venerdì 31 gennaio 2020

L’offerta del Figlio al Padre e l’incontro con i fratelli

Presentazione del Signore al Tempio – L’Ipapante1 – 2 febbraio 2020

Rito Romano
Ml 3,1-4; Sal 23; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40
Gesù offerto a Suo Padre

Rito Ambrosiano
Ml 3,1-4a; Sal 23; Rm 15,8-12; Lc 2,22-40
Il Signore nel suo Tempio santo

1) Incontro di Gesù con il Padre e con i fratelli.
Quaranta giorni sono già passati dal Natale, giorno in cui Cristo è entrato nel modo e la liturgia ci chiede di celebrare la presentazione di Gesù al Tempio. La celebrazione di questo fatto è detta “Festa dell’incontro”: perché celebra l’incontro tra il Dio bambino, che porta novità, e l’umanità in attesa, che è rappresentata dagli anziani Simeone e Anna nel Tempio. Questo bambino divino entra umilmente in Casa sua ed è accolto da Simeone e da Anna. I sacerdoti del Tempio non lo accolgono perché non sanno riconoscere Dio in un povero Bambino.
Quali sono le disposizioni che permettono questo riconoscimento? L’umiltà di Simeone e la pietà di Anna. Invochiamo lo Spirito Santo perché anche noi possiamo riconoscere il Redentore del mondo e accettare che questo Bambino sia la salvezza nostra e del mondo intero.
Nella sua debolezza, umiltà e povertà il bambino Gesù giudica e condanna il mondo, che non è povero, che è orgoglioso, che crede nella forza. Salva invece Simeone e Anna, due vecchi poveri e deboli a causa del corpo infiacchito dagli anni. Questi due sono salvi. Dio non ha bisogno di grandi manifestazioni, di grandi avvenimenti per mostrare la sua gloria; la sua presenza ci giudica. Se siamo simili a Lui, lo vediamo e lo riconosciamo. Se invece siamo pieni di orgoglio non abbiamo nulla in comune con Lui, siamo esclusi dalla sua luce. Con la presentazione al Tempio (ma non solo lì) Dio si fa presente, ma si fa riconoscere soltanto dalle anime umili, che non hanno peso nel mondo, che gli uomini dimenticano e non sanno che cosa possono contare, ma solo loro riconoscono il Cristo. Dio è un Infante, che non sa né parlare né camminare, o è un uomo che pende da una Croce. La rivelazione suprema di Dio è il supremo abbassamento (Se vogliamo usare il termine evangelico è la kénosis)
Contempliamo questo abbassamento guardando Maria e Giuseppe che vanno al Tempio di Gerusalemme, per offrire Gesù al Signore come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio che apre il grembo sarà chiamato santo per il Signore e per dare in sacrificio, secondo quanto è detto nella legge del Signore, una coppia di tortore o due pulcini di colomba” (Lc 2, 24-25). Così ci viene ridetta la povertà dei genitori, che non hanno la possibilità di offrire l’agnello. Tuttavia con il cuore pieno di commozione essi offrono tutto quello che hanno: due uccelli piccoli, innocenti e puri. Non sanno ancora che hanno tra le braccia Colui, che Giovanni il Battista indicherà come “Agnello di Dio”.
L'offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, prelude alla sua totale offerta sulla croce.
 Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce anche una lezione di umiltà, ulteriore a quella che ci è stata data a Natale, quando abbiamo contemplato il Figlio di Dio e la sua Madre nella commovente, povera e umile cornice del presepio.
Dio si manifesta nella debolezza, nella povertà, nell'innocenza dell'infanzia e nella purezza, e solamente i puri di cuore vedono Dio. Quelli cioè che hanno gli occhi tersi, puliti perché hanno cambiato la mente. Chi è pentito e purificato, la persona pia che ha rinunciato al modo di vedere e di pensare umano può “vedere” Dio, che si manifesta nella vita degli uomini, e capire quello che Dio compie.
Fra questi puri di cuore ci sono Simeone2 e Anna3 figlia di Fanuele, della tribù di Aser.
Il cuore e gli occhi puri permettono a Simeone di riconoscere in quel bambino, portato da un’umile coppia, il Messia promesso, l'unto del Signore annunciato dai profeti e atteso da secoli. Il vecchio Simeone, uomo giusto e pio, che aspetta la consolazione di Israele (cfr. Lc 2,25) e che, mosso dallo Spirito Santo, si reca in tempio, accoglie tra le braccia il bambino e con animo commosso benedice Dio, perché è arrivata la salvezza per lui, per il suo popolo e per tutte le genti. Con i suoi occhi e col suo cuore purificati dall’attesa, il vecchio profeta riconosce in quel bambino il Salvatore. Ma profetizza anche che quella luce tanto attesa e invocata sarà per molti segno di contraddizione e non di risurrezione, perché non riusciranno ad accogliere la luce della sua parola che svela i pensieri di ogni cuore umano.
L’altra umile persona che accoglie Dio che visita il suo Tempio è Anna. Per grazia di Dio questa donna ha la felicità, la fortuna di vedere il volto di Dio nel bambino Gesù. Credo sia legittimo guardare a questa donna come rappresentante di tutta l’umanità, il cui destino è vedere il Volto di Dio e riflettere in sé tale Volto. Questa vedova rappresenta tutta l’umanità che è vedova perché non ha lo sposo, la sua “altra parte”. L’altra parte dell’uomo è Dio. Questa donna ha la grazia di vederlo faccia a faccia e di gioire per la presenza dello sposo, come lo sposo gioisce della presenza della sposa. Anna finalmente celebra Dio, mentre prima digiunava con suppliche, digiuna notte e giorno nel tempio, e celebra Dio parlando del Bambino, che è la liberazione di tutti. Dunque questa donna rappresenta le nozze finali della Gerusalemme celeste, quando l’umanità si incontrerà con lo Sposo. Sostanzialmente siamo tutti “vedove” in attesa delle nozze, dell’incontro con Dio-Amore.
Si tratta di incontro umile e non appariscente come quello del neonato Figlio di Dio portato nella Casa di Suo Padre. Infatti, non dobbiamo pensare alla Presentazione al Tempio come ad un avvenimento grandioso con una grande processione. Non dobbiamo immaginare l’ammirazione del Sommo Sacerdote che accoglie Gesù a bocca aperta, con e magari i leviti e gli altri sacerdoti tutti intorno. Non è avvenuto nulla di tutto questo, nessuno si è accorto di nulla, fuorché il vecchio Simeone, che ha cantato a Dio il suo canto di ringraziamento perché aveva visto la salvezza, e questa vedova di 84 anni. Ecco a chi è apparso il Signore, a chi si è rivelato, ed ecco coloro che sono i primi messaggeri in Israele dell'avvenimento divino. Guardate che è una cosa molto importante questa. In generale gli evangelisti vedono in Giovanni Battista colui che annuncia, anzi indica il Salvatore del mondo: «Ecco l'agnello di Dio». Ma prima di san Giovanni Battista ci furono Simeone e Anna la profetessa. Se saremo umili e ricchi di pietà potremo fare altrettanto: indicare Cristo con gioia per una vita compiuta, piena di anni e di grazia.

