venerdì 30 marzo 2018

Pasqua: giorno in cui una tomba diventa una culla.


Rito Romano – Domenica di Pasqua – Anno B – 1° aprile 2018

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9



Rito Ambrosiano
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18
Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore




1) La Risurrezione di Cristo è un fatto storico e un dato (dogma) di fede.
La risurrezione è un dogma della fede cristiana, che si innesta in un fatto storicamente avvenuto e costatato. Oggi, giorno di Pasqua, siamo chiamati riflettere “con le ginocchia della mente inchinate” il mistero enunciato dal dogma, racchiuso nel fatto storico e celebrato nella liturgia.
La verità della resurrezione è documentata dal Nuovo Testamento, è creduta e vissuta come centrale dalle prime comunità cristiane, è trasmessa come fondamentale dalla Tradizione e continua ad essere approfondita, studiata e predicata come parte essenziale del mistero pasquale.
Le mie riflessioni si mettono su questo solco che ci offre la Chiesa, ma mi limiterò al brano del vangelo odierno, in cui San Giovanni racconta: “Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti” (Gv 20,1-9).
Come si può notare, questo racconto si sviluppa attorno al “sepolcro vuoto”. La tomba senza il corpo di Cristo non è sufficiente a “dimostrare” la sua resurrezione. Il sepolcro vuoto con pietra d’ingresso tolta e i teli che hanno avvolto Gesù, disposti in modo ordinato se non sono una “prova” della resurrezione, sono però “segni” per chi sa leggerli correttamente, mettendosi in ginocchio con il cuore.
In questa “lettura” orante del testo evangelico di oggi ci è utile esaminare le reazioni delle persone che per prime andarono a vedere la tomba vuota: Maria Maddalena, Pietro e l’ “altro discepolo”, che è poi lo stesso Giovanni, il “Discepolo che Gesù amava”.
Quando Giovanni dopo Pietro entrò nella tomba “vide e credette” che il sepolcro scavato per la morte era diventato la nostra culla per una Vita nuova, poiché colui che ha trionfato sulla morte è il primogenito tra i morti (Ap 1,5). Ed oggi è la Pasqua, il passaggio, la liberazione, per Gesù e per tutti i suoi fratelli. Seguendo la strada che Lui ci ha tracciata, verrà il giorno in cui anche per noi la morte, che distrugge ogni cosa, che è la nostra nemica per eccellenza, sarà annientata dal regno dell'immortalità (cfr. 1Cor 15,26).


2) Un tomba che diventa una culla
Va notato che Pietro entra nella tomba e “osserva” tele e sudario piegati accuratamente. Il testo greco del Vangelo usa il verbo “theoréin”, che dice più del semplice vedere fisico: significa infatti “scrutare attentamente” ed implica uno sguardo attento, riflessivo, interrogante. Infatti dal passo parallelo di Luca (24,12) veniamo a sapere che Pietro era "pieno di stupore" per l'accaduto, di cui è il testimone più autorevole. Per il suo “vedere” Giovanni usa il verbo greco “eidein”, il perfetto di “horào”, che significa guardare, percepire, prendere conoscenza; nel linguaggio biblico del N.T. il verbo indica anche la visione spirituale.
Giovanni dice che “vide e credette”. Perché? Che cosa “vide” e che cosa “credette”?
A differenza di Pietro, Giovanni era rimasto con Gesù fino alla fine, aveva assistito alla sua sepoltura e ora, chinatosi sul sepolcro, vede che bende e sudario sono esattamente nella posizione in cui si trovava il cadavere e collocate in modo che escludeva qualsiasi manomissione.
Ricordiamo che per l'evangelista Giovanni “vedere” (“horào”) è anche un prendere coscienza di un evento della rivelazione. Il discepolo prediletto dunque “vide”, in modo più profondo di Pietro. In questo “vedere” gli fu di aiuto - come ho poco sopra accennato - la sua precedente esperienza di essere stato fra quelli che avevano portato Cristo al sepolcro.
Ma soprattutto fu l’amore per Gesù di cui il “discepolo amato” era penetrato, che lasciò passare in lui la luce: le fasce, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, e il sudario in quella strana posizione, erano il segno, che Gesù era uscito vivo dal sepolcro, sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che Lo avvolgevano. Giovanni coglie dunque nella disposizione delle bende e del sudario un rinvio. Non vide il Risorto, ma le sue tracce. Ma il guardare con amore fece sì che queste tracce gli bastassero per credere.
Anche Maria Maddalena grazie all’amore andò al sepolcro, lo vide scoperchiato e vuoto, andò a dirlo a Pietro ma poi vi torno e nel giardino incontrò il Signore risorto.
Ma procediamo con ordine. Giunta al sepolcro per imbalsamare il corpo del Maestro, Maria vede (in greco “blépei”) la pietra tolta, ribaltata via. Il suo vedere è espresso con “blépo”, un verbo greco che indica il vedere fisico, il semplice scorgere con gli occhi, la percezione materiale. Da questa percezione deriva alla donna una conclusione puramente umana: il cadavere non c'è più, quindi è stato rubato, portato via. Di qui il suo dolore, anzi la sua angoscia, perché le è stata sottratta - forse per sempre - l'unica reliquia che le era rimasta del suo amato Maestro.
Ella avverte di ciò Pietro e Giovanni, i due maggiori esponenti della comunità cristiana primitiva e anch'essi vanno subito, e di corsa, al sepolcro.
Dopo il ritorno dei due Apostoli, la Maddalena non ha potuto resistere al desiderio di visitare nuovamente la tomba del Maestro. Il pensiero che quel corpo sparito possa giacere senza onore e senza sepoltura, tormenta la sua anima ardente e sconvolta. Da sola ritorna al sepolcro. Là, nel suo inconsolabile dolore, piange.
Improvvisamente si trova di fronte ad un uomo, e quest'uomo è Gesù. Maddalena non lo riconosce: sta cercando il corpo morto del suo Maestro e vuole seppellirlo di nuovo. L'amore la guida, ma la fede non rischiara ancora quell'amore; non si accorge che colui del quale cerca le spoglie inanimate è là, vivente, presso di lei.
Gesù, nella sua ineffabile condiscendenza, si degna di farle sentire la sua voce: “Donna - le dice - perché piangi? Cosa cerchi?”. Maddalena non riconosce neppure questa voce. Il suo cuore è come intormentito da una eccessiva e cieca sensibilità. Il suo spirito non riconosce ancora Gesù, che finalmente la chiama per nome: “Maria!”. “Maestro”, risponde lei che vuole baciargli i piedi come quando, lavandoli con prezioso profumo e lacrime, ricevette il perdono delle sue colpe. Ma Gesù la ferma; non è ancora venuto il momento di abbandonarsi alle espansioni di gioia. Prima deve andare ad annunciare agli Apostoli ciò che ella ha visto e ciò che ha udito in quel giardino: Chi ha incontrato, il Cristo risorto. È lei che sarà, come dicono i Santi Dottori, l'Apostola degli Apostoli. Gesù le dice: “Va' dai miei fratelli e di' loro che io ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Facciamo anche noi così.
“Un seno vergine trovato pieno e una tomba piena trovata vuota costituiscono uno stesso segno” (K. Barth). L'ingresso come l'uscita del Figlio di Dio dalla vita e dal mondo restano avvolte nel mistero. Ma è un mistero d’Amore. Se con la Pasqua ci convertiremo a questo Amore la nostra vita quotidiana ne sarà un riflesso che darà luce e calore a tutti.
La gioia della Pasqua ci spinga a portare a tutti l’annuncio che Cristo è risorto per la salvezza del mondo intero. Nel Suo nome rechiamo a tutti l’annuncio della conversione e del perdono dei peccati, soprattutto mediante la testimonianza di una vita convertita e perdonata.
Dobbiamo essere testimoni della misericordia di Dio. Non c’è Pasqua nel nostro cuore e nella nostra vita se non siamo in pace con Dio, con noi stessi, con gli altri, con il mondo intero.
La Pasqua inizia da questa conversione del cuore alla misericordia. Nell’anno santo della misericordia Papa Francesco ci ha invitato a sforzarci nel vivere concretamente questa dimensione della risurrezione di Cristo che è la misericordia, avere, cioè, un cuore aperto al perdono.
Questa testimonianza di Cristo risorto e misericordioso possiamo darla se siamo “rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 49), cioè della forza interiore dello Spirito del Risorto. “Per riceverla occorre, come disse Gesù ai discepoli, non allontanarsi da Gerusalemme, rimanere nella ‘città’ dove si è consumato il mistero della salvezza, il supremo Atto d’amore di Dio per l’umanità. Per i cristiani, cittadini del mondo, restare in Gerusalemme può vuol dire rimanere nella Chiesa, la ‘città di Dio per gli uomini’” (Benedetto XVI).


Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540 – 604)
Hom. 26, 10-11


La festa degli uomini e la festa eterna

       Ecco, noi stiamo celebrando le feste pasquali; ma dobbiamo vivere in modo tale da meritare di giungere alla festa eterna. Passano tutte le feste che si celebrano nel tempo. Cercate, voi che siete presenti a queste solennità, di non essere esclusi dalla solennità eterna. Cosa giova partecipare alle feste degli uomini, se poi si è costretti ad essere assenti dalle feste degli angeli? La presente solennità è solo un’ombra di quella futura. Noi celebriamo questa una volta l’anno per giungere a quella che non è d’una volta l’anno, ma perpetua. Quando, al tempo stabilito, noi celebriamo questa, la nostra memoria si risveglia al desiderio dell’altra. Con la partecipazione, dunque, alle gioie temporali, l’anima si scaldi e si accenda verso le gioie eterne, affinché goda in patria quella vera letizia che, nel cammino terreno, considera nell’ombra del gaudio. Perciò, fratelli, riordinate la vostra vita e i vostri costumi. Pensate come verrà severo, al giudizio, colui che mite risuscitò da morte. Certamente nel terribile giorno dell’esame finale egli apparirà con gli angeli, gli arcangeli, i troni, le dominazioni, i principati e le potestà, allorché i cieli e la terra andranno in fiamme e tutti gli elementi saranno sconvolti dal terrore in ossequio a lui. Abbiate davanti agli occhi questo giudice così tremendo; temete questo giudice che sta per venire, affinché, quando giungerà, lo possiate guardare non tremanti ma sicuri. Egli infatti dev’essere temuto per non suscitare paura. Il terrore che ispira ci eserciti nelle buone opere, il timore di lui freni la nostra vita dall’iniquità. Credetemi, fratelli: più ci affannerà ora la vista delle nostre colpe, più saremo sicuri un giorno alla sua presenza.

       Certamente, se qualcuno di voi dovesse comparire in giudizio dinanzi a me domani insieme al suo avversario, passerebbe tutta la notte insonne, pensando con animo inquieto a cosa gli potrebbe essere detto, a come controbattere, verrebbe assalito da un forte timore di trovarmi severo, avrebbe paura di apparirmi colpevole. Ma chi sono io? o cosa sono io? Io, tra non molto, dopo essere stato un uomo, diventerò un verme, e dopo ancora, polvere. Se dunque con tanta ansia si teme il giudizio della polvere, con quale attenzione si dovrà pensare, e con quale timore si dovrà prevedere il giudizio di una così grande maestà?

venerdì 23 marzo 2018

Domenica delle Palme: liturgia di passione


Rito Romano – Domenica delle Palme e della Passione del Signore - Anno B – 25 marzo 2018

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47



Rito Ambrosiano

Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11

Settimana Autentica  - Domenica delle Palme nella Passione del Signore
1) Dal legno delle palme a quello della Croce.
Oggi inizia la passione d’amore di Gesù Cristo, nostro Salvatore. I riti della Domenica delle Palme ci invitano a partecipare alla gioia del popolo ebreo, che assiste all’entrata solenne e festosa di Gesù in Gerusalemme:
  • le palme che la gente agita in segno di vittoria,
  • i mantelli stesi a terra per onorare il Messia che entra sul dorso di un asino,
  • i festosi osanna dei bambini e del popolo,
  • la trionfale processione che acclama Cristo Gesù, Re dei re e Signore dei signori.
Viene spontaneo immedesimarsi in quella folla festosa, unirsi a quei canti, partecipare a quel trionfo.
L’esaltazione della festa, purtroppo, dura pochissimo e si trasforma rapidissimamente in umiliazione e morte. Per passare dalla gioia di questo trionfo delle palme a quella della resurrezione, Cristo deve passare attraverso la dura esperienza della passione, della croce e della morte. E’ un percorso difficilissimo da comprendere umanamente e nella seconda lettura della Messa di oggi parla così di questo misterioso percorso: “Cristo Gesù,  pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio  l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo,  umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 6-8)
Nell’austera liturgia del Venerdì Santo riascolteremo queste parole, che così proseguono: “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (ivi 2, 9-11). 
L’abbassamento e l’esaltazione: ecco la chiave per comprendere il mistero pasquale; ecco la chiave per penetrare lo stupefacente disegno di Dio, che si compie negli eventi della Pasqua.
La regalità di Cristo si esprime in questo abbassamento, in questa totale spogliazione, nel farsi servo e schiavo in una profondissima e completa umiliazione.
In effetti la lettura della Passione di Cristo mette davanti ai nostri occhi le scene terribili della passione di Gesù: la sua sofferenza fisica e morale, il bacio di Giuda, l'abbandono da parte dei discepoli, il processo davanti a Pilato, gli insulti e gli scherni, la condanna, la via dolorosa, la crocifissione. Infine, la sofferenza più misteriosa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Un forte grido, e poi la morte.
Perché tutto questo? L’inizio della preghiera eucaristica ci dà la risposta: “Egli, che era senza peccato, accettò la passione per noi peccatori e, consegnandosi a un'ingiusta condanna, portò il peso dei nostri peccati. Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza” (Prefazio).
Ecco perché la nostra celebrazione eucaristica (=riconoscente) dice riconoscenza e amore a Colui che si è sacrificato per noi, al Servo di Dio che, come aveva detto il profeta, non ha opposto resistenza, non si è tirato indietro, ha presentato il dorso ai flagellatori, non ha sottratto la faccia agli insulti e agli sputi (cfr Is 50, 4-7).
Da una parte tutta la storia (quella dell’umanità, quella della Chiesa e quella di ognuno di noi) è segnata definitivamente dalla passione di amore che il Figlio di Dio ha patito ed offerto per noi. Dall’altra, siamo chiamati a proclamare anche la gloria di Dio Padre e la sua infinita misericordia. Immersi nella morte e nella croce, attratti dal Crocifisso, possiamo essere veramente partecipi
  • della sua gloriosa risurrezione, che ha sconfitto il potere della morte e ci dona la vita per sempre;
  • della sua regalità, che usa il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, e accendere la speranza nel buio più fitto; e
  • del suo sacerdozio, che lo fa stare davanti al Padre a braccia aperte per servirlo nella lode e servire il suo amore agli uomini.

