbolo caro a Santa Teresa del Bambin Gesù, che
utilizza questo simbolo al modo della Sacra Scrittura, per indicare
nello stesso tempo la bellezza e la fragilità dell’essere umano in
questa vita (cfr Mt 6,28-30). Lei si ricongiunge così ad uno dei
significati della parola carne nella Bibbia. Nel libro d’Isaia, il
simbolo del “fiore dei campi” caratterizza l’estrema fragilità
e la mortalità di “ogni carne”, messa a confronto con la
stabilità eterna della “Parola di Dio” (cf. Is 40,6-8). Ma la
grande novità del Mistero di Gesù è precisamente che la “Parola
si è fatta carne” (Gv 1,14), è diventata fragile e mortale come
il fiore dei campi. Santa Teresina utilizza questo simbolo biblico
del “fiore dei campi” (o “piccolo fiore”) per se stessa, lo
estende a tutta l’umanità (specialmente nel mirabile Prologo del
Manoscritto A), ma soprattutto, lo applica a Gesù “nei giorni
della sua carne” (cf. Eb 5,7), cioè in tutti i misteri della sua
vita terrestre contemplati come misteri d’abbassamento, di
piccolezza e di povertà, “essendo proprio dell’Amore abbassarsi”
(Ms A 2v). E’ qui che la Santa di Lisieux si congiunge a San
Francesco e Santa Chiara d’Assisi che contemplano “l’Amore di
questo Dio, Che povero fu deposto nella culla, Povero visse in questo
mondo e nudo rimase sulla Croce” (Testamento di Santa Chiara
d’Assisi).
Lettura
Patristica
San Gregorio di Nissa (335 – 395)
San Gregorio di Nissa (335 – 395)
Vita
Moysis, nn. 269-277
La strada traversa
nuovamente il deserto, e il popolo, nella disperazione dei beni
promessi, è esausto per la sete. E Mosè fa di nuovo scaturire per
lui l’acqua nel deserto dalla Roccia. Questo termine ci dice cos’è,
sul piano spirituale, il sacramento della penitenza. Difatti, coloro
che, dopo aver gustato dalla Roccia, si sono sviati verso il ventre,
la carne e i piaceri degli Egiziani, sono condannati alla fame e
vengono privati dei beni di cui godevano. Ma è data loro la
possibilità di ritrovare con il pentimento la Roccia che avevano
abbandonato e di riaprire per loro il rivolo d’acqua, per
dissetarsi alla sorgente...
Però il popolo non ha ancora imparato a seguire le tracce della grandezza di Mosè. È ancora attratto dai desideri servili e inclinato alle voluttà egiziane. La storia dimostra con ciò che la natura umana è portata a questa passione più che ad altre, accessibile com’è alla malattia per mille aspetti. Ecco perché, alla stregua di un medico che con la sua arte impedisce alla malattia di progredire, Mosè non lascia che il male domini gli uomini fino alla morte. E siccome i loro desideri sregolati suscitavano dei serpenti il cui morso inoculava un veleno mortale in coloro che ne restavano vittime, il grande Legislatore rese vano il potere dei serpenti veri con un serpente in effigie. Sarà però il caso di chiarire l’enigma. Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della religione. Ora, l’elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (Ga 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (Ps 118,120). Ora, il chiodo che trattiene la carne è la continenza. Poiché quindi il desiderio disordinato fa uscire dalla terra serpenti mortali - e ogni germoglio della concupiscenza cattiva è un serpente -, a motivo di ciò, la Legge ci indica colui che si manifesta sul legno. Si tratta, in questo caso, non del serpente, ma dell’immagine del serpente, secondo la parola del beato Paolo: "A somiglianza della carne di peccato" (Rm 8,3). E colui che si rivolge al peccato, riveste la natura del serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato da colui che ha preso su di se la forma del peccato, che si è fatto simile a noi che ci eravamo rivolti verso la forma del serpente; per causa sua la morte che consegue al morso è fermata, però i serpenti stessi non vengono distrutti. Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati, ma la concupiscenza che agisce nella loro carne (Ga 5,17) contro lo Spirito non è interamente distrutta. E, in effetti, i morsi del desiderio si fanno spesso sentire anche tra i fedeli; ma l’uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.
Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo" (Jn 3,14).
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