Rito
Romano – VIII Domenica del Tempo Ordinario – 2 marzo 2014
Is
49,14-15; Sal 61; 1 Cor 4,1-5; Mt 6,24-34
Dio
ha sempre cura di noi.
Rito
Ambrosiano – Ultima Domenica dopo
l'Epifania detta “del perdono”
Os
1,9a;2,7a.b-10; Sal 102; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32
Il
perdono della tenerezza.
La
liturgia di questa domenica ci propone come prima lettura un brano
del profeta Isaia che ci assicura che Dio non ci dimentica mai e come
Vangelo un brano del Discorso della Montagna, in cui Gesù invita a
non confidare nella ricchezza chiamata mammona3,
ma in Dio provvidente, che ha cura del creato e della creatura per
eccellenza: l’uomo.
Il rischio evidente
che Gesù denuncia è quello di confidare nella forza del denaro per
garantirsi la vita, magari tenendo il piede in due scarpe. Questo
atteggiamento denota una vita ambigua, condotta senza la piena
adesione a Dio e priva di un'incondizionata dedizione al suo
servizio, che è per la vita senza fine, mentre il servizio alle cose
materiali è una risposta finita al nostro desiderio di infinito.
E’
significativo che Gesù presenti l'alternativa tra Dio e la ricchezza
con il termine servire. In effetti se non ci serviamo del denaro in
modo intelligente ed evangelico, c’è il rischio serio e sicuro di
diventare servi del denaro, preoccupati solo di accumularlo e
immiserendo per questo motivo i nostri rapporti personali, compreso
quello con Dio.
Abbiamo in questo versetto (Mt 6, 24) una
variazione sul tema della beatitudine dei poveri (cfr Mt 5,3)
che il testo che segue declina in un modo nuovo, nella linea della
fiducia nella provvidenza di Dio. Infatti in Mt 6. 26 e ss,
Gesù descrive il giardino del mondo e ci
invita a guardare al mondo con occhi di fede. Con la fede si vede in
azione la sollecitudine del Padre per ogni cosa: Egli ha cura di
tutto anche dei gigli del campo e degli uccelli del cielo e, ancora
di più, è provvidente verso gli uomini, figli amati, fatti a sua
immagine.
Dunque,
la fede, vale a dire l'intelligenza
umana riempita da un Altro (al quale ci si abbandona liberamente,
volontariamente ed intelligentemente), è la condizione per
capire e vivere il Vangelo di oggi. Da un punto di vista puramente
terreno alla domanda: “E’ vero che gli uccelli del cielo sono
nutriti dal padre celeste (Mt 5,26)?” la risposta è “No”,
perché anche loro devono faticare e volare per trovare erbe e
insetti per nutrirsi. Come, materialmente parlando, non è vero che i
gigli del campo non lavorano, perché dentro la pianta c'è un
lavorio enorme.
Anche il mangiare e bere non pare che ci siano
dati in aggiunta, perché il cibo e l'acqua non cadono dal cielo.
Da
un punto di vista materiale tutto dipende da noi. In effetti se non
ci si dà da fare, non si mangia e non si beve.
Ma dal punto di
vista della fede, tutto dipende da Dio: “Gli uccelli sono nutriti
dal Padre celeste”? “Certo”. E i gigli sono vestiti meglio di
Salomone? Certamente (cfr. Mt 5, 28.31-33).
Eppure,
nonostante i tanti segni della provvidenza amorosa del Padre, l'uomo
spesso viene meno nella fiducia in Dio e non si abbandona al Suo
amore. Come ci ricorda la Scrittura, fin dall'inizio del tempo,
l'uomo sceglie di fare piuttosto la sua volontà staccandosi così
dall'Autore Eterno. Creato con una scintilla di divino nel suo
spirito profondo, promessa di vita eterna, l'uomo nella sua libertà
ha davanti a sè la scelta: “La
vita o la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà”
(Sir
15,17).
2)
La Provvidenza è tenerezza.
Saggezza
vorrebbe che noi scegliessimo Dio confidando nella sua Provvidenza.
Ma a questo proposito dobbiamo ricordare che Dio è davvero
Provvidenza4,
ma non nel senso che comunemente si dà a questa parola. E’ troppo
poco e quasi offensivo ridurre il Suo rapporto con noi alla sola
provvidenza ridotta a “previdenza sociale”. Egli si è impegnato
con noi fino alla morte e come dice Gesù non vi è amore più grande
che dare la vita per i propri amici. Come possiamo dubitare di questo
Amore? Siamo il termine ultimo dell'amore di Dio; Egli nasce, vive e
muore per noi, Dio non ci dona solo le cose di cui abbiamo bisogno,
ma ci dà Se stesso. Deve essere la nostra massima aspirazione e
gioia fare quello che ci chiede.