2) L’appassionata offerta di Cristo.
Credo che sia corretto affermare che, per l’evangelista Marco, il filo conduttore (fil rouge) del racconto della passione, che si legge oggi, è la preghiera di Gesù al Padre. E’ una preghiera che esprime una sorta di lacerazione interiore, ma, al di là di tutto, c’è un punto fermo: la consapevolezza del proprio rapporto filiale con Dio: “Abbà”, papà. È una consapevolezza che non viene mai meno neppure nella prova. Ed è proprio qui che nasce l'implorazione: “Tutto è possibile a te. Allontana da me questo calice”. Se Dio è Padre e può tutto, perché non sottrae alla prova? È questa la domanda spontanea dell'uomo, anche dell’uomo-Gesù. Ma dopo l'implorazione, ecco la fiducia rinnovata, l'abbandono senza riserve: “Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. E se all’inizio dell’episodio di Gesù nell’orto degli ulivi ci viene descritto un Gesù angosciato e impaurito, alla fine - dopo la preghiera - ci viene descritto un Gesù che ha ritrovato la serenità e la fermezza: “Alzatevi, andiamo, colui che mi tradisce è vicino”. Il Padre non ha sottratto Gesù alla Croce, ma lo ha aiutato a stendervisi sopra e portare frutti di vita eterna.
E’ l’amore del Padre che manda il Figlio in Croce. Lui offre suo Figlio per la salvezza del mondo. Nello stesso tempo è l’amore del Figlio il quale non “giudica” il mondo, ma sacrifica se stesso per l’amore verso il Padre e per la salvezza del mondo. Dando se stesso al Padre per mezzo del sacrificio della croce, Gesù offre - allo stesso tempo - se stesso al mondo: ad ogni singola persona e all’umanità intera, bisognosa di misericordia.
Termino queste riflessioni sulla domenica delle Palme, invitando a viverla nella lode, come hanno fatto coloro che hanno accolto Gesù a Gerusalemme con i loro “osanna”, e nel ringraziamento, perché nella Settimana Santa e grande, il nostro Signore e fratello Gesù rinnoverà il dono più grande che si possa immaginare: ci donerà la sua vita, il suo corpo e il suo sangue, il suo amore.
Rispondiamo a questo dono così grande prendendo esempio dalla Vergini Consacrate, cioè donando noi stessi, il nostro tempo, la nostra preghiera, il nostro stare in comunione profonda d’amore con Cristo che soffre, muore e risorge per noi. Davanti a Cristo stendiamo la la nostra vita, le nostre persone, in atteggiamento di gratitudine e di adorazione come le vergini nel giorno della loro consacrazione. In questo modo imiteremo anche la gente di Gerusalemme che stese i suoi mantelli al Messia che passava in mezzo a loro, accogliendo l’invito sant’Andrea, Vescovo di Creta: “Stendiamo umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso ... e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese ... per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele”(PG 97, 994).



Lettura patristica
Santa Caterina di Siena (1347 – 1380)
Lettera 260
Ai prigionieri, il giorno del Giovedì Santo, 1377



Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Carissimi figliuoli in Cristo dolce Gesù, io Caterina, serva e schiava de' servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo, con disiderio di vedervi bagnati per santo desiderio nel sangue di Cristo crocifisso.

Ponetevelo per obbietto dinanzi all'occhio de lo 'ntelletto vostro, e facendo così acquistarete una pazienzia vera, però che 'l sangue di Cristo ci rapresenta le nostre iniquità, e rapresentaci la infinita misericordia e carità di Dio: la quale ripresentazione ci fa venire in odio e in dispiacimento e' difetti e peccati nostri, e facci venire in amore le virtù.

E se voi mi domandaste, carissimi figliuoli, perché nel sangue si vegono più e' nostri difetti, e la misericordia sua, rispondovi: perché la morte del Figliuolo di Dio fu data a lui per li peccati nostri. El peccato fu cagione della morte di Cristo, ché 'l Figliuolo di Dio non avea bisogno per via di croce intrare nella gloria sua, ché in lui non era veleno di peccato, e vita eterna era sua. Ma noi miserabili avendola perduta per li peccati nostri, era caduta grandissima guerra fra noi e Dio. L'uomo era infermo ed era indebilito, ribellando al suo Creatore, e non potea pigliare l'amara medicina che seguitava la colpa comessa; fu di bisogno dunque che Dio ci donasse el Verbo de l'unigenito suo Figliuolo. E così per la sua inestimabile carità fece unire la natura divina con la natura umana; lo infinito si unì colla nostra miserabile carne finita.

Egli viene come medico infermo, e cavaliere nostro. Medico, dico, ché col sangue suo à sanato le nostre iniquità, e àcci dato la carne in cibo, e 'l sangue in beveragio (Jn 6,55). Questo sangue è di tanta dolcezza e soavità, e di sì grande fortezza, che ogni infermità sana - e dalla morte viene a la vita -; egli tolle la tenebre, e dona la luce. Perché 'l peccato mortale fa cadere l'anima in tutti questi inconvenienti: el peccato ci tolle la grazia, tolleci la vita e dacci la morte; egli offusca el lume de lo 'ntelletto, e fallo servo e schiavo del dimonio; tollegli la vera sicurtà, e dagli el disordinato timore, perché 'l peccato sempre teme. Egli à perduta la signoria, colui che si lassa signoregiare al peccato.

Oimé, oimé, quanti sonno e' mali che ne seguitano! Quante sonno le tribulazioni, l'angosce e le fadighe che ci son permesse da Dio solo per lo peccato! Tutti questi difetti e questi mali sonno spenti nel sangue di Cristo crocifisso, perché nel sangue si lava l'anima delle immondizie sue, riducendosi alla santa confessione. Nel sangue s'acquista la pazienzia, ché, considerando l'offese che abiamo fatte a Dio, e il rimedio ch'egli à posto per darci la vita de la grazia, veniamo a vera pazienzia. Sì che bene è vero ch'egli è medico, ché ci à donato el sangue per medicina.

Dico ch'egli è infermo, cioè ch'egli à presa la nostra infermità, prendendo la nostra mortalità e carne mortale; e sopra essa carne del dolcissimo corpo suo à puniti e' difetti nostri. Egli à fatto come fa la balia che notrica el fanciullo, che, quando egli è infermo, piglia la medicina per lui; perché 'l fanciullo è piccolo e debile, non potrebbe pigliare l'amaritudine, perché non si notrica altro che di latte. O dolcissimo amore Gesù, tu se' balia che ài presa l'amara medicina, sostenendo pene, obrobi, strazii, villanie; legato (Mt 27,2 Mc 15,1 Jn 18,12), battuto (Mt 26,67 Mc 14,65 Lc 22,63) e fragellato (Mt 27,26 Mc 15,15 Jn 19,1) alla colonna, confitto e chiavellato in croce (Mt 27,35 Mc 15,24 Lc 23,33 Jn 19,18); satollato di scherni e d'obrobi (Mt 27,39-41 Mc 15,29-31 Lc 23,35-36); afflitto e consumato di sete (Jn 19,28) senza veruno refrigerio - e gli è dato aceto (Mt 27,48 Mc 15,36 Lc 23,36 Jn 19,29) mescolato con fèle, con grandissimo rimproverio -: ed egli con pazienzia porta, pregando per coloro che 'l crocifigono.

