II Domenica di
Quaresima - Anno B – 1 marzo 2015.
Rito Romano
Gen
22,1-2.9.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31-34; Mc 9,2-101.
Rito Ambrosiano – II
Domenica di Quaresima – “della Samaritana”
Dt 5,1-2. 6-21; Sal 18;
Ef 4,1-7; Gv 4, 5-422.
1) Quaranta
giorni per trasfigurarci.
Può sembrare strano
che la Liturgia di oggi, II Domenica di Quaresima, ci proponga il
brano del Vangelo di San Marco, che racconta la trasfigurazione di
Gesù sul monte Tabor. Quindi è importante capire qual è il senso
della Trasfigurazione nel contesto del tempo quaresimale.
Il senso di questa
manifestazione di Gesù per Pietro, Giacomo e Giovanni non fu quello
di dare spettacolo di sé, ma di imprimere nella mente e nel cuore
dei discepoli un’immagine vera di se stesso, un’icona così
gloriosa e potente al punto tale di poter mostrare che Gesù è
Figlio unico e immensamente amato Dio e realizzatore del suo progetto
di salvezza, anche e soprattutto nella povertà, nella sofferenza,
nella passione e morte in Croce. Occorreva preparare un gruppo scelto
di testimoni che resistessero validamente alle prove imminenti della
sua passione ed allo scandalo della sua crocifissione e morte. Quindi
la Trasfigurazione non fu uno spettacolo, ma un allenamento della
fede in vista delle prove imminenti.
Il senso della
Trasfigurazione di Gesù per noi è uguale a quello dei tre Apostoli.
Per spiegare tale significato, prendo in prestito le parole di San
Leone Magno: “(Il Signore) dava un fondamento solido alla speranza
della santa Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse
coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e anche
perché le membra si ripromettessero la partecipazione a quella
gloria che era brillata nel Capo. Di questa gloria lo stesso Signore,
parlando della maestà della sua seconda venuta, aveva detto: Allora
i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro, e la
stessa cosa affermava anche l'apostolo Paolo dicendo: Io ritengo che
le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria
futura che dovrà essere rivelata in noi. E in un altro passo: Voi
infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in
Dio. Quando si manifesterà il Cristo, vostra vita, allora anche voi
sarete manifestati con lui nella gloria.” (Disc. 51, 3-4. 8; PL 54,
310-311. 313).
Ma mi si potrebbe far
presente che tutto ciò vale sempre. Perché dunque meditare e
contemplare la Trasfigurazione nel tempo quaresimale?
Perché è proprio in
Quaresima - che dovrebbe essere tempo di penitenza, per essere degni
di capire e giungere alla pienezza della gioia, che è la Pasqua di
Resurrezione - che occorrono le “certezze” che i sacrifici che
facciamo, per la nostra conversione, non sono scelte inutili, ma
portano alla gloria.
Inoltre, va tenuto
presente che la Quaresima è il tempo in cui il Cristo vuole rivivere
in noi il mistero della sua trasfigurazione3:
trasfigurarci a sua immagine e somiglianza.
2) Salire sul
monte per trasfiguraci.
All’inizio della
vita pubblica di Gesù ci fu il battesimo; all’approssimarsi della
Sua passione e risurrezione ci fu la trasfigurazione. Col battesimo
di Gesù “fu manifestato il mistero della prima rigenerazione: il
nostro Battesimo”; la trasfigurazione fu il sacramento della
seconda rigenerazione: la nostra risurrezione” (San Tommaso
d'Aquino, Summa theologiae, III, 45, 4, ad 2). Fin d’ora noi
partecipiamo alla risurrezione del Signore mediante lo Spirito Santo
che agisce nel sacramento del corpo di Cristo. La trasfigurazione ci
offre un anticipo della venuta gloriosa di Cristo “il quale
trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo
glorioso” (Fil 3,21). Ma ci ricorda anche che “è
necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di
Dio” (At 14,22): “Pietro non lo capiva ancora quando sul
monte desiderava vivere con Cristo” (Lc 9,33). “Questa
felicità Cristo te la riservava dopo la morte, o Pietro. Ora invece
egli stesso ti dice: Discendi ad affaticarti sulla terra, a servire
sulla terra, a essere disprezzato, a essere crocifisso sulla terra. È
discesa la vita per essere uccisa; è disceso il pane per sentire la
fame; è discesa la via, perché sentisse la stanchezza del cammino;
è discesa la sorgente per aver sete; e tu rifiuti di soffrire?