Se
crediamo veramente, non dovremmo essere tristi, perché la tristezza
è negazione della fede. Lasciamoci portare da Dio e quello che
avverrà in modo non preordinato dalla nostra volontà sarà
sicuramente disposto da Colui, che conosce le nostre capacità e
agisce per il nostro bene.
A
Lui, Sole eterno e luminoso della nostra vita, volgiamoci
costantemente come i girasoli lo fanno verso il sole che illumina e
dà vita alla terra.
Ogni
fiume si dirige necessariamente verso il mare, dove trova il suo
sbocco naturale, unendosi e perdendosi in questo. Così avviene per
ogni uomo nel mare della misericordia di Dio, la cui provvidenza è
come l’alveo in cui il fiume della nostra vita scorre.
Dio
è provvidente con la sua Presenza, Lui è il Principio che sostiene
ogni essere, da Lui plasmato, nel suo esistere e nel suo agire. La
sua Sapienza e la sua Provvidenza governano ogni creatura. L’uomo,
però, per scoprire e percepire tale Presenza, deve usare i doni che
Dio gli ha dato: l’intelligenza, la volontà e la coscienza, e
aprirsi al suo mistero di Amore, nell’umiltà e nella sincerità
del cuore. Soltanto se l’uomo riconosce Dio come principio del
proprio essere, incontra in Lui la verità luminosa: Il salmo lo
esprime molto bene: “E’ in te la sorgente della vita, alla tua
luce noi vediamo la luce”. (Sal. 36,10).
Dio
è provvidente con la sua tenerezza. Il nostro Padre celeste sa di
che cosa abbiamo bisogno (cfr Mt 6.,32) e si prende cura di noi
teneramente. Non preoccupiamoci di che cosa mangeremo, berremo o
indosseremo. Non dobbiamo aver cura di noi, dobbiamo lasciare che di
noi abbia cura il Signore.
La
nostra sola preoccupazione sia il Regno di Dio e la sua giustizia e
tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù (cfr Mt 6, 33).
Un'ansia eccessiva per le piccole o grandi necessità quotidiane
offusca l'interesse e il ricordo per lo scopo, il fine della vita e
toglie senso all’esistenza, può perfino annullare il nostro
rapporto con Dio, che teneramente ci chiama.
Il
cuore del cristianesimo è la croce e la risurrezione di Cristo,
vertice della tenerezza della Trinità e rivelazione della tenerezza
di Dio all’uomo. Grazie a Cristo, il cui cuore è stato aperto da
una lancia, possiamo dire che siamo nel cuore di Dio. Un cuore
accogliente, capace di compassione, di benevolenza infinita e di
amore davvero gratuito.
Per
essere fedele al Vangelo e al Comandamento nuovo, la Chiesa deve
presentarsi al mondo come il “sacramento della tenerezza di Dio”,
di un Dio di bontà e di grazia e non di punizione e paura. La
teologia della tenerezza deve diventare la pratica della tenerezza e
questo mette in discussione e in crisi tutto un modo superficiale e
mediocre di essere cristiani, un modo di vivere senza slancio ed
entusiasmo. Senza il Vangelo della tenerezza non si può vivere
pienamente il vangelo dell’amore, che è Cristo in persona, e non
si è capaci di portare agli uomini il lieto annunzio della grazia.
Il
Dio di Gesù Cristo chiede a tutti noi di farci evangelizzatori della
sua tenerezza, facendo la rivoluzione della tenerezza (Papa
Francesco, Es. Ap. Post-sin. Evangelii gaudium, n. 88). Solo
in Cristo l’uomo ha la possibilità di vincere la tentazione
dell’orgoglio e realizzare il senso della tenerezza come evento di
grazia per sé, per la Chiesa e per l’umanità.
In
modo particolare sono chiamate a questa tenerezza le Vergini
consacrate, che si donano interamente a Cristo non rimuovendo o
annullando gli affetti umani, ma radicandoli nel cuore di cristo. La
verginità consacrata è la ragione di una tenerezza vera e casta e
segno della carità di Dio: “Nella verginità liberamente scelta
la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il
Creatore sin dall'inizio ha voluto per se stesso(41), e
contemporaneamente realizza il valore personale della propria
femminilità, diventando «un dono sincero» per Dio che si è
rivelato in Cristo, un dono per Cristo Redentore dell'uomo e Sposo
delle anime: un dono «sponsale». Non si può comprendere
rettamente la verginità, la consacrazione della donna nella
verginità, senza far ricorso all'amore sponsale: è,
infatti, in un simile amore che la persona diventa un dono per
l'altro” (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n. 20.