O amore inestimabile, non tanto che tu preghi per quelli che ti crocifigono, ma tu gli scusi dicendo: «Padre, perdona a costoro che non sanno che si fanno» (Lc 23,34). O pazienzia che eccedi ogni pazienzia! Or chi fu mai colui che, essendo percosso, battuto, e schernito e morto, egli perdoni e prieghi per coloro che l'offendono? Tu solo se' colui, Signore mio. Bene è vero dunque che tu ài presa l'amara medicina per noi fanciulli debili e infermi; e con la tua morte ci dai la vita, e con l'amaritudine ci dai la dolcezza. Tu ci tieni al petto come balia, e ài dato a noi el latte della divina grazia, e per te ài tolto l'amaritudine; e così riceviamo perfetta sanità. Sì che vedete ch'egli è infermato per noi.

Dico ch'egl'è cavaliere: venuto in questo campo della bataglia à combatuto e vénto le dimonia. Dice santo Agustino: «Con la mano disarmata questo nostro cavaliere à sconfitti e' nimici nostri, salendo a cavallo in sul legno della santissima croce». La corona delle spine gli fu l'elmo; la carne fragellata l'osbergo; le mani chiavellate e' guanti della piastra; la lancia per lo costato fu quello coltello che tagliò e ricise la morte da l'uomo; e' piei confitti sonno li speroni. Vedete come dolcemente è armato questo nostro cavaliere! Bene el dobiamo seguitare, e confortarci in ogni nostra aversità e tribulazione. E però vi dissi io che 'l sangue di Cristo ci manifesta e' peccati nostri, e mostraci el rimedio e l'abondanzia della divina misericordia, la quale abiamo ricevuta nel sangue suo.

Bagnatevi nel sangue di Cristo crocifisso, ché in altro modo non potremo participare la grazia sua, né avere il fine per lo quale fumo creati; né portareste pazientemente le vostre tribulazioni, però che nella memoria del sangue ogni amara cosa diventa dolce, e ogni gran peso legiero. Altro non vi dico, per lo poco tempo che ò.

venerdì 16 marzo 2018

Cristo: il grano di frumento seminato nel cielo.


Rito Romano – V Domenica di Quaresima - Anno B – 18 marzo 2018
 Ger 31,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Rito Ambrosiano

Dt 6,4a;26,5-11; Sal 104; Ef 5,15-20; Gv 11,1-53

Domenica di Lazzaro – V di Quaresima

1) Vedere Cristo, chicco di grano.
Nei pochi giorni che ci separano dalla Pasqua, in cui “vedremo” il Risorto, continuiamo nei gesti che la Chiesa consiglia per la Quaresima, vale a dire la preghiera, il digiuno e l’elemosina (=misericordia). “Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia è la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica” (San Pietro Crisologo).
In questo modo anche noi saremo capaci di essere umilmente e veramente “chicchi di grano”. Questo dono di sé permette di vedere il Messia, perché Lui manifesta Dio sulla Croce. Infatti alla domanda dei Greci (cioè dei non Ebrei) che vogliono vedere Gesù, Lui risponde indirettamente, dicendo dov’è che Lo si vede. Lo si vede nella sua gloria. E la sua gloria consiste nell’essere innalzato sulla Croce, lì è il luogo dove si vede il Signore.  L'accento non è sulla morte, ma sulla vita. Gloria di Dio non è il morire, ma il molto frutto buono.
Cristo mostra Dio in Croce, dove è salito a causa del Suo amore per noi. Il Figlio di Dio si stacca dalla sua vita terrena, perché noi riceviamo la Vita celeste. Gesù non solo dice di essere come un chicco di grano che muore per dare la vita, Lui distende le Sue braccia sulla croce. Con le mani inchiodate e, quindi, aperte per sempre in un eterno abbraccio Cristo accoglie tutti noi, poveri peccatori pentiti, e ci dà la vera vita piena di una gioia che non finisce mai. Questa gioia nasce dal sapere di essere amati da un Dio
che si è fatto uomo,
che ha dato la sua vita per noi e
che ha sconfitto il male e la morte.
Questa gioia è vivere di amore per lui. Santa Teresa di Gesù Bambino scriveva: “Gesù, è amarti la mia gioia!” (P 45, 21 gennaio 1897, Op. Compl., pag. 708). E Santa M. Teresa di Calcutta, facendo eco alle parole di Gesù: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!” (At 20,35), diceva: “La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più” e produce molto frutto.
Questo frutto è il risultato del sì di Cristo al“l’ora” in cui Lui, il Figlio dell’uomo, viene glorificato. Per l’evangelista San Giovanni “l’ora” è il tempo stabilito dal Padre per darci la salvezza. Poiché questa salvezza ci è donata da Cristo con l’offerta totale della Sua vita sulla croce, dopo aver parlato della sua “ora” che è venuta, il Messia aggiunge: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25).
L’“ora” della glorificazione di Cristo, cioè del suo innalzamento sulla croce, è il momento in cui Lui si offre come chicco di grano per essere “seminato nel cielo” per portare frutti celesti.
Il chicco “seminato per terra” produce frutti terrestri. Questa seminagione capovolge davvero tutto il senso del nostro vivere: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (ibid.). Cristo è venuto, perché abbiamo la vita, ma per avere la vita – al contrario di quanto noi pensiamo e facciamo ogni giorno – è necessario metterla a disposizione di Dio, farne dono a Dio perché Lui la doni agli altri. La croce è questo donarci. Come Dio che si dona interamente a noi, in Cristo, sulla Croce e dalla Croce.


