venerdì 25 ottobre 2019

La preghiera per arrivare a Dio deve partire da un cuore umile.

Rito romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2019
Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Rito ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20


  1. Due tipi di preghiera.
Come il fariseo e il pubblicano della parabola proposta dal Vangelo di oggi, anche noi andiamo “nel tempio a pregare”. (cfr Lc 18,9-14). Anche noi potremmo essere tentati, come il fariseo, di ricordare a Dio i nostri meriti. Ma, per salire al Cielo, la preghiera deve partire da un cuore umile, povero e pentito. E quindi anche noi andiamo a Messa prima di tutto per rendere grazie a Dio, non per i nostri meriti, ma per i doni che Dio ci ha fatti e costantemente ci fa. Ci riconosciamo piccoli e bisognosi del suo amore misericordioso che ci salva. Dunque, riconosciamo che tutto viene da Lui e che solo con la sua Grazia si realizzerà quanto lo Spirito Santo ci dice. Solo così potremo “tornare a casa” veramente arricchiti, resi più giusti e più capaci di camminare sulle vie del Signore nella vita di ogni giorno.
Ma prima di spiegare il Vangelo di oggi, penso sia utile presentare brevemente il suo contesto. Siamo nella seconda parte del cammino di Gesù a Gerusalemme, dove Gesù continua ad istruire i suoi discepoli sullo spirito del Figlio, che è spirito di accoglienza e di misericordia. San Luca, al cap 13 quando i discepoli chiedono “chi sarà salvato?”, racconta che Gesù risponde: “Sforzatevi per entrare per la porta stretta”. La salvezza è una porta stretta, talmente stretta che non entra nessun giusto, entrano invece tutti i peccatori, perché la salvezza è l’amore gratuito di Dio e l’amore gratuito ce l’ha non chi vuol meritarlo – il giusto – ma chi l’accoglie come dono e come grazia, cioè il peccatore. E allora nel capitolo 14 ridimensiona il cosiddetto “giusto”. In questo capitolo del Vangelo di Luca leggiamo di un fariseo che invita Gesù a pranzo e davanti c’è un idropico e l’idropico è l’immagine del fariseo, cioè del giusto, il quale usa i doni di Dio per gonfiarsi sempre di più di orgoglio e di morte. E allora quell’idropico per il quale tutto ciò che mangia invece che diventare energia e vita diventa principio di morte, è immagine del giusto che usa il suo essere giusto per condannare gli altri.
Quindi è colui che pensa di essere giusto che fa il vero peccato contro Dio, considera Dio come cattivo e terribile e vende il suo amore pretendendo di essere “pagato” con una ricompensa divina. Dio non è cattivo, è ricco di misericordia e le parabole delle misericordia (cap. 15) esprimono con chiarezza questa verità. Anche il capitolo 16 è su questo. Nei capitoli successivi, si parla della seconda parte del cammino che comincia con la guarigione dei 10 lebbrosi che sono inviati a Gerusalemme – cosa impossibile – e guariscono durante il cammino. Cioè noi, ascoltando la Parola di Gesù così come siamo - peccatori, lebbrosi, impossibilitati ad andare a Gerusalemme - possiamo guarire se abbiamo fede nella Parola. Dunque, se nella vita quotidiana, a casa e al lavoro, viviamo con criteri nuovi insegnati da Cristo e non con il lievito dell’ipocrisia, del protagonismo, della paura, viviamo già il Regno di Dio perché viviamo con lo spirito del Figlio che sa farsi fratello degli altri. In effetti, il Regno di Dio c’è dove ci sono persone che desiderano il Signore e che lo amano e lo seguono. Quando noi amiamo come lui il Padre e i fratelli, ecco che siamo nel Regno di Dio. E la fede è questo: desiderare questa comunione nella preghiera col Signore.
Insomma, la parabola di oggi ci è ricordato che ci sono due modi per cercare di essere in comunione con Dio. La parabola del pubblicano e del fariseo ci descrive due tipi di preghiera, come ci sono due tipi di uomini, che vivono in noi ed essa è una parabola molto provocante, che è un po’ la sintesi di tutte le parabole che abbiamo visto sulla misericordia e che ci istruisce su quale deve essere la nostra preghiera per essere vera, cioè quale deve essere il nostro rapporto con Dio e il nostro rapporto coi fratelli, perché la preghiera serve per avere un rapporto nuovo con Dio. Se abbiamo un nuovo rapporto con Dio che è Padre, abbiamo un nuovo rapporto coi fratelli.