2) Due persone portano il Bambino per offrirlo.
Abbiamo presentato due persone che hanno accolto il Figlio di Dio che “visitava” casa sua, e che hanno saputo riconoscerlo in un piccolo bambino portato da due povere e umili persone: Giuseppe e Maria, che offrivano il “loro” Figlio a Dio. Ora volgiamo lo sguardo a San Giuseppe e, soprattutto, a Maria che è la Madre vergine offerente: “La Chiesa ha intuito nel cuore della Vergine che porta il Figlio a Gerusalemme per presentarlo al Signore, una volontà oblativa, che superava il senso ordinario del rito” (S. Giovanni Paolo II, Marialis Cultus, n. 20). È questa dimensione oblativa che dobbiamo cogliere come messaggio della festa di oggi, per sviluppare in noi quella che potremmo chiamare la spiritualità dell'offerta, che spinge ciascuno di noi a vivere la vita nel dono totale di sé a Dio come il Tutto della propria vita.
Infatti, portato nel Tempio da Maria accompagnata dal suo sposo Giuseppe, Gesù è offerto. Come ricorda il Vangelo, la Madonna è stata certamente mossa a fare questo dall’antica prescrizione mosaica, in forza della quale ogni primogenito apparteneva al Signore. Ma nell’offerta di Cristo, quella prescrizione non solamente è osservata; essa è perfettamente adempiuta. In forza della sua partecipazione alla nostra umanità, il Verbo di Dio è divenuto “il primogenito di molti fratelli” ed offre se stesso per la loro salvezza. “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-7). Immergiamoci oggi nella contemplazione di quest’atto di volontà con cui Gesù Cristo, presentato al tempio, fa della sua vita e della sua umanità un “sacrificio a Dio gradito”.
Oggi, infine, celebriamo i divini misteri soprattutto perché vogliamo ringraziare il Padre per un dono particolare, frutto prezioso dell’offerta di Cristo: la vita consacrata. Nel dono che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce sta la radice del fatto che ci siano uomini e donne che seguono Cristo, amandolo con cuore indiviso, pienamente liberati mediante la pratica dei consigli evangelici.
Guardando alle Vergini Consacrate noi siamo profondamente assicurati che Cristo è morto e risorto per noi: queste donne lo dicono non tanto con le parole quanto con la loro esistenza consacrata. Qual’ è infatti il “nucleo essenziale” della decisione esistenziale di queste persone? E’ l’aver deciso di appartenere esclusivamente e totalmente alla persona di Cristo: la loro vita è una vita consacrata e lo è per sempre. Qualifica questa della loro esistenza che esprime la radicalità del loro essere state afferrate da Cristo e del loro lasciarsi afferrare, senza porre alcuna resistenza. Queste persone consacrate vogliono riposare solamente in Cristo e a Lui totalmente aderire (cfr RCV, n 24), seguendo il loro modello per eccellenza Maria che ha detto: “Ecco l’ancella del Signore, avvenga in me secondo la tua parola” (Lc 1,38).
Radicate in tale appartenenza radicale, completa a Cristo, queste persone consacrate diventano l’espressione perfetta di ogni vita cristiana, la quale consiste nel conformarsi pienamente al Signore Gesù. L’augurio da fare loro è che siano fedeli alla loro vocazione, perché in essa tutti i fedeli, gli sposi ed i pastori della Chiesa vedono svelata la profonda natura della vita cristiana come tale.
In ogni caso, secondo me, oggi si celebra soprattutto la festa del primo incontro di Gesù con il Padre, a cui viene offerto, e subito riscattato, come ogni primogenito. Chiediamoci se siamo davvero pronti a offrire, assieme a Lui, il meglio di noi stessi a Dio, nostro Padre, per poi, “ridonati a noi stessi”, passare nel mondo come benedizione, che illumina il cammino degli uomini in cerca di Dio dà pace e gioia. “Gioia che non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono per gli altri e nel volersi bene” (Benedetto XVI, Angelus del 13.12.2009). Benedizione da chiedere a Dio e condividere con i fratelli come fece Papa Francesco nel momento del primo incontro con la Chiesa e il mondo appena dopo la sua elezione a Vescovo di Roma.


1 La Festa della Presentazione del Signore, dai Cristiani d’Oriente è chiamata Ipapánte, cioè Incontro, perché 40 giorni dopo il suo Natale, Gesù fu condotto da Maria e Giuseppe al Tempio, sia per adempiere la legge mosaica, sia soprattutto per incontrare il suo popolo credente ed esultante, luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele. Con il titolo di “incontro” (hypapànte) la Chiesa bizantina in questa festa vuol soprattutto sottolineare l’incontro di Gesù con l’anziano Simeone, cioè l’Uomo nuovo con l’uomo vecchio, è la festa dell’incontro di Dio, per mezzo dell’incarnazione del Figlio, con l’umanità, con ogni uomo. Questo incontro ha luogo nel Tempio, cioè nella vita ecclesiale di ogni cristiano, di ognuno di noi. In Simeone ed Anna, è rappresentata l’attesa di tutto il popolo d’Israele, che in questo incontro finalmente trova il suo compimento.
E’ chiamata pure Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32) ed ebbe origine nell’Oriente Cristiano. Nel secolo VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. Questo rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: “I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti” (Id.).
La festività odierna era, fino alla riforma del calendario liturgico, chiamata festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della santa Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, in osservanza della Legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di “Presentazione del Signore”, che aveva in origine.
2 Simeone vuol dire “Dio ha ascoltato”, cioè la sua attesa viene compiuta.
3 Anna vuol dire “grazia di Dio”, Fanuele vuol dire “volto di Dio”, Aser vuol dire “felicità, fortuna”.