2) La Croce è il luogo dove Cristo fa vedere Dio.
Se come i greci, di cui parla il Vangelo di oggi, vogliamo davvero vedere Gesù, guardiamo quest’Uomo in Croce, dove Lui manifesta la sua gloria. Certo occorre avere occhi puri e cuore terso per “vedere” la gloria di Dio in Cristo che muore. La gloria di Gesù consiste nell’essere innalzato sulla Croce, lì è il luogo dove si vede il Signore. Dove possiamo vedere Dio? Sulla Croce. La sua gloria, dice il Messia, è quella del chicco di frumento. La gloria di un seme è il suo frutto, lui porta frutto proprio morendo in Croce.
Se è vero che la gloria è la pienezza di luce, di bellezza di Dio che si rivela nella bellezza del creato e delle creature sante, è altrettanto vero che l’ “ora” della Croce è il momento, in cui Dio si rivela nella gloria del Figlio dell’uomo. E Gesù la spiega attraverso la metafora del chicco.
Qual è la gloria del chicco di frumento? Di per sé, un chicco di grano è poco glorioso: non è che un grano di frumento, che non è neppure in grado di saziare la fame di una persona. Ma se il chicco di frumento cade nella terra e muore, porta molto frutto. La gloria del seme è portare vita e frutto. Gesù insegna che la sua gloria è la Croce, perché attraverso di essa, Lui darà la vita. In quest’Ora Lui dà la vita al Padre, consegnandosi a Lui come Agnello immolato, e dà la vita a noi trasformando la croce da strumento di morte a letto di vita, come quello di una partoriente.
Se il chicco non muore, rimane solo. Questa è una legge naturale e necessaria. Questa legge vale anche per il Figlio dell’uomo. E’ la legge di ogni uomo, che è quella di morire, perchè l’uomo è di sua natura mortale. Ma la morte in croce di Gesù è gloria, perchè la sua non è tanto una morte, quanto il dono della vita. Gesù è così: un chicco di gra no, che si consuma e fiorisce; una croce, dove già respira la risurrezione.
Guardiamo all’esempio delle vergini consacrate per capire la croce, per accogliere e vivere l’amore che essa manifesta.
L’amore vissuto virginalmente è un amore crocifisso non perché è un amore mortificato, ma perché è un amore “sacrificato”, cioè reso sacro dal totale dono di se stessi a Dio. L’amore vergine è quello di Cristo, che “praticò” un amore crocifisso. Gesù per amare è andato in un’esperienza progressiva di svuotamento di sé fino alla croce. Se vogliamo amare da cristiani dobbiamo saperlo e fare come lui. Questo modo di amare mette l’altro prima di me e l’Altro (Dio) più di me. La croce è il segno più grande dell’amore più grande, e la virginità è la crocefissione di sé per donarsi a Dio, per inchiodarsi al suo amore abbracciando Cristo in Croce.
Le Vergini consacrate sono esempio significativo ed alto del fatto che l’amore di Dio è totalitario, infatti bisogna amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (cfr Mc 12,30). Queste donne mostrano che il corpo e il cuore castamente offerto non allontana da Dio, avvicina l’essere umano a Dio più degli stessi angeli (cfr Ef 1,14) e che la vita cristiana è un progressivo configurarci a Cristo crocifisso e risorto. In effetti, come l’amore per noi ha condotto Cristo alla croce, l’amore nostro per Lui imprime in noi le sue ferite d’amore (Ct 2,5). L’amore purifica e configura, trasfigurando. Morire a se stessi nel dono della verginità non è un vero morire, perché come accadde a Cristo il dono totale di sé moltiplica la vita.
La verginità non è semplicemente una rinuncia. La verginità dilata il cuore sulla misura del cuore di Cristo e rende capaci di amare come lui ha amato. 
La verginità vissuta come crocifissione è per testimoniare che l’Amore ha vinto attraverso il dono di sé.
La verginità vissuta come risurrezione è per testimoniare che lo Sposo è davvero presente nella vita di ogni giorno e la sua condiscendente presenza dà gioia, gioia piena e compiuta (cfr Gv 3,29).
“La Croce non ci fu data per capirla ma perché ci aggrap passimo ad essa” (Bonhoef fer): le Vergini consacrate attratte da Cristo che le ha sedotte, si aggrappano alla sua Croce, camminano dietro a Lui, imparando da Lui cos’è l’amore e come amare Dio e il prossimo.
La consacrazione, sacrificio totale e olocausto perfetto, è il modo suggerito loro dallo Spirito per rivivere il mistero di Cristo crocifisso, venuto nel mondo per dare la sua vita in riscatto per molti (cfr. Mt 20, 28; Mc 10, 45), e per rispondere al suo infinito amore. 


Lettura Patristica
San Leone Magno
Sermo, 51, 3


Cristo ci ha fatto dono della sua vittoria

       Qual sacrificio fu mai più sacro di quello che il vero Pontefice posa sull’altare della croce immolando su di lei la propria carne? Benché, invero, la morte di molti santi sia stata preziosa agli occhi del Signore (Ps 115,15), mai tuttavia l’uccisione di un innocente ebbe come causa la propiziazione del mondo. I giusti hanno ricevuto la propria corona di gloria, non ne hanno donate, la forza d’animo dei fedeli ha prodotto esempi di pazienza, non doni di giustizia. La loro morte rimase propria a ciascuno di loro e nessuno con il proprio transito acquistò il debito di un altro; nostro Signore, invece, unico tra i figli degli uomini, è stato il solo in cui tutti sono stati crocifissi, tutti sono morti, tutti sono stati sepolti, tutti del pari sono risuscitati; ed è di loro che egli stesso diceva: "Quando sarò levato in alto attirerò tutto a me" (Gv 12,32). In effetti, la vera fede che giustifica gli empi (Rm 4,5) e crea i giusti (Eph 2,10 e 4,24), attratta a colui che condivide la sua natura, acquista in lui la salvezza, in lui nel quale essa si è ritrovata innocente; e poiché "non vi è che un unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5) è per la comunione con la sua stirpe che l’uomo ha ritrovato la pace con Dio; può così, in tutta libertà, gloriarsi (1Co 3,21
; Fil 3,3; 2Cor 10,17) della potenza di colui che, nella infermità della nostra carne, ha affrontato un nemico superbo e ha fatto dono della sua vittoria a coloro nel cui corpo egli ha trionfato.

Sant’Agostino
Sermo Guelf. 3, 1-2

La morte del Signore è la nostra somma gloria.

       Per conseguenza, ebbe con noi con una vicendevole partecipazione una meravigliosa relazione; era nostro, quello per cui è morto, suo sarà quello, per cui possiamo vivere. In effetti, egli diede la vita, che assunse da noi e per la quale morì, e dette la stessa vita, poiché egli era il Creatore; ma prese quella vita per la quale con Lui e per Lui saremo vittoriosi, non per opera nostra. E per questo, per quanto riguarda la vita nostra, per la quale siamo uomini, morì non per sé ma per noi; infatti, la natura di Lui, per la quale è Dio, non può morire completamente. Ma per quanto riguarda la natura umana di lui, che egli, come Dio, creò, è morto anche in essa: poiché anche la carne egli creò nella quale egli è morto.

       Non soltanto, quindi, non dobbiamo arrossire della morte del Signore, nostro Dio, ma ci dobbiamo grandemente confidare in essa e aver motivo di somma gloria: accettando infatti, la morte da noi, che egli trovò in noi, sposò nel modo più fedele la vita che ci avrebbe dato, che noi non possiamo avere da noi. In effetti, colui che ci amò tanto, che ciò che meritammo col peccato, egli, senza peccato, patì per noi peccatori, come colui che giustifica non ci darà ciò con giustizia? Come non ci restituirà, i premi dei santi, colui che promette con verità, colui che, innocente, sopportò la pena dei colpevoli?

       Confessiamo, dunque, fratelli, coraggiosamente, ed anche professiamo: Cristo è stato crocifisso per noi: non vi spaventate ma siate nella gioia; proclamiamolo non con vergogna ma con gioia. Osservò così il Cristo l’apostolo Paolo e raccomandò tale titolo di gloria.

       Ed egli, avendo molti titoli, grandi e divini, che egli ricordasse del Cristo, non disse di gloriarsi delle meraviglie del Cristo, poiché, essendo anche uomo, come siamo noi, ebbe il dominio nel mondo; ma disse: Per me di non altro voglio gloriarmi, che della croce del Nostro Signore Gesù Cristo (Ga 6,14).

venerdì 9 marzo 2018

La ragione della nostra letizia: la Croce di Cristo.


