giovedì 5 luglio 2012

XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2012

Rito Romano
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

Rito Ambrosiano
Es 3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
1) L’Amore è profeta della Verità.
            Ecco perché:
            “Un bambina di tre anni e mezzo, in un momento di grande, profonda confidenza con la mamma, le chiese: “Mamma, mamma, con che cosa ti voglio bene?”- “Tu mi vuoi bene con il cuore, bambina mia! – “Ma dov’è il mio cuore?”- “Ma è li.” – rispose la mamma, indicando il piccolo petto della figlia – “No, mamma non è con questo che ti voglio bene. Dov’è il cuore con il quale ti amo?”
            La bambina sentiva molto bene che c’era nel suo cuore, quel cuore con cui lei amava,  tutto un mistero. E quel cuore, con cui lei amava la mamma, non poteva essere semplicemente il cuore che batteva nel suo petto, o almeno non era solo quello: c’era un che di altro. E la mamma non riusciva a spiegarglielo perché era “troppo” grande e come molti adulti aveva perso lo stupore che percepisce il mistero, che l’intuizione infantile della sua bambina coglieva. La piccolina capiva, molto meglio di molti adulti, che c’era in lei un qualcosa di grande, un mistero che cerca di cogliere, ponendo una domanda davvero giusta e la cui risposta era per lei vitale.
            Per poter rispondere a domande di questo genere, in primo luogo occorre farsele, è necessario diventare evangelicamente come bambini per poterle avere e per poterle con semplicità fare.
            In secondo luogo, occorre essere profeti, cioè persone che, essendo in ascolto di Dio, in nome di Dio, che è Verità ed Amore, parlano ai loro fratelli e sorelle in umanità. Essere profeti della verità e dell’amore non è questione di erudizione e di sentimento. E’ questione di ascolto. E’ questione di avere occhi, che sappiano vedere l’essenziale, e un “cuore” esperto d’amore.
            Se non si fa esperienza di essere amati, non si può capire che l’amore nel cuore è qualcosa di immenso,  di infinito, che cambia la vita. Solo dentro una esperienza di carità si può vivere l’amore come avvenimento di un dono. Il grande sacerdote Romano Guardini scrisse: “Nell’esperienza di una grande e vero amore, tutto diventa avvenimento nel suo ambito”. L’Amore dice la Verità. L’Amore fa entrare nella verità: “Non intratur in Veritatem nisi per Caritatem” (San Agostino, Contra Faustum, lib. 32, 18, PL 42, col 507)