Lettura Patristica
San Sofronio, vescovo
Discorso 3, sull’«Hypapante» 6, 7
PG 87, 3, 3291-3293

Noi tutti che celebriamo e veneriamo con intima partecipazione il mistero dell’incontro del Signore, corriamo e muoviamoci insieme in fervore di spirito incontro a lui. Nessuno se ne sottragga, nessuno si rifiuti di portare la sua fiaccola. Accresciamo anzi lo splendore dei ceri per significare il divino fulgore di lui che si sta avvicinando e grazie al quale ogni cosa risplende, dopo che l’abbondanza della luce eterna ha dissipato le tenebre della caligine. Ma le nostre lampade esprimano soprattutto la luminosità dell’anima, con la quale dobbiamo andare incontro a Cristo. Come infatti la Madre di Dio e Vergine intatta portò sulle braccia la vera luce e si avvicinò a coloro che giacevano nelle tenebre, così anche noi, illuminati dal suo chiarore e stringendo tra le mani la luce che risplende dinanzi e tutti, dobbiamo affrettarci verso colui che é la vera luce.
La luce venne nel mondo (cfr. Gv 1, 9) e, dissipate le tenebre che lo avvolgevano, lo illuminò. Ci visitò colui che sorge dall’alto (cfr. Lc 1, 78) e rifulse a quanti giacevano nelle tenebre. Per questo anche noi dobbiamo ora camminare stringendo le fiaccole e correre portando le luci. Così indicheremo che a noi rifulse la luce, e rappresenteremo lo splendore divino di cui siamo messaggeri. Per questo corriamo tutti incontro a Dio. Ecco il significato del mistero odierno.
La luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr. Gv 1, 9) é venuta. Tutti dunque, o fratelli, siamone illuminati, tutti brilliamo. Nessuno resti escluso da questo splendore, nessuno si ostini a rimanere immerso nel buio. Ma avanziamo tutti raggianti e illuminati verso di lui. Riceviamo esultanti nell’animo, col vecchio Simeone, la luce sfolgorante ed eterna. Innalziamo canti di ringraziamento al Padre della luce, che mandò la luce vera, e dissipò ogni tenebra, e rese noi tutti luminosi. La salvezza di Dio, infatti, preparata dinanzi a tutti i popoli e manifestata a gloria di noi, nuovo Israele, grazie a lui, la vedemmo anche noi e subito fummo liberati dall’antica e tenebrosa colpa, appunto come Simeone, veduto il Cristo, fu sciolto dai legami della vita presente.
Anche noi, abbracciando con la fede il Cristo che viene da Betlemme, divenimmo da pagani popolo di Dio. Egli, infatti, é la salvezza di Dio Padre. Vedemmo con gli occhi il Dio fatto carne. E proprio per aver visto il Dio presente fra noi ed averlo accolto con le braccia dello spirito, ci chiamiamo nuovo Israele. Noi onoriamo questa presenza nelle celebrazioni anniversarie, né sarà ormai possibile dimenticarcene”.(Disc. 3, sull’«Hypapante» 6, 7; PG 87, 3, 3291-3293).

venerdì 24 gennaio 2020

Seguire Cristo: conversione, comunione e missione

III Domenica del Tempo Ordinario – Anno A - 26 gennaio 2020

Rito Romano
Is 8,23b - 9,3; Sal 26; 1 Cor 1,10-13. 17; Mt 4,12-23
Gesù, Luce del mondo

Rito Ambrosiano – Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Sir 7, 27-30. 32-36; Sal 127; Col 3, 12-21; Lc 2, 22-33


1) Seguire Cristo è la prima conversione.
Il punto centrale del vangelo di oggi è chiaro: seguire Gesù Cristo, che chiama alla comunione con lui.
In effetti, dopo aver annunciato il regno e la conversione, la prima cosa che il Redentore del mondo fa è quella di mostrarci come si realizza il regno di Dio. La modalità principale di questa realizzazione del regno di Dio è seguire Gesù Cristo, perché seguendo lui diventiamo ciò che siamo: figli nel e con il Figlio. Facendo il cammino del Figlio, realizziamo pienamente la nostra verità di figli. Ed è proprio nel camminare di Cristo davanti a noi e nel nostro andargli dietro, magari seguendolo a tentoni e sbagliando, che nasce l’uomo nuovo.
Va tenuto presente che questo cammino di conversione esige non solo una “conversione morale”, che implica un cambiamento di vita. Esso esige una “conversione intellettuale”, che implica un cambiamento nel modo di pensare e di sentire. Esige, infine, una “conversione esistenziale”, che implica vivere della presenza di Cristo, seguito con amorosa fiducia e totale abbandono.
Dunque la conversione non è riducibile ad un piccolo aggiustamento del nostro cammino, ma è una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale, intellettuale ed esistenziale. 
E’ seguendo il Figlio di Dio che la fede diventa realtà, diventa rapporto personale con Lui. Questa relazione non è solo rapporto di amicizia ma di prassi: lo seguiamo, facciamo lo stesso cammino e diventiamo figli in Lui. E’ proprio nel seguire Gesù che si realizza tutto. Seguire Gesù, però, non è un’iniziativa nostra. Lo seguiamo perché chiamati. Il seguire è la nostra risposta alla sua proposta di convertirci, di credere a Lui, di vivere in relazione con Lui e di vivere come Lui, seguendolo

