Rito
Romano – II Domenica di Quaresima – Anno A – 8 marzo 2020
Gen
12,1-4; Sal 32; 2 Tm 1,8-10; Mt 17,1-9
In
Cristo tutta la realtà è trasfigurata.
Rito
Ambrosiano – II Domenica di Quaresima – Domenica della
Samaritana
Es
20,2-24; Sal 18; Ef 1,15-23; Gv 4,5-42
L’incontro
con Cristo trasfigura chi è sfigurato.
Premessa
La
liturgia della Chiesa ci fa vivere la quaresima come esodo (=cammino)
di liberazione. L’esodo fatto sotto la guida di Mosè fu una
liberazione dalla schiavitù dell’Egitto per raggiungere la libertà
della Terra promessa, dove la Pasqua (=passaggio) ebraica giunse a
compimento.
Quell’esodo,
che fu il cammino nel deserto compiuto dal popolo eletto per
rispondere alla sua vocazione divina, è l’annuncio e la visione di
un cammino che noi oggi siamo chiamati a fare, in particolare durante
la Quaresima.
La
vita di Cristo può e deve essere vista come un rinnovarsi di quel
pellegrinaggio verso la patria portando al Padre l’umanità
intera. E la Lettera agli Ebrei mostra la Chiesa cristiana come
popolo di Dio, il nuovo Israele, peregrinante verso la patria vera:
quella celeste.
Anche
la nostra vita è il rinnovarsi di quella storia lontana. Origene
scrisse: “Non credere che questi avvenimenti si siano compiuti
tempo fa, ma che per te che oggi ascolti non avvenga nulla di simile.
Tutto si compie in te, spiritualmente…”
In
questo cammino Cristo è la nostra guida. Lui è il nuovo Mosé che
ci conduce attraverso il deserto della vita.
L’esodo
cristiano, come quello ebraico, non è un cammino solo in terra
pianeggiante, è anche salita su vari monti.
Dunque,
camminando con Cristo, saliamo con Lui sul
monte della tentazione, sul monte della sua grande predicazione, sul
monte della preghiera, sul monte della trasfigurazione, il monte
dell'angoscia (quello degli olivi), sul monte Calvario e sul monte
dell'ascensione. Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai,
l'Oreb, il Moria: i monti della rivelazione
dell'Antico Testamento. Al tempo stesso, questi sono anche monti
della passione e della rivelazione. Inoltre, rimandano, anche al
monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgica.
Alla
luce di ciò, possiamo dire che il monte è il luogo della salita -
non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore.
Salire il monte spiritualmente è un liberarsi dal peso della vita
quotidiana, è un respirare nell’aria pura della creazione. Il
monte che offre il panorama dell'ampiezza della creazione e della sua
bellezza. il monte che ci dà elevatezza interiore e ci permette di
intuire il Creatore. La storia sacra aggiunge a queste considerazioni
l'esperienza del Dio che parla e l’esperienza della passione, che
culmina nel sacrificio di Isacco, nel sacrificio dell'agnello,
prefigurazione dell'Agnello definitivo, sacrificato sul monte
Calvario. Mosè ed Elia avevano potuto ricevere la rivelazione di Dio
sul monte; ora sul monte Tabor sono a colloquio con Colui che è la
rivelazione di Dio in persona.
1)
Quaresima: Esodo di penitenza e di luce.
La
Quaresima non è solo un cammino di penitenza di persone addolorate
per il loro peccato. Essa è cammino di luce o, meglio, di
conversione alla luce. La vittoria sulla tentazione è già fonte di
trasfigurazione.
Il
Vangelo di questa domenica ci presenta il fatto della Trasfigurazione
di Cristo. E’ un un evento che ha segnato la vita non solo di Gesù,
ma anche di Pietro, Giacomo e Giovanni, e deve segnare la nostra
esistenza.
Il
contesto è di preghiera, sul monte Tabor. Si tratta di un momento
molto particolare e privilegiato. E’ rivelazione della divinità di
Gesù. E’ un momento di luce che Gesù ha voluto per preparare i
suoi discepoli alla passione e, quindi anche noi perché arriviamo
preparati al Venerdì santo. Anche noi dobbiamo entrare nel mistero
della Trasfigurazione, farlo nostro. Non dobbiamo solo contemplare
Cristo radioso, ma diventare ciò che contempliamo.
Il
primo modo di partecipare al dono soprannaturale della
Trasfigurazione è dare spazio alla preghiera e all’ascolto della
Parola di Dio, è fissare il nostro sguardo sull’Ostia consacrata.
