II
Domenica di Avvento – Anno A – 4 dicembre 2016
Rito
Romano
Is
11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12
Rito
Ambrosiano
Is
40,1-11; Sal 71; Eb 10,5-9a; Mt 21, 1-9
IV
Domenica di Avvento
L’ingresso
del Messia
1)
Attesa di Dio e conversione.
In
questa seconda domenica di Avvento, la liturgia ci invita alla
conversione che è necessaria per accogliere il Regno dei cieli1
che si avvicina: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è
vicino” (Mt 3,1). Questo Regno dei cieli è Gesù stesso,
quindi il “vicino” è il Figlio di Dio che si fa carne nel grembo
di una donna e porta a tutta l’umanità la salvezza. Questa
salvezza portata da Cristo e attesa da noi é giustizia, gioia, pace,
amore, verità, benevolenza, solidarietà, fratellanza rettitudine,
bontà.
Poiché
la venuta di Dio nella nostra vita è imminente, Giovanni il Battista
ci chiede con energia di dedicarci alla penitenza che purifica il
cuore, lo apre alla speranza e lo rende capace all’incontro con
Gesù che viene nel mondo.
Va
però tenuto presente che l’invito alla conversione facendo
penitenza non vuol dire solo vivere - durante l’avvento - con uno
stile di vita più sobrio, con una preghiera più frequente e una
carità più generosa. La conversione chiama ad un cambiamento
interiore, che inizia con il riconoscimento e la confessione del
proprio peccato. In effetti, convertirsi indica il cambiamento della
mente e quello del comportamento ed esige il riconoscimento di non
essere degni che Dio venga ad abitare a casa nostra.
Va
pure tenuto presente che la prima conversione consiste nella
fede2,
che non è solo adesione al contenuto di un messaggio, ma
adesione ad una Persona, che ci chiede di venire nella nostra
vita e di essere accolta. Dunque, la conversione è un radicale e
profondo cambiamento dell’uomo. Essa non implica soltanto un
cambiamento morale, ma un cambiamento teologico, cioè un modo nuovo
di pensare Dio e di vivere in Lui. E’ un orientamento nuovo di
tutta la nostra persona: mente e cuore, pensiero ed azione.
Da
un lato, questo orientamento a Regno dei cieli si colloca nella linea
dei profeti che intendevano la concretezza della conversione nel
distacco radicale da tutto ciò che finora aveva un valore.
Dall’altro, va oltre e mostra che la conversione è un volgersi
verso il Regno dei cieli, verso una novità che si presenta imminente
con le sue esigenze e prospettive. Si tratta di dare una svolta
decisiva alla vita orientandola in una nuova direzione: il Regno dei
cieli fonda e definisce la conversione e non una serie di sforzi
umani.
Perché
questa conversione avvenga, facciamo nostra la preghiera che il
Sacerdote fa all’inizio della Messa di oggi: “Dio dei viventi,
suscita in noi il desiderio di una conversione, perché rinnovati dal
tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la
giustizia, la mitezza e la pace, che l'incarnazione del tuo Verbo ha
fatto germogliare sulla terra. Per il nostro Signore Gesù Cristo
nostro Signore” (Colletta della II Domenica di Avvento –
Anno A). Allora si realizzerà l’augurio di San Paolo: “Il Dio
della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è
vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la
venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele
e farà tutto questo” (1 Ts 5, 23-24)
2)
Conversione dall’alto delle stelle e conversione verso l’alto.
In
questa domenica siamo chiamati ad andare spiritualmente nel deserto,
perché il Vangelo di oggi ci fa ascoltare la “Voce di uno
che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i
suoi sentieri! E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di
cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano
cavallette e miele selvatico” (Mt 3, 3-4). San Giovanni
Battista, la voce che annuncia la Parola, è presentato come un
asceta del deserto, che indossa ruvide vesti, ha una cintura di pelle
attorno ai fianchi e si nutre di insetti. Ma se non ci è chiesto di
essere asceti vivendo la sua stessa vita nel deserto, ci è chiesto
la nostra conversione sia evangelica come la sua.
Questa
conversione ha almeno tre caratteristiche.
La
prima è la radicalità. La conversione non è un cambiamento
esteriore o parziale, ma un riorientamento totale di tutto l'essere
dell’uomo. Si tratta di un vero e proprio passaggio dall’egoismo
all'amore, dal trattenere tutto per sé al dono di sé.