Rito Romano – IV Domenica di Quaresima - Anno B – 11 marzo 2018
2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21


Rito Ambrosiano
Es 33, 7-11a; Sal 35; 1Ts 4,1b-12; Gv 9,1-38b
Domenica del cieco - IV di Quaresima


1) Contemplare Cristo in Croce.
Il cammino quaresimale è come l’esodo degli ebrei, che per quarant’anni pellegrinarono nel deserto. In quel lungo periodo loro furono fortificati dalla prova e vissero un tempo particolare di purificazione e di grazia. Inoltre sperimentarono il dono della benevolenza del Signore che, camminando davanti a loro - come colonna di fumo, di giorno, e di fuoco, di notte - li condusse alla Terra promessa.
Gli Israeliti furono pellegrini nel deserto, perché credevano completamente nel Signore che li conduceva verso la libertà. A un certo punto questa fede piena venne meno e protestarono contro Yahvé. Dio li punì con il morso di serpenti velenosi che sbucavano da ogni parte della sabbia. Però, nella sua misericordia Dio si commosse per le loro lacrime di pentimento e soprattutto ascoltò la preghiera piena di fiducia che Mosè Gli rivolse in favore dei connazionali. Allora ordinò di fare un serpente di bronzo e di collocarlo su un bastone in un posto elevato del deserto, perché fosse ben visibile, in modo tale che tutti quelli. che lo guardavano fossero resi immuni dal veleno dei serpenti veri, che imperversavano da tutte le parti nel deserto. Ciò facendo gli Israeliti venivano salvati dalla morte per avvelenamento.
In questa domenica il serpente di bronzo, a cui fa cenno il Vangelo, ci invita a riflettere sul Cristo Salvatore Crocifisso destinato a diventare Risorto.
Come fu ordinato a Mosè di innalzare il serpente di bronzo nel deserto per salvare il popolo ebreo, e questo è diventato strumento di salvezza per quanti venivano feriti dai morsi dei serpenti materiali, così oggi è ordinato a noi di guardare a Cristo innalzato sul legno della Croce. Guardando al Crocifisso, i Cristiani sono salvati dal veleno del serpente spirituale.
Nella conversazione con Nicodemo, di cui il brano evangelico di oggi ne è una parte, Gesù svela il senso più profondo della sua morte e risurrezione: il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. Dunque, se ci si vuole salvare dai morsi velenosi del male, dobbiamo guardare a Cristo che dalla Croce sparge amore.
  Il guardare Cristo crocifisso con occhi purificati dal dolore permette di vedere l’amore di Dio per noi e di credere all’amore.
Il guardare Cristo crocifisso e seguirlo, prendendo ogni giorno la nostra croce, ci fa diventare persone che amano come Dio ha amato.
Guardiamo alla Croce per farla entrare non solo nei nostri occhi, ma nel nostro cuore e nella nostra vita. Guardiamo alla Croce per diventare testimoni di Cristo crocifisso. Quando la guardiamo, ovunque essa sia esposta, essa ci ricorda la possibilità di salvezza per la vita. La croce è li per dirci che se crediamo nel Vangelo, in quello che Gesù ha fatto e detto, allora la nostra vita è salva e diventa guaritrice per tutti coloro che ci sono vicini.

2) La gioia della Croce
Sulla croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama e il contemplare questo amore, un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui. Ma la Croce non è solamente da guardare con sguardo di adorazione, è anche da abbracciare.
Ma perché è così importante abbracciare la Croce e perché ciò è fonte di gioia? Risponderò a questo domande con un episodio della vita di Madre Teresa di Calcutta. Una giorno questa santa andò da una malata e le disse che doveva essere lieta perché era così sofferente da essere vicina a Cristo. La donna le rispose che allora desiderava allontanarsi da Cristo, perché troppo acuta la sua sofferenza. Madre Teresa le sorrise, l’abbracciò e continuo a curare le piaghe puzzolenti della malata. La Santa di Calcutta aveva ben capito che dire di abbracciare la croce non era un’esortazione alla rassegnazione dicendo: “soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita”. E Gesù non dice: “Sopporta la sofferenza”, ma dice: “Prendi su di te l’amore che è dono di sé commosso”, cioè capace di com-patire donandosi fino a morirne.
Non ci è chiesto di subire passivamente, ma di prendere attivamente parte alla passione di Cristo per il mondo, ricordando che la passione è quella degli innamorati. Prendere la croce significa “prendere su di noi una vita che assomigli alla sua”.
Che cos'è allora la croce?
Per Cristo non fu lo strumento di morte, ma di manifestazione del suo amore “esagerato”. La Croce è la sintesi dell'intera vita di Gesù, vissuta per amore.
Con Cristo la Croce diventa sinonimo di amore. Quindi la frase di Cristo: “Chi mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”, possiamo riscriverla così: “Se qualcuno vuole venire con me, preda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”.
Naturalmente, sperimenteremo che l’amore ha un prezzo: il prezzo del dono di sé, quindi l’amore ha anche le sue spine e le sue ferite. Queste non offuscano l’amore, lo purificano perché è amore che non possiede l’altro ma lo esalta, e lo allietano, perché si fa esperienza di appartenere, di essere voluti bene e che nel dono di sé che si ha la vera gioia. Di tale gioia parla l'Apostolo Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1, 24).
E ciò è possibile se si mette l’accento non tanto sul fatto che Cristo ci chiede di “perdere” la vita”, ma sul “trovare” la vita.
L’esito finale è “trovare vita”, come è accaduto a Cristo con la risurrezione. Ciò che Cristo offre è quanto tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita, di una vita che dura per sempre, di una vita lieta e ricca, perché l’amore cresce solo quando si dona.

3) Croce, gioia e verginità.
Potremmo paragonare la croce al letto dove una mamma dà alla luce un figlio. Le doglie del parto non sono un’ostacolo alla gioia di una neo-mamma, ne sono la condizione. Vivere la croce è dare alla luce. Come non pensare al Signore crocifisso che mentre tutto è compiuto (Gv 19,30) inonda d’amore chi è sotto il suo letto di dolore, donando a una madre il figlio e al figlio una madre, per sempre? Morente sulla Croce, Gesù affidò Giovanni alla sua mamma, dicendo: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19, 26). Se Egli non la chiamò col dolce nome di Madre, fu perché era arrivata per lei l’ora – come arriva per le anime che progrediscono nell’amore – di affidarle un’altra maternità. La maternità spirituale sulle anime; quella maternità che il Salvatore aveva promesso di concedere a tutti quelli che avessero fatto la sua divina volontà: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 50).
Fu quello un momento di gioia. Apparentemente, non lo fu, perché quel parto era nel dolore. Di fatto, quella maternità rese Maria causa della nostra letizia, perché la gioia più vera è quella di vedere la luce dentro l’amore di una Madre che ci accetta come suoi figli nati dal dolore del Figlio. Sulla croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama.
In effetti la vera gioia non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono per gli altri e nel volersi bene.
Il modo più alto di donarsi a Dio ed agli altri e di volere bene a Dio e al prossimo è quello delle vergini consacrate, che innestano il fiore della loro consacrazione sulla croce, la cui linfa è la vita di Cristo.
Il fiore è un simbolo caro a Santa Teresa del Bambin Gesù, che utilizza questo simbolo al modo della Sacra Scrittura, per indicare nello stesso tempo la bellezza e la fragilità dell’essere umano in questa vita (cfr Mt 6,28-30). Lei si ricongiunge così ad uno dei significati della parola carne nella Bibbia. Nel libro d’Isaia, il simbolo del “fiore dei campi” caratterizza l’estrema fragilità e la mortalità di “ogni carne”, messa a confronto con la stabilità eterna della “Parola di Dio” (cf. Is 40,6-8). Ma la grande novità del Mistero di Gesù è precisamente che la “Parola si è fatta carne” (Gv 1,14), è diventata fragile e mortale come il fiore dei campi. Santa Teresina utilizza questo simbolo biblico del “fiore dei campi” (o “piccolo fiore”) per se stessa, lo estende a tutta l’umanità (specialmente nel mirabile Prologo del Manoscritto A), ma soprattutto, lo applica a Gesù “nei giorni della sua carne” (cf. Eb 5,7), cioè in tutti i misteri della sua vita terrestre contemplati come misteri d’abbassamento, di piccolezza e di povertà, “essendo proprio dell’Amore abbassarsi” (Ms A 2v). E’ qui che la Santa di Lisieux si congiunge a San Francesco e Santa Chiara d’Assisi che contemplano “l’Amore di questo Dio, Che povero fu deposto nella culla, Povero visse in questo mondo e nudo rimase sulla Croce” (Testamento di Santa Chiara d’Assisi).



