venerdì 28 febbraio 2014

Provvidenza: la tenerezza dell’Amore.

Rito Romano – VIII Domenica del Tempo Ordinario – 2 marzo 2014
Is 49,14-15; Sal 61; 1 Cor 4,1-5; Mt 6,24-34
Dio ha sempre cura di noi.

Rito Ambrosiano – Ultima Domenica dopo l'Epifania detta “del perdono”
Os 1,9a;2,7a.b-10; Sal 102; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32
Il perdono della tenerezza.


1)La fede1sconfigge la preoccupazione2
La liturgia di questa domenica ci propone come prima lettura un brano del profeta Isaia che ci assicura che Dio non ci dimentica mai e come Vangelo un brano del Discorso della Montagna, in cui Gesù invita a non confidare nella ricchezza chiamata mammona3, ma in Dio provvidente, che ha cura del creato e della creatura per eccellenza: l’uomo.
Il rischio evidente che Gesù denuncia è quello di confidare nella forza del denaro per garantirsi la vita, magari tenendo il piede in due scarpe. Questo atteggiamento denota una vita ambigua, condotta senza la piena adesione a Dio e priva di un'incondizionata dedizione al suo servizio, che è per la vita senza fine, mentre il servizio alle cose materiali è una risposta finita al nostro desiderio di infinito.
E’ significativo che Gesù presenti l'alternativa tra Dio e la ricchezza con il termine servire. In effetti se non ci serviamo del denaro in modo intelligente ed evangelico, c’è il rischio serio e sicuro di diventare servi del denaro, preoccupati solo di accumularlo e immiserendo per questo motivo i nostri rapporti personali, compreso quello con Dio.

Abbiamo in questo versetto (Mt 6, 24) una variazione sul tema della beatitudine dei poveri (cfr Mt 5,3) che il testo che segue declina in un modo nuovo, nella linea della fiducia nella provvidenza di Dio. Infatti in Mt 6. 26 e ss, Gesù descrive il giardino del mondo e ci invita a guardare al mondo con occhi di fede. Con la fede si vede in azione la sollecitudine del Padre per ogni cosa: Egli ha cura di tutto anche dei gigli del campo e degli uccelli del cielo e, ancora di più, è provvidente verso gli uomini, figli amati, fatti a sua immagine.
Dunque, la fede, vale a dire l'intelligenza umana riempita da un Altro (al quale ci si abbandona liberamente, volontariamente ed intelligentemente), è la condizione per capire e vivere il Vangelo di oggi. Da un punto di vista puramente terreno alla domanda: “E’ vero che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste (Mt 5,26)?” la risposta è “No”, perché anche loro devono faticare e volare per trovare erbe e insetti per nutrirsi. Come, materialmente parlando, non è vero che i gigli del campo non lavorano, perché dentro la pianta c'è un lavorio enorme. 
Anche il mangiare e bere non pare che ci siano dati in aggiunta, perché il cibo e l'acqua non cadono dal cielo. 

Da un punto di vista materiale tutto dipende da noi. In effetti se non ci si dà da fare, non si mangia e non si beve. 
Ma dal punto di vista della fede, tutto dipende da Dio: “Gli uccelli sono nutriti dal Padre celeste”? “Certo”. E i gigli sono vestiti meglio di Salomone? Certamente (cfr. Mt 5, 28.31-33).
Eppure, nonostante i tanti segni della provvidenza amorosa del Padre, l'uomo spesso viene meno nella fiducia in Dio e non si abbandona al Suo amore. Come ci ricorda la Scrittura, fin dall'inizio del tempo, l'uomo sceglie di fare piuttosto la sua volontà staccandosi così dall'Autore Eterno. Creato con una scintilla di divino nel suo spirito profondo, promessa di vita eterna, l'uomo nella sua libertà ha davanti a sè la scelta: “La vita o la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Sir 15,17).