1
“La
fede è fondamento -
cioè certezza - delle
cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”
(Eb
11,1). Fede
vuol dire che la vita è più di quello che si vede. Fede
è riconoscere una Presenza e il cristiano è colui che vive o,
almeno, tende
a vivere i rapporti alla luce della fede,
cioè con la coscienza di questa Presenza.
2
Il
concetto di preoccupazione.
Il termine greco “merimnao”
(preoccuparsi, affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi)
ricorre ben quattro volte (Mt
5,25.31.34 (due volte)). Ma il concetto di preoccupazione degli
antichi e della Bibbia non è il nostro.
Noi ci preoccupiamo
perché nostro figlio è in ritardo di mezz'ora: poi arriva e la
preoccupazione se ne va via. Ci preoccupiamo per l'esame o perché
abbiamo degli ospiti e vogliamo fare bella figura, ecc. La
preoccupazione riguarda un aspetto della nostra vita.
Ma quando
il Vangelo parla di preoccupazione non intende una parte, un
aspetto, ma la totalità. Preoccupazione è qualcosa a cui si pensa
sempre, che prende tutto il nostro pensiero e che assorbe tutto il
resto.
Il testo parallelo di Lc
12,22-31, infatti, è proprio preceduto da un uomo che è tutto
preoccupato (cioè pensa solo a quello, è sempre lì, è tutto
focalizzato lì) dai suoi raccolti “troppo” abbondanti, per cui
pensa a come fare e a dove mettere al sicuro i suoi raccolti. Ma
vivere così fa morire (cf Lc
12,20) perché esiste solo quello e nient'altro.
3
La radice
del termine ebraico “mammonà”
è “‘mn”
da prendere nel senso di “ciò in cui si ripone la propria
fiducia”, si capisce quindi perché Gesù ammonisca i suoi
ascoltatori: se l'uomo ripone la sua fiducia, la sua fede nella
ricchezza, Dio per lui non significa più nulla.
4
In
sé Provvidenza significa il mistero del cuore di Cristo. Ma nel
linguaggio cristiano, le parole che contengono il mistero, le
energie, le gioie e gli interessi di quell’esistenza, nel corso
del tempo, specialmente degli ultimi tre secoli (1700 – 1900),
hanno avuto una sorte sfortunata. L’esistenza cristiana è
scivolata nella mondanità e ne ha assunto insieme le parole. Ora
s’aggirano dappertutto nel nostro linguaggio quotidiano termini
che derivano dall’ambito sacro della fede e dell’amore
cristiani, ma non hanno più in sé molto della loro origine. Più
volte un residuo, una vibrazione, un’aura – per il resto sono
divenuti mondani, secolari. Così è accaduto anche alla sacra
parola “Provvidenza”, che si è secolarizzata in “previdenza”.
Letture
patristiche
San
Giovanni Crisostomo
In
Epist. I ad Timoth. 3
1.
Possesso e uso delle ricchezze
Disprezza le ricchezze,
se vuoi possedere le ricchezze; sii povero, se vuoi essere ricco.
Tali sono infatti gli inattesi beni di Dio, egli vuole che non per
tuo studio, bensì per sua grazia, tu diventi ricco. Lascia a me -
egli dice - codeste cose: tu cura le cose dello spirito, per
apprendere la mia potenza: fuggi dal giogo e dalla schiavitù delle
ricchezze. Fintanto che le tratterrai in tal modo, sarai povero:
allorché invece le disprezzerai, sarai doppiamente ricco; e perché
ti perverranno da ogni dove, e perché nulla ti mancherà di quanto
invece sono carenti i più. Non è infatti il possedere a dismisura
che fa ricco, bensì il non mancare di troppe cose. Perciò, quando
c’è l’indigenza, il re in nulla differisce dal povero: la
povertà infatti è questo aver bisogno degli altri: proprio per
questa ragione il re sia povero, poiché necessita del servizio dei
sudditi. Non così per chi è stato crocifisso: di nessuno ha
bisogno; al vinto sono sufficienti le proprie mani: "Alle
mie necessità, infatti"
- egli dice -, "ed
a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani"
(Ac
20,34).