Lettura Patristica
 San Gregorio di Nissa (335 – 395)
Vita Moysis, nn. 269-277



       La strada traversa nuovamente il deserto, e il popolo, nella disperazione dei beni promessi, è esausto per la sete. E Mosè fa di nuovo scaturire per lui l’acqua nel deserto dalla Roccia. Questo termine ci dice cos’è, sul piano spirituale, il sacramento della penitenza. Difatti, coloro che, dopo aver gustato dalla Roccia, si sono sviati verso il ventre, la carne e i piaceri degli Egiziani, sono condannati alla fame e vengono privati dei beni di cui godevano. Ma è data loro la possibilità di ritrovare con il pentimento la Roccia che avevano abbandonato e di riaprire per loro il rivolo d’acqua, per dissetarsi alla sorgente...

       Però il popolo non ha ancora imparato a seguire le tracce della grandezza di Mosè. È ancora attratto dai desideri servili e inclinato alle voluttà egiziane. La storia dimostra con ciò che la natura umana è portata a questa passione più che ad altre, accessibile com’è alla malattia per mille aspetti. Ecco perché, alla stregua di un medico che con la sua arte impedisce alla malattia di progredire, Mosè non lascia che il male domini gli uomini fino alla morte. E siccome i loro desideri sregolati suscitavano dei serpenti il cui morso inoculava un veleno mortale in coloro che ne restavano vittime, il grande Legislatore rese vano il potere dei serpenti veri con un serpente in effigie. Sarà però il caso di chiarire l’enigma. Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della religione. Ora, l’elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (Ga 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (Ps 118,120). Ora, il chiodo che trattiene la carne è la continenza. Poiché quindi il desiderio disordinato fa uscire dalla terra serpenti mortali - e ogni germoglio della concupiscenza cattiva è un serpente -, a motivo di ciò, la Legge ci indica colui che si manifesta sul legno. Si tratta, in questo caso, non del serpente, ma dell’immagine del serpente, secondo la parola del beato Paolo: "A somiglianza della carne di peccato" (Rm 8,3). E colui che si rivolge al peccato, riveste la natura del serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato da colui che ha preso su di se la forma del peccato, che si è fatto simile a noi che ci eravamo rivolti verso la forma del serpente; per causa sua la morte che consegue al morso è fermata, però i serpenti stessi non vengono distrutti. Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati, ma la concupiscenza che agisce nella loro carne (Ga 5,17) contro lo Spirito non è interamente distrutta. E, in effetti, i morsi del desiderio si fanno spesso sentire anche tra i fedeli; ma l’uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.

       Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo" (Jn 3,14).

venerdì 2 marzo 2018

Tempio e cuore


Rito Romano – III Domenica di Quaresima - Anno B – 4 marzo 2018
Es 20,1-17; Sal 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25


Rito Ambrosiano
Es 32,78-13b; Sal 105; 1Ts 2,20-3,8; Gv 8,31-59
Domenica di Abramo - III di Quaresima


1) Purificazione del Tempio.
Dopo averci condotti nel deserto dove Cristo vince la tentazione (I domenica di Quaresima), e sul Monte Tabor, dove la Gesù si manifesta come Luce da Luce (II domenica di Quaresima), la Liturgia della Parola della III domenica di Quaresima ci fa entrare con Gesù nel tempio di Gerusalemme per purificarlo.
Poiché trova “nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete” (Gv 2, 14), Cristo purifica questo luogo sacro con un gesto inaspettato, inatteso, quasi imprevedibile. Gesù prepara una frusta, con essa percuote le cose, ma non ferisce le persone, attraversa l’atrio dei gentili1 dove erano i mercanti del tempio, e - come un torrente impetuoso - travolge uomini, animali, tavoli e monete.
Scacciando mercanti e mercanzie dall’atrio, Cristo purifica il vecchio tempio, poi presenta se stesso come il nuovo tempio di Dio che gli uomini distruggeranno, ma che Dio farà risorgere in tre giorni. Lui è il Redentore, venuto ad illuminare l’uomo con la Luce della Verità, a purificare il tempio, a riaprire la ragione all’orizzonte grande di Dio e a dare un cuore puro all’uomo, perché sia il suo nuovo tempio. Lui è la Carità, che Crocifissa il Venerdì santo, vedremo splendere il giorno di Pasqua e accoglierci dentro il nuovo Tempio del Suo Corpo. 
Dunque, è da evitare un’interpretazione che cerchi di mettere in evidenza solo le conseguenze “morali” soprattutto per la Chiesa mettendola sotto accusa. Come ha giustamente ricordato Papa Francesco: “la Chiesa è sempre da riformare, ‘Ecclesia semper reformanda’, perché i membri della Chiesa sono sempre peccatori e hanno bisogno di conversione”. Quindi siamo noi che dobbiamo purificarci. La Chiesa è “il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui” (Benedetto XVI). La Chiesa rimane il luogo in cui Dio ci raggiunge; luogo della Presenza di Cristo nella storia, sarà sempre tale, fino alla consumazione dei tempi. Per questo dobbiamo amarla profondamente e guardarla per ciò che Essa è. il Tempio della misericordia e della condiscendenza di Dio, nel quale c’è posto per i peccatori, quindi c’è posto per ciascuno di noi che siamo chiamati a purificarci mediante le conversione. Soprattutto in questo tempo di Quaresima, siamo invitati a purificare il cuore con la domanda di misericordia, che si esprime in modo speciale con la confessione e che si pratica in particolare con l’elemosina.
A questo riguardo, Papa Francesco dice: “Vi faccio una confidenza personale. La sera, prima di andare a letto, io prego questa breve preghiera: “Signore, se vuoi, puoi purificarmi!”. E prego cinque “Padre nostro”, uno per ogni piaga di Gesù, perché Gesù ci ha purificato con le piaghe. Ma se questo lo faccio io, potete farlo anche voi, a casa vostra, e dire: “Signore, se vuoi, puoi purificarmi!” e pensare alle piaghe di Gesù e dire un “Padre nostro” per ognuna di esse. E Gesù ci ascolta sempre”.
Mettiamo in pratica questo invito del Papa unendolo ad opere di misericordiosa carità, con le quali “toccare” il povero. In effetti possiamo anche essere generosi, possiamo avere compassione, però di solito “il povero non lo tocchiamo, cioè non condividiamo con lui la nostra vita. Gli offriamo la moneta, la buttiamo lì, ma evitiamo di toccare la mano. E dimentichiamo che quello è il corpo di Cristo! Gesù ci insegna a non avere timore di toccare il povero e l’escluso, perché Lui è in essi. Toccare il povero può purificarci dall’ipocrisia e renderci inquieti per la sua condizione” (Papa Francesco, 22 giugno 2016).