2) La preghiera deve essere umile.
Oggi, dunque, Cristo completa il suo insegnamento sulla preghiera, sottolineando che la preghiera è vera e efficace, quando è umile. Tuttavia, non dimentichiamo quanto la Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato affermando che, per essere vera, la preghiera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante.
Nell’introduzione al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). E questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti, si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole”.
Per pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia" (Sal 33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come” viviamo il nostro rapporto con Dio.
Di conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me, perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona ambrosiana).
Esaminiamo ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
Iniziamo dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
Però Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché? Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante, facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti ringrazio» detto all'inizio non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c'è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Passiamo ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l'opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»1 (Lc 18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei romani invasori e pagani, ed è esoso nell'esigere le tasse. E’ certamente un peccatore, ma è consapevole di essere peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende la misericordia.
La conclusione è chiara e semplice: l'unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.

3) Il perdono ricrea.
Dunque, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come quello di un bambino.
Come Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio” a noi quali peccatori sinceramente pentiti, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita di fede.
Il fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la genericità non offende nessuno - ma proseguì “o anche come questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
Imitiamo Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” della sua Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per questo Dio l'ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
Le Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria - perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel mondo intero.

1 Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più, perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. Inoltre lui sa che le parole a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole, tutto perdona: tutti riconcilia

Lettura spirituale
Card. John-Henri Newman
Umiltà di spirito e santità
estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29

Le parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel san­gue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a par­lare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione pro­prio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) - « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) - « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) - insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.

venerdì 18 ottobre 2019

Pregare è libertà

Rito romano
XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 20 ottobre 2019
Es 17, 8-13a; Sal 120; 2 Tm 3, 14 - 4, 2; Lc 18, 1-8
Necessità di pregare insistentemente, senza stancarsi.

Rito ambrosiano
Dedicazione del Duomo di Milano,
Is 60,11-21; Sal 117; Eb 15-17.20-21; Lc 6,43-48
Uno abita dove è amato.


1) Necessità della preghiera
In questa domenica le letture della Messa ci propongono un insegnamento fondamentale: la necessità di pregare sempre, senza stancarsi.
Ma prima di cercare di capire come sia possibile pregare sempre e instancabilmente, conviene rispondere a questa domanda: “Che cos’è la preghiera?”
Pregare ha la stessa radice di precario: vuol dire che possiamo avere una cosa soltanto se la chiediamo e qualcuno ce la dà. In effetti il nostro rapporto con Dio, come con le persone, è sempre precario. Ogni relazione è precaria: ce l’abbiamo perché la desideriamo, ma non possiamo pretenderla, e l’altro te la dà gratuitamente. Dunque di per sé la preghiera è l’atto fondamentale di relazione che c’è tra le persone; infatti la prima cosa che si insegna al bambino è quella di chiedere e di dire grazie, sempre.
Per questo Cristo di dice che “dobbiamo” pregare sempre. Troppo spesso noi ci stanchiamo di pregare e abbiamo l'impressione che la preghiera non sia tanto utile per la vita, che sia poco efficace. Perciò siamo tentati di dedicarci all'attività, di impiegare tutti i mezzi umani per raggiungere i nostri scopi, e non ricorriamo a Dio. Gesù invece afferma che “bisogna pregare sempre”.
Ciò che non è preghiera, ciò che non rientra nel rapporto di grazia, nel rapporto di dono, è morto. Ogni cosa che non è ottenuta per amore orante, che non è data per amore gratuito, è data per egoismo.
La preghiera costante fa della nostra vita un dono costante e ci stabilisce in una relazione filiale costante con Dio, Creatore e Padre. Inoltre, non dimentichiamo che la preghiera non ha come scopo di informare Dio circa i nostri bisogni, che Lui conosce infinitamente meglio di noi. Non si propone neppure di convincerLo ad acconsentire alla soddisfazione delle nostre esigenze, ma piuttosto di far coincidere la nostra volontà con la sua, perché il suo amore abbia nel nostro una risposta sempre più perfetta.
La preghiera è una consegna e un abbandono di se stessi a Dio Padre, che ci libera e fa rinascere. La preghiera, che molti considerano come una schiavitù, in verità è la consacrazione della nostra libertà. Infatti essa, giustamente, significa che non siamo più rinchiusi nel determinismo del mondo fisico e siamo liberati dalla morsa impersonale di forze incoscienti, ma abbracciati da una Presenza vivificante e sostenuti da una tenerezza infinita, con la possibilità di trasformare incessantemente la nostre dipendenza in un’offerta d’amore.
Insomma, la preghiera è la nostra comunione con il Figlio e con il Padre, che ci mette in comunione con il creato come dono e con gli altri come fratelli: è la vita umana, pienamente realizzata. Per questo bisogna pregare sempre. Senza però scoraggiarsi se Dio sembra sordo ad ascoltare la nostra preghiera. Infatti non è importante ciò che ci dà: importante è che noi stiamo con lui e abbiamo fiducia in lui. Questo è il vero frutto della preghiera