La
seconda caratteristica è la religiosità: non è confrontandosi con
se stesso che l'uomo scopre la misura e la direzione del proprio
mutamento, ma riferendosi a Dio. La prima conversione (nel
senso etimologico di voltarsi verso per essere con) non è quella
della persona umana verso Dio, ma quella di Dio verso ogni
essere umano. E’ un movimento di grazia che rende possibile il
cambiamento dell'uomo e ne offre il modello. Nella notte e nella
solitudine di una grotta sta per arrivare la primavera dell’umanità:
il Figlio di Dio che si fa pellegrino dall’alto delle stelle.
La
terza caratteristica della conversione evangelica è la sua profonda
umanità. Convertirsi significa tornare a casa, un ricupero di
umanità integrale, un ritrovare la propria identità di figlio, come
accade nella parabola del figlio prodigo.
Ragionando
in modo non evangelico la conversione è vista come una perdita di
ciò che è umano e –sbagliando- si pensa che la persona umana si
ritrova non convertendosi a Cristo, E vero il contrario:
convertendosi l’uomo non si perde, ma si ritrova, liberandosi dalle
alienazioni che lo affascinano ma lo distruggono.
La
conversione è un cammino costante verso Cristo per rinnovare di
continuo la nostra “condotta celeste”, per mezzo di un nuovo
desiderio del cielo. Rendiamo quindi diverso (cambiato) il nostro
cuore con il santo desiderio di Cristo in questo modo il Cielo
(Cristo) vi troverà più spazio.
Se
vogliamo che la vita cresca, fiorisca e giunga a maturazione, per
squarciare, un giorno, i veli della caducità. Allora la cosa più
importante è che questa vita metta radici sempre più profonde. Se
vogliamo che la pienezza di Dio ci riempia di grazie è fondamentale
che il nostro cuore si allarghi sempre di più, per contenere sempre
di più.
La
condotta cristiana, dunque pienamente umana, diventa più perfetta
quando sgorga da un più robusto desiderio del cielo: “Vieni,
Signore, per visitarci nella pace, perché ci allietiamo in Te con
cuore perfetto” (cfr. Antifona al Magnificat, primi Vespri della
II Domenica di Avvento).
Questa
domanda: “Vieni, Signore Gesù” deve essere fatta da tutti i
cristiani e la vergine consacrate nel mondo con il dono totale di sé
a Cristo ce ne danno un esempio bello, grande e generoso. Sono
consapevoli che lo sposo cerca la sua diletta ed ella veglia in sua
attesa e fanno proprio questo brano del Cantico dei Cantici: “Una
voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per
le colline. L’amato mio somiglia a una gazzella o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia
dalle inferriate” (2,8-9) . Mi sono addormentata, ma veglia il mio
cuore. Un rumore! La voce del mio amato che bussa: “Aprimi, sorella
mia, mia amica, mia colomba” (5,2). “Io sono del mio amato e il
mio amato è mio” (6,3).
Con
la loro consacrazione queste donne vergini mostrano come sia
possibile e fonte di gioia accogliere Cristo come un ospite
dolcemente atteso, come lo sposo a cui dedicare per sempre la propria
fedeltà. Esse ci mostrano con umiltà che è possibile tenere sempre
accese le lampade, aspettando con amore la venuta del Salvatore.
A
partire dal loro esempio auguro che non solo in questo tempo di
Avvento ma tutti cerchiamo di essere sempre attenti alla voce di
Cristo e di amarlo sopra tutte le cose.
1 “Regno dei cieli” è una tipica espressione di San Matteo, che la usa trentatré volte nel suo vangelo. E’ un modo di dire ebraico che, in segno di rispetto, sostituisce “cieli” al nome di Dio. L’espressione “Regno dei cieli” sta a indicare che Dio si rivelerà a tutti gli uomini e con grande potenza: la potenza dell’Amore che si dona e non domina.
Lettura
Patristica
In
Matth. 2, 2-4
In
quei giorni venne Giovanni a predicare nel deserto della Giudea,
dicendo: "Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino",
ecc. In Giovanni bisogna esaminare il luogo, la predicazione, il
vestito, il cibo, e ciò per ricordarci che la verità dei fatti non
è compromessa, se la ragione di una intelligenza interiore soggiace
al compimento dei fatti. Avrebbe potuto esserci, per lui che
predicava, un luogo più opportuno, un vestito più comodo e un cibo
più appropriato, ma sotto i fatti c’è un esempio nel quale l’atto
compiuto è di per sé una preparazione. Giunge infatti nel deserto
della Giudea, regione deserta quanto alla presenza di Dio, non del
popolo, e vuota quanto all’abitazione dello Spirito Santo, non
degli uomini, di modo che il luogo della predicazione attestava
l’abbandono di coloro ai quali la predicazione era stata
indirizzata. Siccome il regno dei cieli è vicino, egli lancia anche
un invito a pentirsi, grazie al quale si torna indietro dall’errore,
ci si distoglie dalla colpa e ci si impegna a rinunziare ai vizi dopo
averne arrossito, perché egli voleva che la deserta Giudea si
ricordasse che doveva ricevere colui nel quale si trova il regno dei
cieli, per non essere più vuota in futuro, a condizione di essersi
purificata dai vizi di un tempo mediante la confessione del
pentimento. La veste intessuta anche con peli di cammello sta a
indicare la fisionomia esotica di questa predicazione profetica: è
con spoglie di bestie impure, alle quali siamo pareggiati, che si
veste il predicatore di Cristo; e tutto ciò che in noi era stato in
precedenza o inutile o sordido è reso santo dall’abito di profeta.