            2) Il profeta dall’umile vita.
            A questo punto sorge un’altra domanda: Come diventare profeti?
            Se il profeta che svela l’uomo a se stesso parlando in nome di Dio, questo profeta deve mettersi in ascolto della Parola di Dio, imitando l’umiltà di Cristo.
            Gesù va, umilmente, a Nazareth, la sua città, tra la gente che lo aveva visto crescere, giocare, studiare, lavorare. Là dove ancora viveva sua madre, dove c’erano la sua casa, gli amici d’infanzia e i compagni di gioventù, i parenti più prossimi.
            Vi torna non da solo, ma con i suoi discepoli. Quindi, anche se con semplicità, vi torna da maestro, preceduto dalla fama di essere diventato un uomo importante, un profeta, anzi molto più di un profeta. Lo avevano visto camminare per le vie del paese, ed ora di sabato lo vedono entrare in sinagoga e predicare. Parole nuove, che riscuotono interesse e muovono l’attenzione, che risvegliano i desideri e nutrono le attese. Parole che invitano a lasciare il vecchio sentire.
            Se i presenti si fossero fermati a sentire la risposta del loro spirito alle parole di Gesù, avrebbero seguito le spinte della fiducia interiore e si sarebbero incamminati per le vie della straordinarietà di quella presenza divina. Invece fanno subitaneamente subentrare al loro sentire profondo la sicurezza di un ragionare consueto: quest’uomo è uno di noi. Lo conosciamo bene, si dicono tra di loro. È il figlio di Maria, una delle nostre donne, una delle tante. Conosciamo lui e tutti quelli che con lui sono cresciuti. Non è possibile che lui sia qualcosa di diverso da quello che noi abbiamo concretamente avvicinato per anni. Chi faceva il falegname non può essere capace di fare miracoli così grandi e di una sapienza così profonda.
            La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi (che l’evangelista Marco intende oggi porre a ciascuno di noi): qual è l'origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest'uomo? La risposta sembra ovvia: quest'uomo viene da Dio. Ma questa risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: «Non è costui il falegname?». Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. Ciò che impedisce ai nazaretani di credere è proprio la persona di Gesù, la sua concreta fisionomia, le sue umili origini, il suo modo umile di apparire fra noi. Comprendiamo la difficoltà degli abitanti di Nazareth: la presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più importante? Come è possibile che un inviato, un profeta di Dio si presenti nelle vesti di un ex-falegname?
            Come si vede, il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, gli abitanti di Nazareth. È invece il segno di una profonda incredulità, come l'evangelista annota: «E Gesù si meravigliava della loro incredulità». Per il Vangelo l'incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l'incapacità di riconoscere Dio nell'umiltà dell'uomo Gesù, la chiamata di Dio nella voce di un uomo che sembra essere troppo uomo. Dio è certamente grande, ma spetta a lui scegliere i modi di manifestare la sua grandezza, di quale profeta servirsi per parlare all’uomo.
            Di fronte al rifiuto dei nazaretani Gesù cita un proverbio, ampiamente confermato dall'intera storia biblica: il popolo di Dio ha sempre rifiutato i suoi profeti. Il rifiuto che Gesù incontra fa parte dunque del destino dei profeti, e tuttavia non è un fatto scontato, e Gesù se ne meraviglia. Capita sempre che i profeti siano rifiutati dal loro popolo, ma bisogna continuare a meravigliarsi: la meraviglia di scoprire una così grande incredulità in chi si pensa credente: in noi.

3) Un popolo di profeti e santi dal cuore grande.
            Se vogliamo rispondere alla domanda iniziale della bambina che chiedeva con che cosa amiamo, dobbiamo dunque prima di tutto domandare la fede, gli occhi della fede per riconoscere Cristo, profeta, re e sacerdote e diventare noi un popolo profetico, regale e sacerdotale, in una parola: santo.
            Spesso si esprime il rimpianto per le “figure profetiche” che non ci sono più, l’ammirazione per i pochi “profeti” viventi ed il rimprovero ai pastori e ai laici impegnati di non essere abbastanza “profetici” sono sempre ricorrenti.
            Provocatoriamente, basterebbe ricordare, in proposito, un suggestivo spunto di Divo Barsotti: “Tutti oggi vogliono essere profeti, tutti sono più o meno discepoli di Gioacchino da Fiore. Ma che cosa può annunciare il profeta se tutto è avvenuto? Corsini nega persino all’Apocalisse il carattere profetico. In realtà è molto più comodo voler essere profeti piuttosto che santi, ci si scrolla così da un peso troppo grave e si ottiene più facilmente il consenso del mondo. Rispetto Mazzolari, Milani..., ma è possibile anche paragonarli soltanto a Don Orione, a P. Leopoldo, a Massimiliano Kolbe?” (D. Barsotti, "Nel Figlio al Padre. Diario dal febbraio 1983 al febbraio 1984", L'Epos, Palermo, 1990, p. 195).
            Meno provocatoriamente, nella consapevolezza della serietà della dottrina conciliare del triplice ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, cui noi cristiani partecipiamo, bisogna chiedersi: “Che tipo di profezia?”. La risposta è: quello della santità, quello della testimonianza di essere stupiti della verità e sorpresi dalla felice notizia che siamo amati.
            Mettiamo dunque il nostro cuore nel “Cuore” di Dio, come suggerisce il vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana: “In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, “e troverete ristoro per la vostra vita”. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». (Mt. 11, 27-30)

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