2) La preghiera deve essere insistente.
Nella prima lettura e nel vangelo di oggi ci sono presentate due persone che “usano” la preghiera1: Mosè che fa vincere la battaglia agli ebrei e ottiene da Dio giustizia contro i nemici, perché prega insistentemente tenendo le mani alzate, e la vedova che con la sua insistente costanza ottiene da un giudice ingiusto che le faccia giustizia.
Il brano evangelico di oggi ci parla del Messia, il quale per dare un insegnamento sulla preghiera si serve della figura di una donna vedova, che per la mentalità del tempo è quasi un'emarginata. In effetti, nella Bibbia si difendono “gli orfani2 e le vedove3”, perché sono le persone più deboli e vulnerabili, le più esposte ad ogni prepotenza, ad ogni ingiustizia: le più indifese. Gesù valorizza questa povertà e racconta di questa donna indifesa, che da tempo soffre delle ingiustizie, ma non si scoraggia e affronta un giudice arrogante, uno di quelli che il grande profeta Isaia stigmatizzava così: “Guai a coloro che fanno decreti iniqui, e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri, e per frodare il diritto dei poveri, per far delle vedove la loro preda, e spogliare gli orfani...” (Is.10,1-2).
Con stupefacente ostinazione la voce della vedova si leva contro l’arroganza di questo magistrato: “Fammi giustizia contro il mio avversario” (Lc 18,3).
Nelle parole della donna c'è una straordinaria forza di un’“orante” che vuole raggiungere lo scopo a tutti i costi; c'è un'insistenza che sembra importuna, fastidiosa, ma è il segno di una speranza che non muore: è la profonda certezza che, prima o poi, la sua supplica verrà esaudita. E così accade, infatti il giudice iniquo dice: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi” (Lc 18, 5).
Se un uomo ingiusto esaudisce una preghiera insistente, infinitamente di più la preghiera instancabile e tenace sarà esaudita da Dio, il Giudice giusto.
Dunque, per la nostra preghiera, Gesù è interlocutore, amico, testimone e maestro. Lui ci insegna a pregare, non solo con la preghiera del ‘Padre nostro’, ma anche quando Lui stesso, oltre al contenuto, ci mostra le disposizioni richieste per una vera preghiera. Questi atteggiamenti sono: “La purezza del cuore, che cerca il Regno e perdona i nemici; la fiducia audace e filiale, che va al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo; la vigilanza, che protegge il discepolo dalla tentazione” (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 544). Oggi il Cristo aggiunge un’altra disposizione: l’insistenza, e chiede una cosa apparentemente impossibile: quella di pregare sempre.
San Tommaso d’Aquino insegna che per ottenere con certezza quello che ciascuno domanda con la preghiera “si richiede il concorso di queste quattro condizioni: 1- che preghi per se stesso, 2- che chieda cose necessarie per salvarsi, e lo faccia 3- con pietà e 4- con perseveranza4.



3) La preghiera deve essere fatta sempre.
In effetti, l’insegnamento a pregare con perseverante insistenza è abbastanza facile da capire ed da mettere in pratica, ma l’affermazione all’inizio del vangelo di oggi “Bisogna pregare sempre, senza stancarsi5 mai”(Lc 18,1), senza scoraggiarsi, non solo sembra difficile, pare impraticabile. Poiché è Gesù stesso a dirlo, non osiamo dire che ci è impossibile mettere in pratica questa indicazione, perché la nostra attenzione non riesce a concentrarsi a lungo in un'azione6 così alta come la preghiera.
C'è un salmo che, più di altri, ci aiuta a capire sostanzialmente cosa sia pregare sempre: è il salmo, in cui l'orante è presentato come un bambino che “compie l’azione” di stare tra le braccia della madre: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia. Speri Israele nel Signore, ora e sempre” (Sal 130 (131), 2-3). Questo bambino è l'uomo di preghiera, cioè l'uomo che spera sempre nel Signore, come un bambino spera sempre in suo padre ed in sua madre. 
E il paragone biblico del bambino è perfetto perché la preghiera, pur essendo l'azione più alta e sublime, è anche la più semplice; anzi, nel pensiero del Salmista, essa è la più naturale, come è naturale che un bimbo ancora piccolo, tra le braccia della madre, contempli sempre e per prima cosa il volto di lei che lo rassicura, e avverta attorno a sé quelle braccia, che lo accolgono, lo proteggono, gli danno fiducia e gli trasmettono amore. 