2) La vocazione alla conversione.
Nel brano di oggi l’Evangelista e Apostolo Matteo ci narra che Gesù lasciò Nazareth, dove nel nascondimento aveva vissuto una vita quotidiana così normale che nessuno dei suoi compaesani1 avevano visto in Lui qualcuno di eccezionale, e andò a Cafarnao per portare la luce di Dio. Andò in un luogo, dove c’era una grande mescolanza di ebrei e di altri popoli e per questo era chiamato dai Giudei “Galilea delle genti”, ossia “provincia dei pagani”.
La logica umana si sarebbe aspettata che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme2, ed eccolo invece partire da una regione periferica, la Galilea, generalmente disprezzata e ritenuta contaminata dal paganesimo. Ma proprio ciò che costituisce una sorpresa è per San Matteo il compimento di un'antica profezia e il segno rivelatore di Gesù: il Messia universale che frantuma ogni forma di particolarismo.
Gesù incominciò da questa “apparente” periferia3 per illuminare sia la Città santa che il mondo e il suo annuncio è riassunto da San Matteo in una formula concisa: “Il Regno di Dio è vicino, convertitevi”. Queste prime parole di Gesù sono semplici, poche. San Marco scrive: “Il tempo è compiuto; il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo(Mc 1,15). Le parole riportate nel Vangelo di oggi sono ancora più scarne: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17) e, forse, non chiare per noi moderni per la loro stessa sobrietà. Per capirle, e capire pure la differenza tra il messaggio di Giovanni e l’annuncio di Gesù, ne propongo una spiegazione nel linguaggio nostro, cercando di far emergere il loro eternamente vivo significato.
Il Tempo è compiuto”. Il Tempo aspettato, profetato, annunziato è giunto a pienezza. E’ compiuto il tempo di vivere senza conoscere la bellezza della vita con Cristo. E’ compiuto il tempo degli inganni. E' tempo di farci aprire gli occhi da Dio e contemplare il Suo volto, che poi diventa in parte il nostro.
Il Regno è vicino”. Giovanni il Battista diceva che un Re sarebbe venuto presto a fondare un nuovo regno: il Regno dei Cieli. Gesù dà la lieta notizia che il Re è venuto e che le porte del Regno sono aperte. Il Regno non è la fantasia sorpassata di un povero Ebreo di venti secoli fa; non è una cosa antiquata, una memoria morta, un sogno infranto. II Regno dei cieli è in noi. Comincia da subito: è anche opera nostra, per la felicità nostra, in questa vita, su questa terra. Dipende anche dalla nostra volontà, dal nostro rispondere sì o no alla vocazione di Cristo, che ci chiama ad essere santi, cioè a guardare il cielo, a desiderare il cielo e sperare di vivere sempre in cielo. Il Regno di Dio è pace e gioia4.
Convertitevi” aggiunge Gesù. “Convertitevi”: anche questa “vecchia” parola è stata distorta dal suo senso autentico. La parola del Vangelo in greco “Metanoèite” non si può tradurre in latino con “poenitemini” o in italiano con “fate penitenza”. Metànoia è propriamente il cambiamento del modo di pensare, il cambiamento della mente, la trasformazione dell'anima. Metamorfosi è un mutare la forma; metanoia un mutare lo spirito, è cambiare mentalità. Giustamente la traduzione dice “conversione”, che è il rinnovamento dell'uomo interiore. L’idea di “pentimento” e di “penitenza” non sono che applicazioni e illustrazioni dell’invito di Gesù a girarsi verso di Lui, a muoversi verso la luce.
Il Messia ci invita a convertirci alla luce della verità ed alla beatitudine dell'amore.
Amandolo lo conosceremo meglio, e conoscendolo meglio Lo ameremo ancora di più: si ama bene soltanto quel che si conosce; l'amore fa trasparente chi s’ama. La prima conversione consiste nel credere, nel credere al Verbo di Amore. “La fede in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio.” (Francesco, Lett. Enc. Lumen Fidei, n. 13).

3) Una chiamata nella chiamata.
Il brano dell’Enciclica di Papa Francesco permette di passare al commento della seconda parte del Vangelo odierno che parla della chiamata dei primi discepoli. Questa proposta a seguirLo Gesù la fa sulla riva del lago di Cafarnao, dove Lui stava predicando e dove gli uomini erano intenti al loro lavoro.
Nessuna cornice eccezionale per la chiamata dei primi discepoli: un porto in riva ad un lago, luogo di lavoro per dei pescatori.
Cerchiamo di far emergere i tratti essenziali di questo racconto di vita.
Gesù è il protagonista. Lui è il personaggio centrale. Sua è l'iniziativa (“vide due fratelli” – Pietro e Andrea – “e disse loro: seguitemi”; “vide altri due fratelli” – Giacomo e Giovanni di Zebedeo – “e li chiamò”). Non è l'uomo che si autoproclama discepolo, ma è Gesù che converte l'uomo e lo chiama ad essere suo discepolo, scegliendolo con amore. Il discepolo, poi, non è chiamato in primo luogo ad imparare una dottrina ma a vivere con una Presenza, che è il centro affettivo della sua vita di chiamato Al primo posto c'è l'attaccamento alla persona di Gesù.
Questa adesione esige un profondo distacco. Giacomo e Giovanni, Pietro e Andrea lasciano le reti, la barca e il padre. Lasciano, in altre parole, il mestiere e la famiglia. Il mestiere garantisce sicurezza e stima sociale, il padre rappresenta le proprie radici. Si tratta di un distacco radicale.
Questo distacco permette di rispondere all'appello di Gesù mediante una sequela totale e gratuita. I due verbi “lasciare” e “seguire” che indicano uno spostamento del centro della vita della persona chiamata. L'appello di Gesù non è in vista di una sistemazione sociale, non colloca in uno stato, ma mette in cammino per una missione.
Infine si vede che le caratteristiche del discepolo sono almeno due: la comunione con Cristo (“seguitemi”) e un andare verso l’umanità (“vi farò pescatori di uomini”). La seconda nasce dalla prima. Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato, chiuso: li manda per le strade del mondo. A questo riguardo anche Papa Francesco, parlando del Santo Pietro Favre, gesuita francese, invita a imitare questo “Compagno di Gesù” lasciando che “Cristo occupi il centro del cuore”5.
Anche le Vergini consacrate vivono questa “centralità” di Cristo, seguendolo in pieno abbandono e amorosa fiducia. Imitando i primi 4 apostoli scelti da Gesù. Non è un caso che fossero pescatori. Il pescatore, che vive gran parte dei suoi giorni nella pura solitudine dell'acqua, è la persona che sa aspettare. È la persona paziente, che non ha fretta, che cala la sua rete e si affida in Dio. L'acqua fa i suoi capricci, il lago ha le sue bizzarrie e i giorni non sono mai eguali. Partendo par andare al largo in cerca di pesci, il pescatore non sa se tornerà con la barca colma o senza neanche un pesce da mettere al fuoco per il suo pasto. Si rimette nelle mani del Signore che manda l’abbondanza e la carestia; si consola del giorno cattivo pensando al buono che venne e a quello che verrà.
Con il genio e sensibilità femminile capace di dedizione suprema, le Vergini Consacrate vivono l’analoga chiamata degli apostoli-pescatori, l’analogo cammino di santità di chi va dietro a Cristo con il cuore dilatato, l’analoga umiltà della santa Famiglia di Nazareth (come richiama la liturgia ambrosiana di oggi), della quale evidentemente Gesù era il centro e dove evidentemente la casa dell’uno era l’affetto dell’Altro.
Maria e Giuseppe custodirono e aiutarono a crescere Gesù non solo perché da grande avrebbe detto parole di vita eterna, ma perché sapevano nella fede che Lui era la Parola di Vita per sempre.

