Rito
Romano
Am
7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc
6,7-13
Rito
Ambrosiano – VII Domenica dopo Pentecoste
Gs
10,6-15; Sal 19; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3
1)Il
discepolo è un santo.
Domenica
scorsa, la XIV del Tempo Ordinario, abbiamo riflettuto sul profeta e
sul fatto che un vero profeta è un santo. In questa domenica
rifletteremo sul discepolo che è santo, perché è scelto da Cristo
e da lui santificato, consacrato nella verità per consacrare gli
altri nella verità.
Nel vangelo di oggi l’Evangelista S. Marco si preoccupa di
fornirci i tratti essenziali della fisionomia del discepolo, che una
persona scelta, separata, santa. In effetti la parola “santo”
viene dal latino che vuol dire “separato”, separato dal mondo e
dal male per entrare nelle sfera di Dio, “messo a parte” per un
compito speciale.
La
folla è curiosa e stupita di fronte alle opere di Gesù, lo ascolta,
ma se ne torna a casa. Il discepolo è invece colui che ascolta,
crede, si stacca dalla folla per stare accanto a Cristo, fedelmente.
La
folla ascolta e poi torna a casa, il discepolo rimane con Cristo, fa
vita comune e pellegrinante con Lui. Vive la scelta, la separazione
non come allontanamento dagli altri, ma come prossimità, familiarità
con Cristo, per vivere in comunione con Lui, che lo invia in
missione.
2)Il
discepolo è l’apostolo di un dono gratuito.
È
su questo aspetto che il brano evangelico del Rito Romano di questa
domenica (Mc 6,7-13) fa riflettere.
L'Evangelista
annota che Gesù «li chiamò a sé e li mandò»: li invitò a sè
per mandarli in missione, e questo comporta almeno la consapevolezza
di essere inviato da Dio e non da una decisione propria: la missione
è un dono accolto gratuitamente e gratuitamente condiviso.
Il
discepolo è mandato per manifestare con la sua vita la gratuità di
Dio. L’amore di Dio non si può comperare,
non lo si può meritare. Lo si riceve nella fede come dono liberante,
da condividere.
Il
discepolo è chiamato a Cristo, da Cristo che lo manda ad annunciare
il Regno di Dio, che
“non
consiste in cibo, né in bevanda, ma è
giustizia, pace e
gioia
nello Spirito Santo"
(Rm 14,17);
che non è un discorso, ma è una
comunione portatrice di liberazione: dal peccato, dalla solitudine,
dalla mancanza di senso della vita.
Il
discepolo missionario propone quello che ha sperimentato: una vita di
comunione con la Verità della Vita e dell’Amore. Il missionario
non propone innanzitutto un discorso ma offre il dono di una
Presenza: “II Verbo si è fatto
carne ed ha posto la sua dimora in mezzo a noi”.
Una Presenza che rivela Dio come Amore e l’uomo come amato:
solidali l’uno con l’altro, impegnati nella medesima avventura di
condividere l’amore.
Il
discepolo è il “chargé de mission”, che si presenta come voce
della Parola, la quale non vuole dimostrarsi, ma mostrarsi. A noi non
resta che contemplarlo, consentire che si incarni in noi e poi
portarlo al mondo: lui Parola che dà la vita, Lui, il Verbo di Vita.
L’annuncio
del discepolo è insegnamento del Verbo, non perché aggiunge parole
alla Parola, ma perché la indica (in-segna) con la testimonianza. E’
maestro di questa Parola non tanto perché l’ha letta, ma perché
l’ha incontrata e gli ha cambiato la vita, totalmente, e vive in
comunione: il discepolo è nel cuore di Dio e Dio è nel cuore del
discepolo.
3)
Le condizioni della missione.
Se
la prima condizione della missione è la vocazione di vivere con
Cristo, la seconda è quella di camminare con Cristo verso il mondo
poveramente: “Gratuitamente avete
ricevuto, gratuitamente date” (Mt
10,8). Gesù insiste, nel Vangelo di oggi, sulla povertà come
condizione indispensabile per la missione: né pane, né bisaccia, né
soldi. È una povertà non tanto sociologica quanto e soprattutto una
povertà del cuore, che consiste nel vivere il rapporto con le
persone e le cose come l’ha vissuto Cristo. Come Dio che non è
possesso, che è Dono, dono di Amore assoluto e misericordioso.
La
povertà di spirito è fede, consapevolezza di essere amati, libertà
e leggerezza. Anzitutto, libertà e leggerezza: un discepolo
appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di
cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di
comodo per giudicare irrinunciabile la casa nella quale si è
accomodato e dalla quale non vuole più uscire (troppe valigie da
fare, troppe sicurezze a cui rinunciare!).
Ma
la povertà è anche fede: è segno di chi non confida in se stesso,
ma si affida a Dio, in tutto e per tutto. Si abbandona nelle mani di
Dio, che è “povero” perché è spogliazione infinita (dal Cielo
alla paglia di una stalla fino al legno della Croce), amore perfetto,
dono totale di sé, che mendica ognuno di noi, per cui Lui soffre per
la nostra mancanza ed è lieto per il nostro ritorno, come il Padre
Misericordioso con il suo figlio prodigo. Dio non si stanca di essere
buono e alla moltitudine dei nostri peccati oppone la moltitudine
delle sue misericordie, per conquistarci con la forza della sua
bontà.
Il
discepolo in missione, ciascuno cristiano - laico, religioso o prete
che sia – è chiamato a vivere la carità di Dio come realtà
quotidiana e condividere l’esperienza di Misericordia che lo
ricrea, la parola di Carità che lo alimenta, l’intelligenza
dell’Amore, che rende ragionevole la sua vita.
4)
La presenza di una Presenza.
Concludo
queste riflessioni con il versetto del Vangelo “ambrosiano” di
oggi: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero
Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv
17,3), per dire che Dio la conoscenza di Dio si impara da un
incontro di un cuore che parla ad un altro cuore. Dio è amore e ci
tocca con il suo cuore, come noi possiamo toccarlo col nostro cuore.
Sant’Agostino scriveva: “Non si entra nella verità se non
attraverso la carità”. E solo lasciandoci lavare i piedi da Cristo
che entriamo nel mondo dello Spirito, è solo lavando i piedi al
nostro prossimo in nome di Dio che i nostri fratelli entreranno in
questo stesso mondo “spirituale.
Non
si tratta di comunicare un discorso, ma una Presenza che non fa
rumore, che conduce nel deserto per parlare al cuore umano (cfr il
profeta Osea)
La
testimonianza che dobbiamo dare per trasmettere la conoscenza di Dio
è la testimonianza della nostra vita, dobbiamo essere la presenza di
un Presenza. Non si tratta di convertire gli altri buttando loro
addosso pacchetti di dimostrazioni. Si tratta di mostrare che cosa
pensiamo di Dio, ma come viviamo di Lui, perché lui solo ha parole
di vita eterna e, quindi, vera.
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