(Sant'Agostino, Sermo 78, 6: PL 38, 492-493).
Quale luogo dove
incontrare Dio che discende dal cielo non è solo il deserto, che
anche il monte, dove Dio si manifesta.
Credo che sia utile
ricordare i monti della rivelazione dell'Antico Testamento:
il monte Oreb,
dove Dio si rivelò a Elia non è nel vento che spacca la roccia, non
nel fulmine, nella folgore, non nel terremoto che sommuove la terra,
ma semplicemente “un mormorio di vento leggero”; dove Mosè vide
il cespuglio ardente che non si consumava, vide il fuoco di Dio e
ascoltò la Sua voce.
Il monte Carmelo,
il monte di Elia, il monte della sfida con l'idolatria (cfr 1 Re,
18),
Il monte Sinai,
dove Dio incontrò Mosè e gli diede le tavole della legge,
Il monte Moria
– Sion, dove Abramo avrebbe dovuto sacrificare suo
figlio Isacco e dove Dio Padre “fece” morire Suo Figlio quale
Agnello immacolato. Dove Salomone fece costruire il Tempio4.
Luogo dell'intreccio delle mani di Dio e dell'uomo attraverso il
santuario.
Richiamiamo alla mente
i vari monti della vita di Gesù:
il monte della
Tentazione,
il monte delle
Beatitudini (il Sinai cristiano),
il monte della
Preghiera, luogo di dialogo,
il monte della
Trasfigurazione, il Tabor,
il monte
dell’Angoscia, il monte degli Ulivi,
il monte Calvario, il
monte della croce e infine
il monte
dell’Ascensione.
La Trasfigurazione
avvenuta sul Tabor permette di accettare, capire e condividere quanto
è avvenuto sul Calvario, che è, sì, il monte della morte ma anche
il monte della vita. Il monte sul quale Gesù è stato crocifisso è
il monte dell’umanità che uccide colui che è venuto a salvarla, è
il luogo della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al
punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della
tristezza, del silenzio di Dio (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”). Ma il Calvario è anche il luogo nel quale il
Vangelo di Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della
resurrezione di Cristo. Credo sia legittimo affermare che il Calvario
è già anche il monte dell'ascensione, è già il monte degli Ulivi,
è il monte anche della glorificazione, dell'esaltazione, della
speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue
e monte della gloria e dell'infinito. A questo punto penso che
possiamo capire come il Calvario riesca a riassumere questi due
aspetti fondamentali: 1- sul monte c’è Dio che noi cerchiamo, 2 -
però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica
ascendiamo.
E, non
dimentichiamolo, per ascendere ci vuole l’ascesi5,
che non vuol dire in primo luogo “penitenza”, perché
etimologicamente significa “esercizio”. Pensiamo per esempio
all'atleta che riesce a battere record con estrema facilità perché
alla base c’è un esercizio (= ascesi) che alla fine diventa
vittoria.
Questa è l’ascesi,
che è senza dubbio fatica, esercizio impegnativo, ma alla fine fa
arrivare alla meta desiderata e diventa anche esperienza di libertà.
Quindi approfittiamo
del tempo di Quaresima per vivere questa ascesi come un “cammino”
di conversione
realizzato nella preghiera, nel digiuno e nella
carità,
per progredire nell'amore di Dio e ai fratelli.