La preghiera semplice e fiduciosa è la certezza che lo sguardo di Dio è su di noi, come quello di nostra madre. Pregare è fare esperienza dell'amore di Dio, che ci avvolge come le braccia di chi ci ha messi al mondo, che ci tiene per mano e ci guida anche quando ci sembra di essere soli.
Al nostro gesto di preghiera Dio risponde con il suo amore. Lui ci prende in braccio teneramente, quando cresciamo, ci prende per mano, quando cadiamo ci risolleva e ci mette sulle sue spalle, quando sembra che i flutti della vita ci sommergano, lui ci tende la mando e ci salva dalla morte. Come ricorda oggi il Salmista: “Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode, perché non prende sonno il custode di Israele... Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra... Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita...” (Sal 120 (121) 3).
La preghiera è come respiro della vita ed esprime la certezza indubitabile che Dio è con noi, che Dio è per noi e noi siamo la creatura a lui più cara. Quindi la preghiera va fatta sempre, costantemente.
All’obiezione che è impossibile pregare sempre, risponderei non con un discorso, ma con il consiglio di non essere avari nel dare tempo a Dio. Più si prega e più si rimarrà nella preghiera.
A chi le chiedeva come imparare a pregare Madre Teresa rispondeva: “Pregando”. Per Padre Pio da Pietrelcina “pregare sempre” era diventato “Rosari sempre”, cioè Maria sempre nella sua vita. Don Luigi Giussani spiegava il “pregare sempre” con l’affermazione “pregate più che potete”. Il Beato Stefan, maronita fratello laico, visse ripetendo a sé e agli altri “Dio ti vede”: cioè si santificò, vivendo costantemente nella consapevole certezza che Dio ha sempre il suo sguardo di amore su ciascuno essere umano. Nella tradizione delle Chiese d’Oriente come preghiera incessante è quella usata particolarmente nel movimento monastico esicasta7, che è una preghiera strettamente legata alla preghiera del cuore, è chiamata la preghiera di Gesù e consiste nel dire il più frequentemente possibile “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore”. Questo modo di pregare usando la preghiera “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore” come giaculatoria così frequente da farla coincidere con il respiro del corpo è particolarmente pratico ed è, secondo la teologia spirituale orientale, necessario e addirittura indispensabile per l’efficacia della preghiera: esso è alla portata di tutti i cristiani che vivono con pietà e cercano la salvezza, siano essi monaci o laici.
La preghiera è un rapporto. Pregare vuol dire rivolgersi a qualcuno; è vivere questo rapporto, un rapporto che diventa sempre più grande, più intimo e più vero, così da trasformarci in Colui che preghiamo, così da divenire una sola cosa col Cristo.

A questo sono chiamate le Vergini consacrate come il Vescovo prega su di loro durante la preghiera di consacrazione: “Che brucino di carità e non amino niente al di fuori di Te … In Te possiedano tutto perché è Te che loro preferiscono a tutto” (Rito della consacrazione delle Vergini, n. 24). Queste donne sono chiamate a dare testimonianza di fedeltà alla preghiera personale e liturgica perché non ci si lasci prendere dall'attivismo vorticoso.
Con l’esempio di una preghiera non saltuaria, ma costante, piena di fiducia in Dio-Amore “che ci concede quello che ci fa chiedere” (cfr Sant’Anselmo), le Vergini consacrate comunicano alle persone che stanno loro vicine, a coloro che incontrano in parrocchia o sul lavoro, la gioia dell’incontro costante con il Signore, luce per l’esistenza del mondo intero.
Con la fedeltà alla via della preghiera queste persone consacrate aiutano anche gli altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini di verità e amore infiniti, il cui vertice è il rapporto di comunione che si fa preghiera.