2) Purificazione del cuore2
Dalla lettura del Vangelo di oggi nasce spontaneamente queste due domande:
  1. “Perché Gesù se la prende così tanto con i cambia valute e i venditori di animali per i sacrifici?”. Dopo tutto il loro era un servizio prezioso: cambiavano le monete agli stranieri permettendo loro di pagare il tributo al tempio
  2. “Cosa fa arrabbiare così tanto Gesù da spingerlo addirittura a fabbricarsi una frusta per scacciare dal tempio i commercianti?”
In questo gesto apparentemente esagerato, il Figlio di Dio è animato dal desiderio che la casa del Padre non diventi un casa di mercato, un emporio (è il nome che viene dal greco per dire mercato e che è usato nel vangelo di oggi) del sacro, un luogo religioso di scambi tra domanda e offerta a Dio.
Quello che addolora Gesù è vedere la degenerazione di un luogo religioso causata da una logica di mercanteggio del sacro, come se Dio potesse essere comperato. E’ davvero una riduzione meschina di Dio. Invece di adorare Dio, Amore gratuito, con offerte che mostrano una riconoscenza per questo amore provvidente, c'è un grave impoverimento del volto di Dio, che è Amore gratuito. Dio Padre non è un funzionario da corrompere o un venditore da tener buono con una abbondante donazione. Con Dio, insomma, non si può mercanteggiare.
Da un Dio lontano e da piegare alla nostra volontà con sacrifici e preghiere siamo chiamati ad andare al Padre che ci ama e anticipa ogni nostro desiderio: questa è la conversione vera. A questo riguardo, accogliamo l’invito di San Paolo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12, 2).
Purificando con la frusta il Tempio e scacciando da esso gli animali, Cristo indica che il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, che spesso degenerava in un mercato, è ora sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce.
Purifichiamo noi stessi, nuovo e definitivo Tempio di Dio e mettiamo in pratica l’invito di San Paolo che anche a noi dice: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).
E quando i nostri corpi possono essere offerti a Dio come sacrificio vitale? Quando siamo santi e graditi al Dio della vita?
Quando abbiamo un cuore puro, perché purificato da Dio con il suo perdono unito alla sua verità ed al suo amore, e quando riconosciamo che i nostri corpi sono membra di Cristo e, quindi, non apparteniamo a noi stessi, ma al Dio di misericordia e di bontà.
Un esempio molto significativo di ciò è quello dato dalle vergini consacrate. Con il “propositum” della verginità, queste donne testimoniano come la loro casta scelta sia saggia e feconda e fonte di maturità.
Di maturità perché si realizza il dominio di sé. Questo non consiste solo nel governare le proprie passioni con la forza. Il dominio di sé evangelico sta nel consegnarsi con fiducia a chi ci ha creati, ci ama e ci conosce meglio di noi stessi. È fare spazio dentro sè stessi alla signoria di Cristo, cioè sentirsi amati da Lui e desiderare di crederGli e di ricambiarLo osservando quanto ci chiede.
Di fecondità perché La verginità cristiana rende la persona così attraente che lo Spirito Santo scende per abitarvi, come ha fatto con la Madonna, rendendola Madre.
Di saggezza perché gli occhi del cuore purificato sono occhi nuovi per vedere il mondo e Dio al di là delle apparenze. Sono occhi limpidi che sanno scorgere ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è verità e ciò che è menzogna, ciò che è vita e ciò che è morte. Occhi, insomma, come quelli di Gesù… La purezza non consiste più, allora, nel dire «no» alle creature, ma nel dire ad esse “sì”, sì in quanto creature di Dio che erano, e restano, “molto buone” perché create da Lui. Per poter dire questo “sì”, bisogna tuttavia passare attraverso la croce perché, dopo il peccato, il nostro sguardo sulle creature si è intorpidito.


1 Entrato nel tempio, Gesù vede che lo spazio chiamato “atrio dei gentili”, in quanto riservato ai non-ebrei che volevano conoscere la fede e il culto di Israele e “avvicinarsi” al Signore (cfr. Is 45,20), è stato trasformato in luogo di commercio, di vendita degli animali per i sacrifici. Sappiamo inoltre che lì i cambiavalute scambiavano le monete per consentire ai pellegrini di pagare il tributo al tempio, e che molti attraversavano quel cortile per accorciare il cammino verso la valle del Cedron. Insomma, un luogo che Dio aveva voluto come “casa di preghiera per tutte le genti” (Is 56,7) era diventato un luogo di mercato.

2  Biblicamente il cuore non dice soltanto slancio e amore, ma anche ragione, pensiero e volontà. La castità è un preciso modo di vivere tutto ciò: i sentimenti, i pensieri, l’amore, l’intelligenza.


Lettura patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 - 430)
Comment. in Ioan., 10, 4.6



 "Ed essendo prossima la Pasqua dei giudei, Gesù salì a Gerusalemme". L’evangelista racconta poi un altro fatto, così come se lo ricordava: "E trovò nel tempio venditori di buoi, di pecore e di colombe, e cambiavalute seduti al banco, e fatta una sferza di funicelle li cacciò tutti dal tempio con le pecore ed i buoi; e sparpagliò la moneta dei cambisti e rovesciò i loro banchi. E ai venditori di colombe intimò: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio una casa di traffico» (Jn 2,13-16).

       Che cosa abbiamo ascoltato, fratelli? Quel tempio era ancora una figura, e purtuttavia da esso il Signore cacciò tutti coloro che eran venuti a fare i loro interessi, come a un mercato. Che cosa vendevano costoro? Le vittime di cui gli uomini avevano bisogno per i sacrifici di quel tempo. Sapete bene che i sacrifici rituali dati a quel popolo, e per la sua mentalità carnale e per il suo cuore ancora di pietra, erano tali che lo trattenessero dal precipitare nell’idolatria; e nel tempio questo popolo immolava i suoi sacrifici, buoi, pecore e colombe. Lo sapete bene, perché lo avete letto. Non era, quindi, un gran peccato vendere nel tempio ciò che si acquistava per essere offerto nel tempio stesso; eppure, Gesù li cacciò. Che avrebbe fatto, il Signore, qualora avesse trovato nel tempio degli ubriachi, se cacciò coloro che vendevano ciò che era lecito e non era contro giustizia (infatti, è lecito vendere ciò che è lecito comprare), e se non tollerò che la casa della preghiera si trasformasse in un mercato? Se la casa di Dio non deve diventare un mercato, può diventare una taverna?...

       Chi sono, poi, quelli che nel tempio vendono i buoi? Cerchiamo di capire nella figura il mistero racchiuso in questo fatto. Chi sono quelli che vendono le pecore e le colombe? Sono coloro che nella Chiesa cercano i loro interessi e non quelli di Cristo (
Ph 2,21).

       Quelli che non vogliono essere redenti, considerano ogni cosa come roba d’acquisto: non vogliono essere acquistati, quel che vogliono è vendere. Eppure, niente di meglio, per loro, che essere redenti dal sangue di Cristo e giungere così alla pace di Cristo. Del resto, a che serve acquistare, in questo mondo, beni temporali e transitori, siano il denaro siano i piaceri del ventre e della gola siano gli onori della lode umana? Che altro sono, tutte queste cose, se non fumo e vento? e passano tutte, corrono via. Guai a chi si sarà attaccato alle cose che passano, perché insieme passerà anche lui. Non sono, tutte queste cose, un fiume precipite che corre al mare? Guai a chi vi cade dentro, perché sarà trascinato nel mare. Insomma, dobbiamo trattenere i nostri affetti da simili concupiscenze.