2) La Provvidenza è tenerezza.
Saggezza vorrebbe che noi scegliessimo Dio confidando nella sua Provvidenza. Ma a questo proposito dobbiamo ricordare che Dio è davvero Provvidenza4, ma non nel senso che comunemente si dà a questa parola. E’ troppo poco e quasi offensivo ridurre il Suo rapporto con noi alla sola provvidenza ridotta a “previdenza sociale”. Egli si è impegnato con noi fino alla morte e come dice Gesù non vi è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Come possiamo dubitare di questo Amore? Siamo il termine ultimo dell'amore di Dio; Egli nasce, vive e muore per noi, Dio non ci dona solo le cose di cui abbiamo bisogno, ma ci dà Se stesso. Deve essere la nostra massima aspirazione e gioia fare quello che ci chiede.
Se crediamo veramente, non dovremmo essere tristi, perché la tristezza è negazione della fede. Lasciamoci portare da Dio e quello che avverrà in modo non preordinato dalla nostra volontà sarà sicuramente disposto da Colui, che conosce le nostre capacità e agisce per il nostro bene.
A Lui, Sole eterno e luminoso della nostra vita, volgiamoci costantemente come i girasoli lo fanno verso il sole che illumina e dà vita alla terra.
Ogni fiume si dirige necessariamente verso il mare, dove trova il suo sbocco naturale, unendosi e perdendosi in questo. Così avviene per ogni uomo nel mare della misericordia di Dio, la cui provvidenza è come l’alveo in cui il fiume della nostra vita scorre.
Dio è provvidente con la sua Presenza, Lui è il Principio che sostiene ogni essere, da Lui plasmato, nel suo esistere e nel suo agire. La sua Sapienza e la sua Provvidenza governano ogni creatura. L’uomo, però, per scoprire e percepire tale Presenza, deve usare i doni che Dio gli ha dato: l’intelligenza, la volontà e la coscienza, e aprirsi al suo mistero di Amore, nell’umiltà e nella sincerità del cuore. Soltanto se l’uomo riconosce Dio come principio del proprio essere, incontra in Lui la verità luminosa: Il salmo lo esprime molto bene: “E’ in te la sorgente della vita, alla tua luce noi vediamo la luce”. (Sal. 36,10).
Dio è provvidente con la sua tenerezza. Il nostro Padre celeste sa di che cosa abbiamo bisogno (cfr Mt 6.,32) e si prende cura di noi teneramente. Non preoccupiamoci di che cosa mangeremo, berremo o indosseremo. Non dobbiamo aver cura di noi, dobbiamo lasciare che di noi abbia cura il Signore.
La nostra sola preoccupazione sia il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù (cfr Mt 6, 33). 
Un'ansia eccessiva per le piccole o grandi necessità quotidiane offusca l'interesse e il ricordo per lo scopo, il fine della vita e toglie senso all’esistenza, può perfino annullare il nostro rapporto con Dio, che teneramente ci chiama.
Il cuore del cristianesimo è la croce e la risurrezione di Cristo, vertice della tenerezza della Trinità e rivelazione della tenerezza di Dio all’uomo. Grazie a Cristo, il cui cuore è stato aperto da una lancia, possiamo dire che siamo nel cuore di Dio. Un cuore accogliente, capace di compassione, di benevolenza infinita e di amore davvero gratuito.
Per essere fedele al Vangelo e al Comandamento nuovo, la Chiesa deve presentarsi al mondo come il “sacramento della tenerezza di Dio”, di un Dio di bontà e di grazia e non di punizione e paura. La teologia della tenerezza deve diventare la pratica della tenerezza e questo mette in discussione e in crisi tutto un modo superficiale e mediocre di essere cristiani, un modo di vivere senza slancio ed entusiasmo. Senza il Vangelo della tenerezza non si può vivere pienamente il vangelo dell’amore, che è Cristo in persona, e non si è capaci di portare agli uomini il lieto annunzio della grazia.
Il Dio di Gesù Cristo chiede a tutti noi di farci evangelizzatori della sua tenerezza, facendo la rivoluzione della tenerezza (Papa Francesco, Es. Ap. Post-sin. Evangelii gaudium, n. 88). Solo in Cristo l’uomo ha la possibilità di vincere la tentazione dell’orgoglio e realizzare il senso della tenerezza come evento di grazia per sé, per la Chiesa e per l’umanità.
In modo particolare sono chiamate a questa tenerezza le Vergini consacrate, che si donano interamente a Cristo non rimuovendo o annullando gli affetti umani, ma radicandoli nel cuore di cristo. La verginità consacrata è la ragione di una tenerezza vera e casta e segno della carità di Dio: “Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il Creatore sin dall'inizio ha voluto per se stesso(41), e contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando «un dono sincero» per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo Redentore dell'uomo e Sposo delle anime: un dono «sponsale». Non si può comprendere rettamente la verginità, la consacrazione della donna nella verginità, senza far ricorso all'amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che la persona diventa un dono per l'altro” (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n. 20.
1 La fede è fondamento - cioè certezza - delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11,1). Fede vuol dire che la vita è più di quello che si vede. Fede è riconoscere una Presenza e il cristiano è colui che vive o, almeno, tende a vivere i rapporti alla luce della fede, cioè con la coscienza di questa Presenza.