Questa conversione può
essere chiamata anche trasfigurazione. Ciò che noi indichiamo come
trasfigurazione è chiamato nel greco del Nuovo Testamento
“metamorfosi” (“trasformazione”), e questo fa emergere un
fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto
lontano, che in prospettiva può accadere. Nel Cristo trasfigurato si
rivela molto di più ciò che è la fede: trasformazione, che
nell’uomo avviene nel corso di tutta la vita.
Dal punto di vista
biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne che
si conclude con la morte. Vivere significa morire, implica una
metamorfosi verso la morte. La trasfigurazione del Signore vi
aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere.
Dal punto di vista
spirituale la fede è una metamorfosi, nella quale l’uomo matura
nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo
l’evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione,
fondendo la trasfigurazione e la croce: nell’ultima liberazione da
se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.
La trasfigurazione
promessa dalla fede come metamorfosi dell’uomo è anzitutto cammino
di purificazione, cammino di sofferenza, ma non solo. Il cammino che
dopo la Trasfigurazione Gesù fa verso Gerusalemme, verso la croce, è
un cammino di gloria. Se uno lo vede dall’esterno dice: è un
cammino di sofferenza e di sconfitta, perché termina nella croce. La
trasfigurazione invece dice che è un cammino di gloria, che passa
dal Calvario ma si conclude sul monte dell’Ascensione.
È molto significativo
il fatto che il racconto della trasfigurazione ci sia nel Vangelo di
San Matteo, di San Marco e di San Luca, ma non in quello di San
Giovanni. Mentre se c’è un episodio giovanneo è proprio quello
della trasfigurazione. Perché San Giovanni non l’ha ricordato?
Secondo me non la fatto per questa ragione: perché l’Apostolo
prediletto racconta la vita di Gesù come esistenza di un
trasfigurato. Per esempio se ripensiamo all’incontro con i primi
discepoli vi si trova un Gesù glorioso (cfr. Gv 1, 34). Se
contempliamo l’episodio delle nozze di Cana con il miracolo della
trasformazione dell’acqua in vino, vi troviamo un Gesù glorioso:
“videro la sua gloria” (cfr. Gv 2, 11). Andate a
Gerusalemme per la purificazione del tempio e trovate ancora Gesù
glorioso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo
riedifico» (Gv 2, 19), evidentemente quello di cui parla è il
suo corpo glorioso. Cioè la trasfigurazione è diventata in san
Giovanni una chiave di interpretazione di tutto; non è più un
episodio, un momento particolare che sta prima del viaggio verso
Gerusalemme. Nel Vangelo di san Giovanni è diventato il criterio per
capire tutti gli avvenimenti della vita di Gesù. Quindi, la
trasfigurazione deve diventare una chiave di lettura della nostra
vita come lo è per la vita di Cristo.
Forse è per questo
che quando i monaci della tradizione orientale incominciano a
scrivere le icone, dicono: la prima icona da scrivere (questo è il
verbo usato per “fare” le icone) è la Trasfigurazione. Prima di
dipingere l’icona debbono pregare e digiunare, quindi deve
diventare un atto religioso. L’icona deve uscire dalla
contemplazione. La prima icona che devono fare è la Trasfigurazione,
cioè debbono fare vedere la gloria di Dio nei colori, nei disegni e
nella scrittura dell’icona. Se riescono fare quello, possono fare
qualunque altra icona, altrimenti rimane semplicemente un disegno
esterno, cioè una riproduzione degli avvenimenti dal punto di vista
esterno; ma l’icona non è questa. L’icona vuole trasfigurare il
legno, i colori e la figura in modo che possa aiutare ed esprimere la
contemplazione. Proprio per questo bisogna partire dalla
trasfigurazione.
Concludo con due
suggerimenti.