Inoltre, soprattutto in questo tempo di Quaresima, è rispondere
all’invito divino della penitenza con qualche atto volontario di
mortificazione, al di fuori delle rinunce imposte dal peso della vita
quotidiana.
Un
altro modo di vivere il mistero della Trasfigurazione è quello di
immaginarci la scena, come il Vangelo ce la descrive, e immedesimarsi
in uno dei tre apostoli che hanno accompagnato Gesù sul monte
Tabor:“E fu trasfigurato davanti a loro (i tre apostoli:
Pietro, Giacomo e Giovanni): il suo volto brillò come il sole e le
sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2).
Gesù si trasfigura: le vesti candide[1] e
il volto splendente ci pongono in direzione del Figlio dell'uomo,
glorioso e vincitore. In questo
modo ci è rivelato che Gesù, che è in cammino verso la Croce, è
il Signore e in realtà è in cammino verso la luce della
Risurrezione. L’ultimo e penoso pellegrinaggio che Gesù sta
percorrendo nasconde un significato pasquale. Ma si tratta di un
anticipo fugace e provvisorio: la strada da percorrere è quella
della Croce. E difatti i tre discepoli prediletti, chiamati a vedere
in anticipo la gloria di Gesù, sono i medesimi che nel Getsemani,
saranno chiamati a vedere la sua debolezza. Pietro, Giacomo e
Giovanni ( e noi con loro), contemplando la divinità del Signore,
sono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come è cantato
in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi
discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua
gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua
passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente
lo splendore del Padre”.
2)
Le tende e la Tenda.
Il
Vangelo prosegue narrando che, accanto a Gesù trasfigurato,
“apparvero Mosè ed Elia[2] che
conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge
e dei Profeti. Questi due grandi personaggi biblici ebbero il
privilegio di «vedere e ascoltare» Dio sul monte Sinai e sull'Oreb,
sono a fianco di Gesù sul monte della trasfigurazione e testimoniano
la sua identità. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò:
“Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre
capanne[3],
una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Credo,
però che in questo brano evangelico il dato della tenda/capanna si
possa interpretare in riferimento all’esodo.
I
quarant’anni nel deserto furono un tempo di transizione e di prova
, ma furono anche un tempo privilegiato. Nel deserto, le tende devono
essere montate ogni sera e tolte via ogni mattina, è il luogo
dell’orrore e della morte, è il luogo degli scorpioni, dei
serpenti, è il luogo della sete e della fame, è il luogo dei
razziatori nascosti che piombano all’improvviso sulla carovana. Ma
è il tempo, coestensivamente, della forza e della vita; mai come nel
deserto il popolo è forte perché è spoglio, è leggero, porta con
sé poco bagaglio ma molta vita, molta speranza, molta energia, da
farne tesoro in seguito, quando giungerà nella patria[4].
Il
deserto e le tende furono e sono un luogo privilegiato, il luogo dove
si sta a tu per tu con Dio. Sono anche il luogo e il tempo della
dipendenza totale. Già nel deserto dell’esodo le realtà che poi
il Nuovo Testamento assumerà come ultime, messianiche ed
escatologiche, cioè l’acqua, la manna e la Parola, sono intese
precisamente in questo senso della totale dipendenza da Dio.
Il
popolo che vive sotto la tenda non può fare a meno degli elementi
vitali come l’acqua e il cibo, la manna, le quaglie del deserto
(Es. 16, 1-36 e 17, 1-7). Il Signore manda i beni, ma il Signore
vuole che il popolo abbia totale disponibilità e dipendenza e le
dimostri, perché il Signore non fa mancare nulla a nessuno.
Ma
occorre parlare anche della Tenda con la T maiuscola. In effetti, già
Sant’Agostino commenta la frase di San Pietro sul monte della
Trasfigurazione, dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo;
Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio
nei Profeti”[5].
Il Signore ha stabilito la sua Tenda in mezzo alle tende; queste
tende diventano il luogo dove si vive una vita vera per il fatto che
il Signore è presente, è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, Dio tra
noi, sempre.
Questa
Tenda fra le tende implica un farsi come gli uomini da
parte di Dio, un Dio che si abbassa, quasi si distrugge, per abitare
in mezzo alle tende degli uomini.
Un
esempio di tende accanto alla Tenda sono le Vergini consacrate.
Queste donne sono chiamate a vivere la loro esistenza con
disponibilità e dipendenza piena. Nella Chiesa queste donne sono
chiamate a donarsi totalmente al Signore col proposito di Verginità
continuando a vivere nel mondo. La loro consacrazione manifesta
l’importanza di una “totalità” gioiosa nel dono di sé e, di
conseguenza, la ricerca costante del primato della contemplazione pur
nella totale disponibilità per il servizio nella Chiesa, con e per i
fratelli. In tale modo queste donne testimoniano che la luce di Dio
trasfigura l’umanità e che Cristo è sempre luce della vita e
bellezza dell’umanità.