2 Il concetto di preoccupazione. Il termine greco “merimnao” (preoccuparsi, affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi) ricorre ben quattro volte (Mt 5,25.31.34 (due volte)). Ma il concetto di preoccupazione degli antichi e della Bibbia non è il nostro. 
Noi ci preoccupiamo perché nostro figlio è in ritardo di mezz'ora: poi arriva e la preoccupazione se ne va via. Ci preoccupiamo per l'esame o perché abbiamo degli ospiti e vogliamo fare bella figura, ecc. La preoccupazione riguarda un aspetto della nostra vita. 
Ma quando il Vangelo parla di preoccupazione non intende una parte, un aspetto, ma la totalità. Preoccupazione è qualcosa a cui si pensa sempre, che prende tutto il nostro pensiero e che assorbe tutto il resto. 
Il testo parallelo di Lc 12,22-31, infatti, è proprio preceduto da un uomo che è tutto preoccupato (cioè pensa solo a quello, è sempre lì, è tutto focalizzato lì) dai suoi raccolti “troppo” abbondanti, per cui pensa a come fare e a dove mettere al sicuro i suoi raccolti. Ma vivere così fa morire (cf Lc 12,20) perché esiste solo quello e nient'altro.

3 La radice del termine ebraico “mammonà” è “‘mn” da prendere nel senso di “ciò in cui si ripone la propria fiducia”, si capisce quindi perché Gesù ammonisca i suoi ascoltatori: se l'uomo ripone la sua fiducia, la sua fede nella ricchezza, Dio per lui non significa più nulla.


4 In sé Provvidenza significa il mistero del cuore di Cristo. Ma nel linguaggio cristiano, le parole che contengono il mistero, le energie, le gioie e gli interessi di quell’esistenza, nel corso del tempo, specialmente degli ultimi tre secoli (1700 – 1900), hanno avuto una sorte sfortunata. L’esistenza cristiana è scivolata nella mondanità e ne ha assunto insieme le parole. Ora s’aggirano dappertutto nel nostro linguaggio quotidiano termini che derivano dall’ambito sacro della fede e dell’amore cristiani, ma non hanno più in sé molto della loro origine. Più volte un residuo, una vibrazione, un’aura – per il resto sono divenuti mondani, secolari. Così è accaduto anche alla sacra parola “Provvidenza”, che si è secolarizzata in “previdenza”.