Il primo è quello di
elevare a Dio la Preghiera prima di iniziare a scrivere un’icona,
perché la nostra persona scriva nella sua vita quotidiana l’icona
di Cristo: “Concedimi, Signore Gesù Cristo, una mente e un
cuore puri come il cristallo e roventi come il tuo amore;
preparami, Maestro, per una fruttuosa meditazione; allontana
da me i pensieri inutili, i turbini della mente e le insidie del
maligno, poiché Tu sei la Via, la Vita e la Verità. Ti
prego, Signore, fa del mio intelletto uno splendido specchio di
diamante, perché in esso si rifletta la luce perenne della Trinità
Santa. E tu Sofia, e tu Vergine Madre, e voi Santi
Apostoli, e voi Pietro e Paolo, assistete la mia trasmutazione, oggi,
domani e sempre. Amen”.
Il secondo è di
guardare l’esempio delle Vergine Consacrate nel mondo.
Queste donne hanno
preso sul serio l’invito a vivere “La contemplazione della gloria
del Signore Gesù nell'icona della Trasfigurazione che rivela a loro
innanzitutto il Padre, creatore e datore di ogni bene, che attrae a
sé (cfr Gv 6, 44) una sua creatura con uno speciale amore e
in vista di una speciale missione. “Questi è il Figlio mio
prediletto: ascoltatelo!” (Mt 17, 5). Assecondando
quest’appello accompagnato da un’interiore attrazione, la persona
chiamata si affida all'amore di Dio che la vuole al suo esclusivo
servizio, e si consacra totalmente a Lui e al suo disegno di salvezza
(cfr 1 Cor 7, 32-34). (S. Giovanni Paolo II, Vita
Consecrata, n. 17)
Qui sta il senso della
vocazione alla vita consacrata: un'iniziativa tutta del Padre (cfr Gv
15, 16), che richiede da coloro che ha scelti la risposta di una
dedizione totale, esclusiva e trasfigurante.
1
“Sei
giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li
condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato
davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime:
nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E
apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la
parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui;
facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne
una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E
improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se
non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro
di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che
il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra
loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
(Mc
9, 2-10)
2
“In
quel tempo. Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria
chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe
suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque,
affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa
mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice
Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a
fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come
mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna
samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui
che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli
ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai
un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua
viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci
diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo
sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più
sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui
una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore
– gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia
più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice:
«Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la
donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io
non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai
ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la
donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno
adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il
luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna,
viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete
il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che
conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora –
ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che
lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare
in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire
il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni
cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».” (Gv
4,
5-34).
3
Il significato generale
della Trasfigurazione è riassunto in un breve versetto, tratto
dall’Esperinòs della liturgia bizantina: “In questo giorno, sul
Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola
illuminata, la divinizzò”. La semplicità di queste poche parole,
come quelle del racconto evangelico, hanno una profondità
straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come
in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una
prefigurazione. Questi due elementi appaiono con altrettanta
evidenza e forza anche a Pasqua. La Trasfigurazione di nostro
Signore Gesù Cristo trasferisce l’esistenza umana nella
dimensione gloriosa, mostrando ai tre apostoli vivi dinanzi ai due
profeti defunti l’attualità illuminata del passato e
dell’avvenire. La Trasfigurazione rivela così il senso intimo del
cristianesimo: Il Dio-uomo mostra loro l’uomo divinizzato.
4
È molto bello il termine
con cui viene definito nella Bibbia il Tempio;
di per sé è il termine che viene usato quando si parla del
santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico 'ohel
mo'ed, cioè "la
tenda dell'incontro", naturalmente la tenda dell'incontro degli
Ebrei tra di loro: è, infatti, il luogo dell'assemblea, qahal
in ebraico, l'assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo
dell'incontro e dell'abbraccio dell'uomo con Dio.
5
Dal
latino ascesis
che deriva dal greco ἄσκησις
derivazione di ἀσκέω
cioè “esercitare”. La definizione che se ne dà è: “esercizio”
o “pratica” spirituale e fisica, composta di preghiera,
meditazione e varie attività anche fisiche per tendere alla
perfezione interiore, per distacco dal mondo materiale per ascendere
verso il Cielo. Il giudizio sulla realtà senza preconcetti
alienanti, irragionevoli, richiede un «distacco da sé» (cfr. Lc
17,33), un lavoro faticoso che, nella tradizione religiosa, si
chiama ascesi,
e che può essere realizzato solo dalla persuasione dell’«amore
a noi stessi come destino,
come affezione al nostro destino,
che è Dio.