[1] San
Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche
portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che
diventavano chiare e trasparenti e luminose” Ambiguum 10: PG 91,
1128 B.
[2] Mosè
ed Elia sono personaggi particolarmente qualificati a discorrere con
Gesù nel suo cammino. Mosè guidò il popolo di Dio nel passaggio
dall'Egitto alla terra promessa e, chiamato da Dio a guidare la
marcia di Israele verso la libertà, provò ripetutamente l'amarezza
della contestazione e dell'abbandono. Infine morì alle soglie della
terra promessa, senza la soddisfazione di entrarvi, non venne mai
meno nella sua fede. Elia - profeta fra i più tenaci, insofferente a
ogni forma di idolatria e della corruzione del governo - conobbe la
via della fuga, del deserto e della solitudine, ma anche la gioia
della presenza del Signore e il conforto della sua parola.
Gesù
è incamminato verso la Croce, ma è il profeta definitivo, l'ultima
parola di Dio: «ascoltatelo». L'atteggiamento
fondamentale del suo discepolo è l'ascolto.
[3] La
nuova traduzione del Vangelo traduce la parola greca “skene” con
“capanne” invece che “tende” in riferimento alla festa delle
Capanne. La traduzione latina usa la parola “tabernaculum”. La
festa di Sukkoth inizia il 15 del mese di Tishrì (settembre-ottobre,
perché l calendario ebraico, a differenza del calendario cristiano,
è lunare, segue cioè il ciclo della luna: per essere più precisi,
si basa sull'intervallo di tempo che passa da un novilunio
all'altro). Sukkoth in ebraico significa “capanne” e sono appunto
le capanne a caratterizzare questa festa gioiosa che ricorda la
permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla
schiavitù dall'Egitto: quaranta anni in cui abitarono in dimore
precarie, accompagnati da “nubi di gloria”. Penso, però, che
scrivere queste riflessioni usando la parola “tenda” ci aiuti a
capire meglio il fatto di essere pellegrini e di non avere stabile
dimora su questa terra.
[4] E’
utile ricordare che i primi monaci, verso la fine del III sec. e
l’inizio del IV, “tornarono” nel deserto. Di solito
si dice che sono scappati per paura della civiltà e per disprezzo
delle realtà del mondo, ma non è che un luogo comune. In realtà i
primi monaci “fuggirono” nel deserto per contestare la vita
comoda dei cristiani del loro tempo, che stavano diventando degli
uomini del comodo, della sazietà, gli uomini della vita definitiva,
non pellegrinante. I cristiani avevano perduto quello che per i primi
tre secoli era il vero istinto del deserto, quello di procedere, di
far procedere anche gli altri, di contribuire a che anche gli altri,
che non fanno parte del popolo di Dio, “vadano” comunque “in
avanti”. Quindi i primi monaci hanno fatto un immenso atto di
coraggio, un atto di “tornare indietro”, che in realtà è un
“andare ancora in avanti”: ritornare ai tempi privilegiati del
deserto, della tenda.
[5] Sant’Agostino, Sermo
De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491.
Lettura
Patristica
San
Leone Magno
Sermo 51,
1-3
Lezione
della Trasfigurazione per la Chiesa e i cristiani
La lettura del Vangelo, carissimi, che attraverso le orecchie del corpo ha colpito l’udito interiore della nostra anima, ci invita all’intelligenza di un grande mistero: noi arriveremo a intenderla più facilmente, con l’ispirazione della grazia di Dio, se riportiamo la nostra attenzione alle circostanze che sono state narrate un po’ prima. Quando infatti il Salvatore del genere umano, Gesù Cristo, poneva le fondamenta di questa fede che richiama alla vita (Rm 1,17) tanto gli empi quanto morti, quando ammaestrava i suoi discepoli sia con gli ammonimenti della dottrina sia con i miracoli delle opere, era appunto perché si credesse che lo stesso Cristo è contemporaneamente l’unigenito Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Poiché l’uno senza l’altro non poteva servire alla salvezza, ed era eguale il pericolo di credere il Signore Gesù Cristo o Dio solamente senza l’uomo, o uomo solamente senza Dio: bisogna, infatti, confessare parallelamente l’uno e l’altro, che la vera divinità è nell’uomo come la vera natura umana è in Dio. Volendo dunque confermare la conoscenza così salutare di questa fede, [il Signore] aveva chiesto ai suoi discepoli cosa, in mezzo a opinioni diverse di altri, essi stessi credessero a suo riguardo, o cosa pensassero: fu allora che l’apostolo Pietro, per effetto di una rivelazione del Padre che è nei cieli, oltrepassando le apparenze corporali e trascendendo l’aspetto umano, vide con gli occhi dell’anima il Figlio del Dio vivo e confessò la gloria della divinità, perché‚ non guardò alla sola sostanza della carne e del sangue. E fu così gradito [a Dio] per la sublimità di questa fede, che ricevette la gioia della beatitudine e fu dotato della santa fermezza propria di una pietra inamovibile - pietra sulla quale sarebbe stata fondata la Chiesa per prevalere sulle porte dell’inferno e sulle leggi della morte -, di modo che nient’altro venisse sancito in cielo per sciogliere o legare chicchessia, se non ciò che la decisione di Pietro avesse stabilito.