Letture patristiche
San Giovanni Crisostomo
In Epist. I ad Timoth. 3

1. Possesso e uso delle ricchezze

       Disprezza le ricchezze, se vuoi possedere le ricchezze; sii povero, se vuoi essere ricco. Tali sono infatti gli inattesi beni di Dio, egli vuole che non per tuo studio, bensì per sua grazia, tu diventi ricco. Lascia a me - egli dice - codeste cose: tu cura le cose dello spirito, per apprendere la mia potenza: fuggi dal giogo e dalla schiavitù delle ricchezze. Fintanto che le tratterrai in tal modo, sarai povero: allorché invece le disprezzerai, sarai doppiamente ricco; e perché ti perverranno da ogni dove, e perché nulla ti mancherà di quanto invece sono carenti i più. Non è infatti il possedere a dismisura che fa ricco, bensì il non mancare di troppe cose. Perciò, quando c’è l’indigenza, il re in nulla differisce dal povero: la povertà infatti è questo aver bisogno degli altri: proprio per questa ragione il re sia povero, poiché necessita del servizio dei sudditi. Non così per chi è stato crocifisso: di nessuno ha bisogno; al vinto sono sufficienti le proprie mani: "Alle mie necessità, infatti" - egli dice -, "ed a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani" (Ac 20,34). Queste cose dice chi, altrove, afferma: "Quasi come chi non ha nulla, e tutto possiede" (2Co 6,10); proprio lui che a Listra ritenevano che fosse un dio. Se vuoi conseguire le cose del mondo, cerca il cielo se vuoi fruire delle cose presenti, disprezzale: senza equivoci, infatti, dice [Gesù]: "Cercate prima di tutto il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta" (Mt 6,33). Perché ti soffermi sulle piccole cose? Perché resti a bocca aperta davanti a cose di nessun valore? Fino a quando sarai povero e mendico? Guarda il cielo pensa alle ricchezze di lassù: fatti beffe dell’oro, apprendi quale sia il suo vero uso. Nella vita presente - che scorre come rena -, fruiamo soltanto di esso, perciò quasi goccia in paragone all’immensità dell’abisso, di tanto si differenziano le cose presenti in raffronto alle future. Qui non si tratta di possesso, ma di uso, e non neppure possesso in senso proprio: Come mai, infatti, al momento del tuo estremo respiro, che tu lo voglia o no, altri ricevono tutto, e questi a loro volta danno ad altri, che poi daranno ad altri ancora? Tutti in effetti siamo di passaggio, e il padrone di casa è necessariamente più privilegiato del servo: spesso peraltro, morto quegli, il servo rimane, e si gode la casa molto più a lungo di lui. Ma se questi con mercede, anche quello in precedenza con mercede: costruì infatti, mettendo pietra su pietra con grande fatica e impegno. Solo al Verbo appartengono i domini: infatti nella verità della cosa tutti siamo padroni degli altri. Sono nostre solo quelle cose che abbiamo mandato lassù innanzi a noi: quelle che sono quaggiù, non sono nostre bensì dei viventi; anzi ci lasciano quando siamo ancora vivi. Sono nostre soltanto quelle cose che sono opere d’un’anima nobile quale l’elemosina, la benignità.

       Queste cose son dette esterne anche tra gli stranieri: infatti sono fuori di noi. Dunque facciamo in modo che stiano dentro. Non possiamo infatti partire da qui portandoci dietro le ricchezze, però possiamo emigrare portando con noi l’elemosina: anzi, a dire il vero, la mandiamo innanzi, per prepararci un abitacolo nella dimora eterna.


2. La fede nella Provvidenza

       Come la retta educazione dell’individuo così anche quella del genere umano, per quanto riguarda il popolo di Dio, progredì attraverso traguardi di tempi, in analogia allo sviluppo delle età, affinché si formasse dalle cose divenienti all’apprendimento delle cose eterne e dalle visibili a quello delle invisibili. Quindi anche in quel tempo in cui da Dio si promettevano ricompense visibili, si inculcava che si deve adorare un solo Dio. Così l’intelligenza umana, anche per quanto riguarda gli stessi beni terreni della vita che fugge, si doveva sottomettere soltanto al vero Creatore e Signore dell’anima. È irragionevole infatti chi nega che tutte le cose, che gli angeli e gli uomini possano concedere agli uomini, sono in potere di un solo Onnipotente. Il platonico Plotino ammette senza esitazione la provvidenza e dimostra dalla bellezza dei fiori e delle piante che essa dal sommo Dio, che ha bellezza ineffabilmente intelligibile, giunge fino alle cose più basse della terra. Dichiara che tutte queste cose spregevoli ed estremamente precarie possono avere i gradi convenienti delle proprie forme soltanto se le ricevono dall’essere in cui permane la forma intelligibile e non diveniente che ha in atto la totalità dell’essere. Gesù lo dichiara con le parole: "Osservate i gigli del campo, non lavorano e non tessono. Ma io vi dico che neanche Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così un’erba del campo che oggi è e domani si getta nel braciere, quanto più voi, uomini di poca fede?" (Mt 6,28-29). Giustamente quindi l’anima ancora legata ai terreni desideri si abitua ad attendere soltanto dall’unico Dio i beni infiniti della terra che desidera nel tempo, perch‚ indispensabili alla vita che fugge, ma spregevoli al confronto con i beni della vita eterna. Così, pur nel desiderio dei beni terreni, non si allontana dal culto a lui che deve raggiungere disprezzandoli e volgendosi in senso contrario ad essi.

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