1 “Non è costui il figlio di Giuseppe?” (Lc 4, 22). Marco e Matteo aggiungono: “Non è costui il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E la sue sorelle non stanno qui da noi? E si scandalizzavano di lui” (Mc 6,3; cf Mt 13,55).

2 Ai tempi della vita terrena di Cristo Gerusalemme era il centro religioso per un fedele ebreo, ma politicamente si poteva considerare marginale rispetto al potere romano.

3 Va tenuto presente che Cafarnao, lontana dal Tempio, è più vicina al mare Mediterraneo e sulla rotta delle carovane dei mercanti, e diventa il crocevia di una nuova storia, quella della salvezza.

4 Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini”(Rm 14, 17-18).
 
5Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le periferie del mondo! E Favre ha viaggiato senza sosta anche sulle frontiere geografiche tanto che si diceva di lui: «pare che sia nato per non stare fermo da nessuna parte» (MI, Epistolae I, 362). Favre era divorato dall’intenso desiderio di comunicare il Signore. Se noi non abbiamo il suo stesso desiderio, allora abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera e, con fervore silenzioso, chiedere al Signore, per intercessione del nostro fratello Pietro, che torni ad affascinarci: quel fascino del Signore che portava Pietro a tutte queste “pazzie” apostoliche.” (Francesco, Omelia nella Chiesa del Gesù a Roma, 3 febbraio 2014).