Ma questa intelligenza così sublime, oggetto di lode, carissimi, doveva essere istruita dal mistero della natura inferiore di Cristo, per timore che la fede dell’apostolo, elevata fino alla gloria di confessare la divinità, giudicasse sconveniente e indegna del Dio impassibile la nostra debolezza da lui assunta, e credesse la natura umana già glorificata in lui al punto di non poter essere né intaccata dal supplizio né distrutta dalla morte. E siccome il Signore diceva che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, degli scribi e dei principi dei sacerdoti, essere messo a morte e risuscitare il terzo giorno (Mt 16,21 Mt 20,17-19), fu per tal motivo che san Pietro, illuminato da una luce superiore e tutto infiammato dell’ardentissima confessione da lui fatta del Figlio di Dio, respinse con un disgusto spontaneo e, pensava lui, religioso la prospettiva degli insulti ignominiosi (Lc 18,32) e di una morte disonorante e crudele; Gesù lo riprese allora con un dolce rimprovero e gli ispirò il desiderio di condividere la sua passione. L’esortazione successiva del Salvatore suggerì infatti e insegnò che quelli che volevano seguirlo dovevano rinnegare sé stessi e ritenere una cosa da nulla la perdita dei beni temporali in confronto alla speranza di quelli eterni; infine che avrebbe salvato la propria anima chi non avrebbe temuto di perderla per Cristo (Mt 16,25).
Ma bisognava che gli apostoli concepissero veramente nel loro cuore questa forte e felice fermezza, e non tremassero davanti alla durezza della croce che dovevano prendere; bisognava che non arrossissero del supplizio di Cristo, e che non ritenessero vergognosa per lui quella pazienza con la quale egli doveva subire i rigori della passione senza perdere la gloria del dominio. "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello" (Mt 17,1), e avendoli presi in disparte, salì con essi su un alto monte, e manifestò loro il fulgore della sua gloria: poiché, pur avendo essi compreso che la maestà di Dio era in lui, ignoravano ancora la potenza di quel corpo che nascondeva la divinità. Ecco perché aveva promesso in termini appropriati e precisi che alcuni dei discepoli presenti non avrebbero gustato la morte prima di vedere il Figlio dell’uomo venire nel suo regno (Mt 16,28), cioè nello splendore regale che conveniva specialmente alla natura umana che egli aveva assunto, e che volle rendere visibile a questi tre uomini. Perché quanto alla visione ineffabile e inaccessibile della stessa divinità, visione riservata ai cuori puri nella vita eterna (Mt 5,8), degli esseri ancora rivestiti di carne mortale non potevano in alcun modo né contemplarla né vederla.
Il Signore svela dunque la sua gloria in presenza di testimoni scelti e illumina di tale splendore questa forma corporale che lui ha comune con tutti, che il suo volto diviene simile al fulgore del sole, e le sue vesti sono paragonabili al candore delle nevi (Mt 17,2). Certamente questa trasfigurazione aveva soprattutto lo scopo di eliminare dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, affinché l’umiltà della passione volontariamente subita non turbasse la fede di coloro ai quali sarebbe stata rivelata la sublimità della dignità nascosta. Ma con eguale previdenza egli dava un fondamento alla speranza della santa Chiesa, di modo che tutto il corpo di Cristo venisse a conoscenza di quale trasformazione sarebbe stato gratificato, e le membra dessero a sé stesse la promessa di partecipare all’onore che era rifulso nel capo. A questo proposito il Signore stesso, parlando della maestà della sua venuta, aveva detto: "Allora i giusti risplenderanno come sole nel regno del Padre loro" (Mt 13,43); e il beato apostolo Paolo afferma la stessa cosa, in questi termini: "Ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi" (Rm 8,18); e ancora: "Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria" (Col 3,3-4).
Nessun commento:
Posta un commento