1Si veda la voce preghiera nel Dizionario critico di Teologia (Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la direzione di Jean-Yves Lacoste.
2Dal greco ὀρϕανός (orphanòs), dal latino ŏrphănus, ,affine all'etimologia del latino orbus cioè "privo", colui a cui sono rapiti i genitori dalla morte, quindi indica il bambino senza famiglia, un piccolo essere che non è di nessuno e di cui nessuno si cura.
3Dal latino viduus/a che propriamente vuol dire “privo”, quindi essere vuoto, mancare di qualcosa o di qualcuno. Anche il termine greco χῆρος, -α, -ον [chéros] vuol dire “privo, vuoto, mancante” e quindi senza marito o moglie. Pertanto “vedova” vorrebbe dire “è senza”, cioè manca della sua parte. Ora siccome la sposa è tale se ha lo sposo, senza sposo è ciò che è niente, la vedova è senza ciò che la farebbe essere ciò che è: “sposa”.
4Summa Theologica, IIa-IIae, q. 83, a 15 ad 2.
5Nel testo greco c’è ἐγκακεῖν (egkakeìn), vuol dire essere completamente abbattuto, sfinito, esausto, quindi me egkakeìn è tradotto senza stancarsi in italiano e senza scoraggiarsi in francese, ma si potrebbe tradurre letteralmente “senza perdersi d’animo”.
6Ho scritto azione e non discorso, perché la preghiera non è un puro e semplice parlare, è un lavoro (cfr Divo Barsotti, Preghiera lavoro del cristiano, Milano 2005, pp . 144).
7Gli esicasti praticano la cosiddetta preghiera di Gesù o preghiera del cuore, che consiste nella ripetizione incessante della questa formula, fino a farla coincidere con il ritmo del respiro: “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. A condizione che ci si metta al riparo dalle distrazioni e che si custodisca la pace dell’anima, questa pratica permette di avvicinarsi a Dio e di unirsi a Lui.
L’esicasmo (dal greco ἡσυχασμός hesychasmos, da ἡσυχία hesychia, calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione) è una dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell'Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto (IV secolo). Scopo dell'esicasmo è la ricerca della pace interiore, in unione con Dio e in armonia con il creato. Divulgata da Evagrio Pontico (IV secolo) e da altri maestri spirituali tra cui nel VI secolo spicca San Giovanni Climaco autore della Scala del Paradiso, la pratica dell'esicasmo è ancora viva sul Monte Athos e in altri monasteri ortodossi. Sull'Athos essa ricevette un impulso decisivo dall'opera di Gregorio Palamas (morto nel 1359) e nei secoli successivi dagli scritti di teologi e mistici raccolti nella Filocalia.
Si veda la voce esicasmo nel Dizionario critico di Teologia (Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la direzione di Jean-Yves Lacoste.

Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 -430)
Preghiere dalle Confessioni

Come invocare Dio?
Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà l'annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l'opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).
Perché invocare Dio?
Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C'è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch'io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all'inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: "Cielo e terra io colmo?" (1, 2, 2).
Cosa sei, Dio mio?
Cosa sei dunque, Dio mio? Cos'altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all'infuori del Signore, chi Dio all'infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)
Tu sei la mia salvezza!
Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l'assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo ( 1, 5, 5).

La mia anima è la tua casa
Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: "purificami, Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri"? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s'inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).
Signore, che io ti ami fortissimamente
Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).
Grazie, Signore, per i tuoi doni!
Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell'universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l'istinto interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo all'amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l'ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).
O mia gioia tardiva!
Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).
Tu sei sempre vicino
Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).
Signore, che dài per maestro il dolore
Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l'avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).
Ti amerò, Signore!
Come rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso (2, 7, 15).
Voglio te
Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un'insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria (2, 10, 18).
Dio mio, sconfinata misericordia mia!
Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell'abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso (3, 3, 5).
O Verità, Verità!
O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l'anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell'anima mia (3, 6, 10).
Cosa sono io senza di te?
Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l'uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).
Ascolta il mio pianto
Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l'orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall'amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell'amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).
Dio, speranza mia
Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall'impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi (4, 6 ,11).
Dio delle virtù, volgiti a me
Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L'animo dell'uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono... Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall'amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).
Ascolta, anima mia...
Non essere vana, anima mia, non assordare l'orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l'amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l'universo inferiore nella sua interezza. "Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte?". Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d'inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).
Amiamolo, amiamolo!
Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch'esse, ma in lui si Fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di' loro: "Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov'è? Dove si assapora la verità? E' nell'intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è 11, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).
Fino a quando questo peso nel cuore?
Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l'uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l'ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. "Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell'ascendere contro Dio". Di' loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t'ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).
O dolce verità!
Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell'atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate (4, 15, 27).
Tu, ci proteggi e ci sorreggi
O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell'avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).