Lettura Patristica

Dal Commento al vangelo di Matteo
di Cromazio di Aquileia

Avendo saputo che Giovanni era stato arrestato, si ritirò in Galilea [e ciò che segue fino a] su quelli che dimoravano nell’ombra di morte una luce si è levata. Lasciata, dunque, Nazaret, il Signore e Salvatore nostro illuminando con la sua presenza diversi luoghi della Giudea, che si era degnato di visitare, giunse nel territorio di Zabulon e di Neftali per adempiere la predizione profetica e cacciato l’errore tenebroso, infondere la luce della sua conoscenza in coloro che credevano in lui, non solo Giudei, ma anche gentili. Questo fatto l’evangelista ricorda nel presente passo, richiamandosi alle parole del profeta col dire: Al di là del Giordano il popolo di Galilea delle genti, che dimorava nelle tenebre, vide una grande luce. In quali tenebre? Certamente nel profondo errore dell’ignoranza. Qual è la grande luce che vide? Quella di cui sta scritto: Era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv 1, 9). Di ciò diede testimonianza il giusto Simeone nel Vangelo, dicendo: Luce che hai preparato per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele (Lc 2, 31-32). Che questa luce si doveva levare un giorno nelle tenebre aveva predetto anche Davide, dicendo: È sorta nelle tenebre una luce per i retti di cuore (Sal 111, 4). Anche Isaia parla di questa luce che sarebbe sorta per illuminare la Chiesa, dicendo: Rivestiti di luce, rivestiti di luce, Gerusalemme, perché giunge la tua luce e la maestà del Signore è sorta in te (Is 60, 1) […].
2.
Di questa luce, dunque, nel presente passo è stato detto: Il popolo, che dimorava nelle tenebre, ha visto una grande luce. Ha visto, però, non con la vista del corpo, perché è una luce invisibile, ma con gli occhi della fede e con la visione dello spirito… Prosegue, quindi: Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino. Affinché queste parole del Signore, con le quali esorta a convertirsi, fossero ascoltate, lo Spirito Santo, in precedenza, anche per bocca di Davide, aveva invitato il popolo alla penitenza, dicendo: Se ascolterete oggi la sua voce, non indurite i vostri cuori, come per metter alla prova, quando mi tentarono nel deserto (Sal 94, 8-9). In questo stesso salmo poco sopra, per invitare il popolo peccatore alla penitenza e suggerire sentimenti di compunzione, così si esprime: Venite, prostriamoci davanti a lui e innalziamo suppliche al cospetto del Signore che ci ha creati, perché egli è il nostro Dio. Il Signore esorta alla penitenza, lui che promette il perdono del peccato, lui che dice per bocca d’Isaia: Sono io, sono io che cancello le tue iniquità e non ricorderò i tuoi peccati. Ma tu ricordatene, accusa tu per primo le tue colpe, per essere giustificato (Is 43, 25-26)… Giustamente dunque, il Signore esorta il popolo alla penitenza dicendo: Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino, affinché, in seguito a questa confessione del loro peccato, diventassero degni del regno dei cieli che si avvicinava. Uno, infatti, non può ricevere la grazia del Dio del cielo, se non sarà purificato da ogni sozzura di peccato mediante la confessione di penitenza, mediante il dono del battesimo della salvezza del Signore e Salvatore nostro.
3
Prosegue, poi: Passando lungo il mare vide due fratelli [e ciò che segue fino a] e subito, lasciata la barca e il padre loro, seguirono. O felici questi pescatori che il Signore scelse per primi al ministero della predicazione divina e alla grazia dell’apostolato tra tanti dottori della Legge e scribi, tra tanti sapienti del mondo! E certamente degna del Signore nostro e conveniente alla sua predicazione fu tale scelta, per ottenere che nella predicazione del suo nome nascesse un’ammirazione che avrebbe suscitato una lode tanto più grande, quanto più meschini nel mondo e umili nel secolo ne fossero stati i predicatori. Questi non avrebbero conquistato il mondo per mezzo della sapienza della parola, ma avrebbero liberato il genere umano da un errore mortale mediante la semplice predicazione della fede, come dice l’Apostolo: Perché la vostra fede non sia fondata sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio. E ancora: Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto, per confondere i sapienti, e ha scelto ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti, e ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzabile e ciò che è nulla, per distruggere le cose che sono (1 Cor 1, 2-5). Non scelse, dunque, i nobili del mondo o i ricchi, perché la predicazione non destasse sospetto, non i sapienti della terra così che si potesse credere che aveva persuaso il genere umano mediante la sapienza mondana, ma scelse i pescatori, illetterati, inesperti, ignoranti, perché fosse evidente la grazia del Salvatore. Umili, è vero, nel mondo anche per l’esercizio della loro arte, ma veramente eccelsi per la fede e per l’ossequio del loro animo devoto, spregevoli per la terra, ma graditissimi al cielo, ignobili per il mondo, ma nobili per Cristo, non iscritti nell’albo del senato di questa terra, ma iscritti nell’albo degli angeli in cielo, poveri per il mondo, ma ricchi per Dio. Infatti il Signore sa chi scegliere lui che conosce i segreti del cuore, quelli certamente che non cercavano la sapienza del secolo, ma desideravano la sapienza Dio, né bramavano le ricchezze del mondo, ma aspiravano ai tesori celesti. Perciò, come sentirono il Signore dire: Venite dietro di me, subito, lasciate le loro reti e il padre e ogni loro bene, lo seguirono. E in ciò si dimostrarono veramente figli di Abramo perché sul suo esempio, udita la voce di Dio, seguirono il Salvatore. Rinunciarono, infatti, subito ai proventi materiali, per conseguire il guadagno eterno, lasciarono il padre terreno, per avere un Padre celeste, e perciò, non a torto, meritarono di essere scelti.
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Il Signore, dunque, scelse dei pescatori che, mutando in meglio il mestiere della pesca, dalla pesca terrena passarono a quella celeste, per catturare come pesci dal profondo gorgo dell’errore il genere umano per la sua salvezza, conforme a ciò che lo stesso Signore disse loro: Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini. Questa stessa cosa aveva precedentemente promesso, per bocca del profeta Geremia, dicendo: Ecco, io manderò molti pescatori, dice il Signore, e li pescheranno. E dopo di ciò manderò dei cacciatori, e li cattureranno (Ger 16, 16). Perciò, sappiamo che gli apostoli furono chiamati non solo pescatori, ma anche cacciatori: pescatori, perché per mezzo delle reti della predicazione evangelica catturano dal mondo tutti i credenti come pesci; cacciatori, poi, perché, per la loro salvezza, catturano, come una caccia voluta dal cielo, gli uomini che vagano nell’errore di questo mondo come in una selva e vivono a guisa delle fiere… Mediante la predicazione apostolica, pertanto, ogni giorno i credenti sono catturati per vivere. E guarda quant’è diversa questa celeste pesca degli apostoli dalla pesca di questa terra. I pesci, infatti, quando sono catturati, muoiono. Gli uomini, invece, sono catturati perché vivano, secondo ciò che il Signore disse Pietro, quando aveva preso una grande quantità di pesci: Non temere: d’ora in poi sarai colui che dà la vita agli uomini.
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Anche Ezechiele, riferendosi apertamente a questi pescatori evangelici in quanto catturano i pesci perché abbiano la vita: E là ci sarà, disse, una gran quantità di pesce, perché là è venuta quest’acqua e sarà salvo e vivrà ogni uomo a cui giungerà questo fiume, e sederanno i pescatori e in disparte asciugheranno le reti, e i suoi pesci saranno come pesci di un grande mare, una quantità abbondantissima. Mirabile, dunque, è questa pesca e meravigliosi i pescatori, che pescano non perché ne muoiano quelli che catturano, ma perché vivano. Secondo quanto avviene su questa terra vivono i pesci che non sono catturati, in questa pesca, invece muoiono quelli che non meritavano di essere catturati. Come, appunto, la pesca di questi pescatori catturi per dare la vita quelli che cattura mostra chiaramente il profeta nella citazione riportata più sopra: Poiché là è venuta quest’acqua e vivrà il pesce a cui giungerà questo fiume. Certamente il profeta non parla di quest’acqua comune né di un fiume terreno, ma dell’acqua del battesimo della salvezza e del fiume della predicazione del Vangelo, dal quale i credenti traggono l’alimento della vita. Vuoi sapere qual è quest’acqua che risana, che cura, che dà la vita? Ascolta: il Signore che dice nel Vangelo: Chi berrà dell’acqua che do io non avrà sete in eterno, ma in lui ci sarà una fonte di acqua zampillante per la vita eterna (Gv 4, 13-14). Vuoi sapere anche che cosa sia questo fiume nel quale si ha la vita? Ascolta il profeta che dice: L’impeto del fiume rallegra la città di Dio (Sal 45, 5). Così, dunque, mentre costoro pescano siamo catturati dal mare di questo mondo, siamo tratti dal gorgo dell’errore, per rinascere nell’acqua del battesimo e, purificati dal fiume del Vangelo, rimanere in vita.
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Prosegue, poi: E Gesù percorreva tutta la Galilea [e ciò che segue fino a] e al di là del Giordano. Che questo sarebbe avvenuto aveva predetto Isaia dicendo: Egli ha preso su di sé nostre sofferenze e ha guarito la nostra pena. Per questo, infatti era venuto il maestro di vita e il medico celeste, Cristo Signore, cioè per istruire gli uomini col suo insegnamento, fonte di vita, e per guarire con la medicina celeste i mali del corpo e dell’anima, per liberare i corpi posseduti dal diavolo e ricondurre alla vera e completa salute coloro che erano affetti da ogni sorta d’infermità. Infatti, curava le malattie fisiche con la parola della potenza divina e con la medicina dell’insegnamento celeste risanava le ferite dell’anima. E Davide mostra con chiarezza che tali ferite dell’anima sono guarite solo da Dio, quando dice: Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare tutti i suoi benefici. E aggiunse: Egli perdona tutte le tue colpe e guarisce tutte le tue malattie (Sal 102, 2-3). Vero, dunque, e perfetto medico è quello che dona sanità del corpo e rende la salute dell’anima, il Signore e Salvatore nostro, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. (Cromazio di Aquileia, Commento a Matteo, Trattati 15-16).

venerdì 17 gennaio 2020

Giovanni il Battista indicò Gesù quale Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo

II Domenica del Tempo Ordinario – Anno A - 19 gennaio 2020

Rito Romano
Is 49, 3. 5-6; Sal 39; 1 Cor 1, 1-3; Gv 1, 29-34

Rito Ambrosiano – II Domenica dopo l’Epifania
Nm 20, 2. 6-13; Sal 94; Rm 8, 22-27; Gv 2, 1-11