Queste cose dice chi, altrove, afferma: "Quasi
come chi non ha nulla, e tutto possiede"
(2Co
6,10);
proprio lui che a Listra ritenevano che fosse un dio. Se vuoi
conseguire le cose del mondo, cerca il cielo se vuoi fruire delle
cose presenti, disprezzale: senza equivoci, infatti, dice [Gesù]:
"Cercate
prima di tutto il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in
aggiunta"
(Mt
6,33).
Perché ti soffermi sulle piccole cose? Perché resti a bocca aperta
davanti a cose di nessun valore? Fino a quando sarai povero e
mendico? Guarda il cielo pensa alle ricchezze di lassù: fatti beffe
dell’oro, apprendi quale sia il suo vero uso. Nella vita presente -
che scorre come rena -, fruiamo soltanto di esso, perciò quasi
goccia in paragone all’immensità dell’abisso, di tanto si
differenziano le cose presenti in raffronto alle future. Qui non si
tratta di possesso, ma di uso, e non neppure possesso in senso
proprio: Come mai, infatti, al momento del tuo estremo respiro, che
tu lo voglia o no, altri ricevono tutto, e questi a loro volta danno
ad altri, che poi daranno ad altri ancora? Tutti in effetti siamo di
passaggio, e il padrone di casa è necessariamente più privilegiato
del servo: spesso peraltro, morto quegli, il servo rimane, e si gode
la casa molto più a lungo di lui. Ma se questi con mercede, anche
quello in precedenza con mercede: costruì infatti, mettendo pietra
su pietra con grande fatica e impegno. Solo al Verbo appartengono i
domini: infatti nella verità della cosa tutti siamo padroni degli
altri. Sono nostre solo quelle cose che abbiamo mandato lassù
innanzi a noi: quelle che sono quaggiù, non sono nostre bensì dei
viventi; anzi ci lasciano quando siamo ancora vivi. Sono nostre
soltanto quelle cose che sono opere d’un’anima nobile quale
l’elemosina, la benignità.
Queste cose son dette
esterne anche tra gli stranieri: infatti sono fuori di noi. Dunque
facciamo in modo che stiano dentro. Non possiamo infatti partire da
qui portandoci dietro le ricchezze, però possiamo emigrare portando
con noi l’elemosina: anzi, a dire il vero, la mandiamo innanzi, per
prepararci un abitacolo nella dimora eterna.
2.
La fede nella Provvidenza
Come la retta educazione
dell’individuo così anche quella del genere umano, per quanto
riguarda il popolo di Dio, progredì attraverso traguardi di tempi,
in analogia allo sviluppo delle età, affinché si formasse dalle
cose divenienti all’apprendimento delle cose eterne e dalle
visibili a quello delle invisibili. Quindi anche in quel tempo in cui
da Dio si promettevano ricompense visibili, si inculcava che si deve
adorare un solo Dio. Così l’intelligenza umana, anche per quanto
riguarda gli stessi beni terreni della vita che fugge, si doveva
sottomettere soltanto al vero Creatore e Signore dell’anima. È
irragionevole infatti chi nega che tutte le cose, che gli angeli e
gli uomini possano concedere agli uomini, sono in potere di un solo
Onnipotente. Il platonico Plotino ammette senza esitazione la
provvidenza e dimostra dalla bellezza dei fiori e delle piante che
essa dal sommo Dio, che ha bellezza ineffabilmente intelligibile,
giunge fino alle cose più basse della terra. Dichiara che tutte
queste cose spregevoli ed estremamente precarie possono avere i gradi
convenienti delle proprie forme soltanto se le ricevono dall’essere
in cui permane la forma intelligibile e non diveniente che ha in atto
la totalità dell’essere. Gesù lo dichiara con le parole:
"Osservate
i gigli del campo, non lavorano e non tessono. Ma io vi dico che
neanche Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Se
dunque Dio veste così un’erba del campo che oggi è e domani si
getta nel braciere, quanto più voi, uomini di poca fede?"
(Mt
6,28-29).
Giustamente quindi l’anima ancora legata ai terreni desideri si
abitua ad attendere soltanto dall’unico Dio i beni infiniti della
terra che desidera nel tempo, perch‚ indispensabili alla vita che
fugge, ma spregevoli al confronto con i beni della vita eterna. Così,
pur nel desiderio dei beni terreni, non si allontana dal culto a lui
che deve raggiungere disprezzandoli e volgendosi in senso contrario
ad essi.
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