Il circondarsi di una cintura è una disposizione efficace per ogni
opera buona, nel senso che abbiamo la nostra volontà cinta per ogni
forma di servizio a Cristo. Per cibo inoltre egli sceglie delle
locuste che fuggono davanti all’uomo e che volano via ogni volta
che ci sentono arrivare: siamo noi, quando ci allontaniamo da ogni
parola dei profeti e da ogni rapporto con essi lasciandoci
analogamente portar via dai salti dei nostri colpi. Con una volontà
errante, con opere inefficaci, con parole lamentose, con una dimora
da stranieri, noi siamo ora quel che costituisce il nutrimento dei
santi e l’appagamento dei profeti, essendo scelti nello stesso
tempo del miele selvatico per fornire proveniente da noi, il cibo più
dolce, estratto non dagli alveari della Legge, ma dai nostri tronchi
di alberi silvestri.
Predicando
dunque in quest’abito, Giovanni chiama i Farisei e i Sadducei che
vengono al battesimo "razza di vipere": li esorta a
produrre un "frutto degno di penitenza" e a non
gloriarsi di "avere Abramo per Padre", perché Dio,
da pietre, è capace di suscitare figli ad Abramo. Non è richiesta
infatti la discendenza carnale, ma l’eredità della fede. Pertanto
il prestigio della discendenza consiste nel carattere esemplare delle
azioni e la gloria della razza è conservata dall’imitazione della
fede. Il diavolo è senza fede, Abramo ha la fede; l’uno infatti ha
dimostrato la sua cattiva fede al tempo della disobbedienza
dell’uomo, l’altro invece è stato giudicato mediante la fede. Si
acquisiscono dunque i costumi e il genere di vita dell’uno o
dell’altro grazie all’affinità di una parentela che fa sì che
quanti hanno la fede sono discendenza di Abramo per la fede, e quanti
non l’hanno sono mutati in progenie del diavolo per l’incredulità,
giacché i Farisei sono chiamati razza di vipere e il gloriarsi di
avere un padre santo è loro vietato, giacché da pietre e rocce
sorgono figli ad Abramo ed essi sono invitati a produrre frutti degni
di penitenza, di modo che coloro che avevano avuto prima per padre il
diavolo ridiventino figli d’Abramo per la fede con quelli che
sorgeranno dalle pietre. La scure posta alla radice degli alberi
testimonia il diritto della potenza che agisce in Cristo, perché
essa indica che, abbattendo e bruciando gli alberi sterili, si
prepara la rovina dell’inutile incredulità in vista della
conflagrazione del giudizio. E col pretesto che l’opera della legge
era ormai inutile per la salvezza e che egli si era presentato come
messaggero a coloro che dovevano essere battezzati in vista del
pentimento il dovere dei profeti, infatti, consisteva nel distogliere
dai peccati, mentre era proprio di Cristo salvare i credenti,Giovanni
dice che egli battezza in vista del pentimento, ma che verrà uno più
forte, i cui sandali egli non è degno di incaricarsi di portare,
lasciando agli apostoli la gloria di portare ovunque la predicazione,
poiché ad essi era riservato di annunciare coi loro bei piedi la
pace di Dio. Fa dunque allusione all’ora della nostra salvezza e
del nostro giudizio, quando dice a proposito del Signore: "Egli
vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco" - poiché a quanti
sono battezzati in Spirito Santo resta di essere consumati dal fuoco
del giudizio - "e avendo in mano il ventilabro, pulirà la
sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula
con un fuoco inestinguibile". L’opera del ventilabro
consiste nel separare ciò che è fecondo da ciò che non lo è.
Messo nella mano del Signore, indica il verdetto della sua potenza
che calcina col fuoco del giudizio il grano che deve essere riposto
nei granai e sono i frutti giunti a maturità dei credenti e, d’altra
parte, la pula, vacuità degli uomini inutili e sterili.
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