1) Incontrare lo straordinario di Cristo nella nostra vita ordinaria.
Con questa Domenica inizia il Tempo ordinario1,dell'anno liturgico, durante il quale la Chiesa non celebra un particolare mistero della vita del Signore e della storia della salvezza, ma il mistero di Cristo nella sua totalità.
In questo tempo ordinario la liturgia ci invita a seguire quotidianamente il Redentore e lo fa prendendo le mosse dal battesimo di Gesù nel Giordano. In questo anno A, ci propone il resoconto che fa l’apostolo Giovanni, in cui si racconta che da ogni parte della Giudea la gente andava numerosa da Giovanni il Battista per ascoltarlo e farsi battezzare da lui nel Giordano, confessando i propri peccati. La fama di questo “più che profeta” battezzatore era così aumentata che molti si domandavano se fosse lui il Messia. Ma lui rispondeva con fermezza: “Io non sono il Cristo” (Gv 1,20). Egli comunque resta il primo “testimone” di Gesù, avendone ricevuto indicazione dal Cielo: “L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,33). Questo precisamente accadde quando Gesù, ricevuto il battesimo, uscì dall’acqua: Giovanni vide scendere su di Lui lo Spirito come una colomba. Fu allora che “conobbe” la piena realtà di Gesù di Nazareth, e iniziò a farlo "conoscere a Israele" (Gv 1,31), indicandolo come Figlio di Dio, redentore dell’uomo, e dicendo: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Proprio da questo versetto inizia la lettura evangelica di oggi, che ci offre la testimonianza del Battista che indica con il dito e dice con la bocca chi è Cristo, l’Agnello che porta su di sé, che porta via il male del mondo e libera l’uomo.
La testimonianza parte sempre da un dire, da un dire che è un punto di arrivo di un’esperienza.
Al dire corrisponde un’altra cosa: l’udire. Una parola se è detta, ma non ascoltata, non esiste; se la parola è come un seme, l’orecchio è come il grembo materno che l’accoglie, come la terra. Il discepolo è colui che ascolta la parola. E cosa succede quando ascoltiamo? Capiamo la parola, quindi la parola dà delle informazioni alla nostra intelligenza. Nel caso se la cosa sia vera e ci interessi, la amiamo. Dunque, la parola non solamente informa l’intelligenza, ma anche il cuore, l’amore e la volontà e poi passiamo all’azione: la parola informa il nostro agire.
Dall’ascolto per l’uomo viene tutto: viene la sua intelligenza, la sua volontà, la sua azione. Quindi, la parola ci determina totalmente, diventiamo la parola che ascoltiamo e i discepoli ascoltano questa parola, ascoltare è il secondo termine fondamentale, senza ascolto non c’è nulla.

2) L’Agnello di Dio.

Per una comprensione più approfondita di questi avvenimenti, la Liturgia di oggi ce li fa esaminare alla luce della divinità di Gesù, la cui incarnazione rende la vita santuario della divinità. Non solo la sua vita è divina. Con la salvezza da lui portata portando via i peccati, la nostra vita quotidiana, il nostro lavoro, le nostre gioie e tenerezze diventano l’ambito della santità divina.
In Gesù, Agnello di Dio2, la santità si rivela come formidabile promozione della vita e dell’uomo. E l’uomo, perdonato, è trasfigurato, è reso figlio di Dio et artigiano di luce con le sue mani.
Nel giorno della sua ordinazione, il prete riceve la consacrazione delle mani. E’ un fatto magnifico. Ma nel Cristo tutte le mani sono sante, tutte le mani sono consacrate, tutte le mani possono diventare mani di luce.
Nel Cristo tutti i corpi sono chiamati a diventare Tempio dello Spirito Santo e Membra di Gesù Cristo. Il Tempio che noi siamo è molto più bello di ogni chiesa fatta di pietra e Dio è in noi più che in una chiesa, perché è in quella chiesa per essere in noi.
Nel Vangelo tutti i volti sono chiamati a irradiare il Volto di Cristo. La vocazione che Lui offre quando ci è presentato come Agnello di Dio non è una chiamata ad entrare in un ambito proibito. Per raccoglierci in unità ci invita alla mensa, dove “molto semplicemente” si mangia del pane e del vino, che il sacramento ha reso il corpo ed il sangue dell’Agnello di Dio, perciò diventiamo Colui che mangiamo.

3) L’Agnello di Dio che perdona.