Lettura Patristica
San Leone Magno, Papa
Sermo 38, 4-8
La Trasfigurazione,
manifestazione del «Figlio diletto»
Per
gli apostoli, che invero avevano bisogno di essere rafforzati nella
fede e di essere iniziati alla conoscenza di ogni cosa, da quel
miracolo scaturisce un altro insegnamento. In effetti, Mosè ed Elia,
ossia la Legge e i Profeti, apparvero intrattenendosi con il Signore:
ciò affinché si compisse perfettamente, attraverso la presenza di
cinque persone, quanto è scritto: "Ogni
parola è certa, se pronunciata in presenza di due o tre testimoni"
(Dt
19,15
Mt
18,16).
Per proclamarla, la duplice tromba dell’Antico e del Nuovo
Testamento risuona in pieno accordo e tutto ciò che serviva a darle
testimonianza nei tempi antichi si ricongiunge con l’insegnamento
del Vangelo! Le pagine dell’una e dell’altra Alleanza, infatti,
si confermano vicendevolmente, e colui che gli antichi simboli
avevano promesso sotto il velo dei misteri, lo sfolgorio della sua
gloria presente lo mostra manifesto e certo: si è che - come afferma
san Giovanni -: "La
legge fu data da Mosè, ma la grazia e la verità ci sono venute da
Gesù Cristo"
(Jn
1,17),
nel quale si sono compiuti tanto le promesse delle figure profetiche,
tanto il significato dei precetti della Legge; infatti, con la sua
presenza, egli insegna la verità della profezia, e, con la sua
grazia, rende possibile la pratica dei comandamenti.
Animato
dalla rivelazione dei misteri e preso dal disprezzo e dal disgusto
delle terrene cose, l’apostolo Pietro era come rapito in estasi nel
desiderio di quelle eterne, e, ripieno del gaudio di tutta quella
visione, desiderava abitare con Gesù là dove la di lui gloria si
era manifestata, costituendo la sua gioia. Ecco perché disse:
"Signore,
è bello per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per
te, una per Mosè e una per Elia"
(Mt
17,4).
Ma il Signore non rispose a tale suggerimento, certo non per mostrare
che quel desiderio era cattivo, bensì per significare che era fuori
posto, non potendo il mondo essere salvato senza la morte di Cristo;
così, l’esempio del Signore invitava la fede dei credenti a capire
che, senza alcun dubbio nei confronti della felicità promessa,
dobbiamo nondimeno, in mezzo alle prove di questa vita, chiedere la
pazienza prima della gloria; la felicità del Regno non può,
infatti, precedere il tempo della sofferenza.
Ed
ecco che, mentre ancora parlava, una nube luminosa li avvolse e una
voce dalla nube diceva: "Questi
è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto, ascoltatelo"
(Mt
17,5).
Il Padre, senza alcun dubbio era presente nel Figlio e, in quella
luce che il Signore aveva misuratamente mostrato ai discepoli,
l’essenza di colui che genera non era separata dall’Unigenito
generato, ma, per evidenziare la proprietà di ciascuna persona, la
voce uscita dalla nube annunciò il Padre alle orecchie, così come
lo splendore diffuso dal corpo rivelò il Figlio agli occhi.