Nel brano evangelico di questa domenica (Gv 1,29-34) troviamo una professione di fede in Cristo che si articola in tre affermazioni:
Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (1,29), l’Agnello che conduce alla sorgente della vita, della felicità, e asciuga ogni lacrima dai nostri occhi (cfr. Ap 7,14-17);
Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba e fermarsi su di Lui”(1,32);
E “il Figlio di Dio” (1,34).
La dichiarazione su cui mi soffermo in particolare è la prima: “Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, mettendoli su di sé. L’Immacolato, il quale cancella il peccato del mondo con le sue sofferenze e con la sua morte, svela il Suo Cuore a questo mondo che vuole misurare tutto, persino Dio e il suo dono. Oggi, come ad ogni Messa, ci è chiesto di accogliere questa affermazione come di fatto è: indicazione del dono eucaristico di Dio a noi e di rispondervi come la liturgia ci chiede: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di' soltanto una parola e io sarò salvato”. L’Agnello, che il prete mostra elevando l’ostia, è da adorare nella sua divina umiltà e da mangiare nella comunione alla sua infinita carità.
Per capire bene il brano del Vangelo di oggi, riandiamo alla scena che esso descrive. Trascorsi i quaranta giorni nel deserto dove era andato dopo il battesimo di Giovanni, Gesù ritorna dal Battista. Questi deve essere rimasto sconvolto dal vedere il Figlio di Dio tornare da lui e per di più con un aspetto di uomo provato dal digiuno e dalle tentazioni subite nel deserto. Giovanni sa che l’uomo che gli viene incontro di nuovo è il Figlio di Dio, l’Amato. Vede il Messia, che è della tribù di Giuda, ma in lui non percepisce il Leone di Giuda, vede l’Agnello di Dio, la vittima che si offriva liberamente in sacrificio perché il mondo fosse redento.
Riconobbe tra la moltitudine dei peccatori lo splendore innocente dell’Uomo-Dio, che aveva lasciato la gloria del Cielo per andare al macello sulla Terra e lo indicò ai discepoli come persona da seguire al suo posto.
I discepoli non capirono, non erano in grado di capire cosa volesse dire il loro maestro Giovanni indicando il Maestro Gesù come l’Agnello, immagine non chiaramente nota agli ebrei per indicare il liberatore tanto atteso. Noi invece sappiamo (o almeno possiamo saperlo) che nel Nuovo Testamento agnello ricorre quattro volte3 e sempre in riferimento a Gesù. In effetti fin dagli inizi la Chiesa guardò Gesù come Gesù vedeva se stesso, e cioè come il servo di Dio - innocente, sofferente e paziente - come un agnello, condotto al macello. Inoltre in aramaico “talja” significa sia “agnello” che “servo”. Infine secondo Giovanni4 Gesù è paragonato all'agnello pasquale, come si deduce dal fatto che la crocifissione ebbe luogo in coincidenza con la Pasqua ebraica e addirittura con l'ora stessa in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli per il sacrificio pasquale (Come si può leggere anche nel libro Gesù di Nazareth di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Milano 2007, pp 446).
Il Vangelo di oggi ci mette di fronte alla missione di tenerezza di Cristo che domanda la collaborazione del nostro amore. Questo Vangelo ci fa mettere i nostri passi nei passi di Gesù e ci domanda di accompagnarlo fino alla fine, di realizzare questo piano misterioso in cui il trionfo di Dio deve compiersi nella “sconfitta” della Croce affinché sappiamo che non si tratta per noi di aspettare a braccia conserte la realizzazione di un destino che si compie senza di noi. Al contrario noi siamo coinvolti nel lavoro per costruire con Dio un mondo fondato sull’amore, un mondo la cui dimensione creatrice è una dimensione di generosità e di dono di sé, con Cristo, per Cristo e in Cristo.
La Chiesa conserva sempre nel suo cuore il Cuore dello Sposo e nel cuore della Chiesa è sempre possibile vivere la santità e divenire la sposa bella dell’Agnello immolato.
In ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate. Esse hanno risposto di sì a Cristo sposo e grazie a quel sì la loro presenza nella Chiesa e nel mondo è un Vangelo vivente, una testimonianza di Dio, che loro offrono, rivelano e comunicano senza bisogno di parlare. La loro vita è vita di comunione d'amore con Cristo, che chiama, perdona e dimora con noi conformando noi a Lui: “Nella vita consacrata, dunque, non si tratta solo di seguire Cristo con tutto il cuore, amandolo «più del padre e della madre, più del figlio o della figlia» (cfr Mt 10, 37), come è chiesto ad ogni discepolo, ma di vivere ed esprimere ciò con l'adesione «conformativa» a Cristo dell'intera esistenza , in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo e secondo i vari carismi, la perfezione escatologica”. (San Giovanni Paolo II, Es. Ap. Post-Sin. Vita Consecrata, N.16).
1 Il tempo ordinario è costituito da 33 o 34 settimane, distribuite tra la festa del Battesimo del Signore e l’inizio della Quaresima (primo periodo), e tra la settimana dopo Pentecoste e la Solennità di Cristo Re (secondo periodo).
Due elementi sono fondamentali per cogliere il significato e l’importanza del tempo ordinario: il lezionario, che con la lettura semicontinua dei vangeli sinottici ritma il cammino delle domeniche e dei giorni feriali, e la domenica, come giorno del Signore e primo giorno della settimana. Di domenica, in ogni ciclo annuale, si legge un diverso evangelista. Nell’anno A Matteo, nell’anno B Marco, nell’anno C Luca. Le prime letture tratte dall’Antico Testamento sono scelte in base al brano evangelico, in modo che ci sia un rapporto di promessa-compimento, profezia-realizzazione. Le seconde letture invece seguono la lettura semicontinua dell’epistolario paolino, della lettera di Giacomo e della lettera agli Ebrei. Anche nei giorni feriali si segue il criterio della lettura semicontinua dei testi biblici. Si leggono ogni anno i tre vangeli sinottici: Marco (settimane 1-9); Matteo (settimane 10-22); Luca (settimane 23-34).
2 E’ sorprendente la caratterizzazione di Gesù come “l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, frase che si può tradurre anche così: ‘che porta su di sè il peccato del mondo’. La parola greca significa ‘allontanare, levar via', e per fare ciò naturalmente ciò che dev'essere portato via dev'essere caricato sulle spalle.
Per togliere il peccato del mondo l'Agnello prende su di sé le conseguenze del peccato espiando al nostro posto, e così toglie ogni effetto al peccato, o meglio alla colpa del peccato, lo mette da parte. Perciò l'espressione riunisce in sè le due cose, l'assunzione del peso e la sua eliminazione. Questa esegesi illustra bene l’ambivalenza dell'espressione greca ho airon ten hamartian tou kosmou (lat. qui tollit peccatum mundi), il cui verbo greco airo, al pari del latino tollere significa sia portar via, sia prendere su di sé, caricarsi sulle spalle (mentre purtroppo questa ambivalenza di significato non si riscontra nella traduzione italiana togliere). Non è erudizione filologica fine a se stessa. Con questa espressione, infatti, il Vangelo si riferisce sia al quarto carme del Servo del Signore (Is 53,1-12), sia all'agnello espiatorio di Levitico 14, 12-13, sia infine all'agnello pasquale (Es 12, 1-14; Gv 19,36) che diventa il simbolo della redenzione.
3 Gv 1,29.36; At 8,32; 1Pt 1,19.
4 Gv 19,36.

Lettura Patristica
San Gregorio Nazianzeno (330-390),
Vescovo, Dottore della Chiesa
Discorso teologico 4
Seguire l'Agnello di Dio
        “Gesù è Figlio dell'uomo, a motivo di Adamo e a motivo della Vergine da cui discende... Egli è Cristo, l'Unto, il Messia, a motivo della sua divinità; questa divinità è l'unzione della sua umanità..., presenza totale di Colui che così lo consacra... Egli è la Via, perché lui in persona ci conduce. È la Porta, perché ci introduce nel Regno. È il Pastore, perché guida il suo gregge ai pascoli erbosi e lo fa bere ad un'acqua dissetante; gli indica la via da percorrere e lo difende dalle bestie selvatiche; riporta la pecora smarrita, ritrova la pecora perduta, fascia la pecora ferita, custodisce le pecore in buona salute e grazie alle parole che gli ispira la sua scienza di Pastore, le raduna nell'ovile di lassù.

        
Egli è anche la pecora, perché è la vittima. È l'Agnello, perché è senza difetto. È il Sommo sacerdote, perché offre il Sacrificio. È Sacerdote alla maniera di Melchisedek, perché è senza madre nel cielo, senza padre sulla terra, senza genealogia lassù. Infatti, dice la Scrittura: «Chi dirà la sua generazione». È anche Melchisedek perché è Re di Salem, Re della Pace, Re della giustizia... Questi sono i nomi del Figlio, Gesù Cristo, lo stesso «ieri, oggi e sempre», corporalmente e spiritualmente, e lo sarà per sempre. Amen.

riferimenti biblici : Mt 24,27 ; Mt 1,16 ; Gv 14,6 ; Gv 10,9 ; Gv 11 ; Sal 22 ; Is 53,7 ; Gv 1,29 ; Eb 6,20 ; Eb 6,20 ; Eb 7,3; Is 53,8 ; Eb 7,2 ; Eb 13,8)