All’udire la voce, i discepoli caddero bocconi, molto spaventati,
tremando non solo davanti alla maestà del Padre, ma anche davanti a
quella del Figlio: per un moto di più profonda intelligenza,
infatti, essi compresero che unica era la Divinità di entrambi, e
poiché non vi era esitazione nella fede non vi fu discrezione nel
timore. Quella divina testimonianza fu dunque ampia e molteplice e il
potere delle parole fece capire più del suono della voce. Infatti,
quando il Padre dice: "Questi
è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto,
ascoltatelo",
non si doveva forse intendere chiaramente: "Questi
è il mio Figlio",
per il quale essere da me e essere con me è una realtà che sfugge
al tempo? Infatti, né Colui che genera è anteriore al Generato, né
il Generato è posteriore a Colui che lo genera. "Questi
è il mio Figlio",
che da me non separa la divinità, non divide la potenza, non
distingue l’eternità. Questi è il mio Figlio, non adottivo, ma
proprio; non creato d’altronde, ma da me generato; non di natura
diversa e reso a me simile, ma della mia stessa essenza e nato uguale
a me. "Questi
è il mio Figlio per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il
quale nulla è stato fatto"
(Jn
1,3),
il quale, tutto ciò che io faccio egli del pari lo compie (Jn
5,19)
e quanto io opero, egli opera con me senza differenza. Nel Padre
infatti è il Figlio e nel Figlio il Padre (Jn
10,38),
e la nostra unità mai si separa. E quantunque io che genero sia
altro da colui che ho generato, non vi è tuttavia permesso avere a
suo riguardo opinione diversa da quella che vi è possibile avere di
me. "Questi
è il mio Figlio",
che non considerò bottino di rapina l’uguaglianza che ha con me
(Ph
2,6),
né se ne appropriò usurpandola; ma, pur restando nella condizione
della sua gloria, egli, per portare a termine il disegno di
restaurazione del genere umano, umiliò fino alla condizione di servo
l’immutabile Divinità.
Quegli,
dunque, in cui ripongo tutta la mia compiacenza, e il cui
insegnamento mi manifesta, la cui umiltà mi glorifica, ascoltatelo
senza esitazione; egli, infatti, è verità e vita (Jn
14,6);
egli è mia potenza e mia sapienza (1Co
1,24).
"Ascoltatelo",
lui che i misteri della Legge hanno annunciato, che la voce dei
profeti ha cantato. "Ascoltatelo",
lui che ha riscattato il mondo con il suo sangue, che ha incatenato
il diavolo e gli ha rapito le spoglie (Mt
12,29),
che ha lacerato il chirografo del debito (Col
2,14)
e il patto della prevaricazione. "Ascoltatelo",
lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi
prepara la scalinata per salire al Regno. Perché avete paura di
essere riscattati? Perché temete di essere sciolti dalle vostre
catene? Avvenga pure ciò che, come anch’io lo voglio, Cristo
vuole. Buttate via il timore carnale e armatevi della costanza che la
fede ispira; è indegno di voi, infatti, temere nella Passione del
Salvatore ciò che per suo aiuto, non temerete nella vostra morte.
Queste
cose, o carissimi, non furono dette soltanto per utilità di coloro
che le intesero con le proprie orecchie; bensì, nella persona dei
tre apostoli, è tutta la Chiesa che apprende ciò che essi videro
con i loro occhi e percepirono con le loro orecchie. Si rafforzi
dunque la fede di tutti secondo la predicazione del santo Vangelo, e
nessuno arrossisca della croce di Cristo, per la quale il mondo è
stato riscattato. Di conseguenza, nessuno abbia paura di soffrire per
la giustizia (1P
3,14),
né dubiti di ricevere la ricompensa promessa, poiché è attraverso
la fatica che si accede al riposo, e alla vita attraverso la morte.
Egli, infatti, si è presa in carico tutta la debolezza propria alla
nostra bassezza; egli, nel quale, se rimaniamo (Jn
15,9)
nella di lui confessione e nel suo amore, siamo vincitori di ciò che
egli ha vinto e riceveremo ciò che egli ha promesso.
Si
tratti allora di praticare i comandamenti o si tratti di sopportare
le avversità della vita, la voce del Padre che si è fatta udire
deve sempre risuonare alle nostre orecchie: "Questi è il mio
Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo";
lui che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo nei secoli
dei secoli. Amen.