venerdì 22 dicembre 2017

Da Nazareth a Betlemme: il 2017° Natale

1)Vigilia di Natale.

Quest’anno, 2017, la IV domenica di Avvento cade il 24 dicembre. Dopo la testimonianza di Giovanni Battista (III domenica di Avvento), la liturgia della Parola di questa IV domenica ci propone la testimonianza di Maria, Vergine Madre di Dio, la quale ha conservato devotamente nel suo cuor le grandi cose che il Signore aveva fatto per lei.  
Facciamo nostro lo sguardo pieno di speranza che ha nutrito la paziente attesa di Giovanni il Battista e la materna attesa di Maria, per cantare con lei il Suo inno di lode per Dio che “ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre” (Lc 1,54-55). 
  Alla vigilia del Natale, la liturgia ci conduce a Nazareth dove fu detta la prima “Ave Maria” e dove il Verbo si è fatto carne, e ci propone il Vangelo dell’Annunciazione. Contempliamo questo fatto evangelico -narrato a noi da San Luca, il quale probabilmente se la sentì raccontare da Maria stessa, la Madre, protagonista di questo fatto- e facciamo nostro il “sì”, il “fiat” (in latino), l’“Amen” (in ebraico) di questa giovane donna. In questo modo potremmo realizzare anche noi le parole dell’Angelo Gabriele: “Non temere … concepirai … darai alla luce il Figlio di Dio e gli metterai il nome: Gesù”.
L’evento dell’Annunciazione ci dice con chiarezza che Maria è il tramite immediato, anche temporale, oltre che biologico e affettivo, teologico e biblico per accogliere Gesù in questo Natale e per sempre. In effetti a che “ci giova che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella nostra anima?” (Origene). Dunque, “commossi dalla bontà di Dio che in Cristo manifesta il suo amore per l’uomo” (Papa Francesco) accogliamo il Salvatore.
Un grande stupore pieno di commozione si impossessa di noi se contempliamo il miracolo del Dio, che assume un corpo umano prendendo dimora in un seno materno, e che in “quel seno di carne fu in grado di portare il fuoco, che la fiamma abitò nel corpo delicato senza bruciarlo” (Sant’Efrem, il Siro) ma bruciò i nostri peccati.

2) Natale e il Presepe.

Ora, da Nazareth, che vuol dire “giardino” e dove è nato il fiore di Cristo, andiamo a Betlemme, che vuol dire “casa del pane” e ospita chi si farà Pane di vita per noi. 
A Betlemme è nato Colui che, nel segno del pane spezzato, avrebbe lasciato il memoriale della sua Pasqua. L’adorazione del Bambino Gesù in questa Notte Santa prosegua nell’adorazione eucaristica. Adoriamo il Signore, fattosi Carne per salvare la carne nostra, fattosi Pane vivo per dare la vita ad ogni essere umano. Riconosciamo, come nostro unico Dio, questo fragile Bambino che sta inerme nel presepe. “Nella pienezza dei tempi, ti sei fatto uomo tra gli uomini per unire la fine al principio, cioè l’uomo a Dio” (cfr S. Ireneo, Adv. haer., IV, 20,4). Nel Figlio della Vergine, “avvolto in fasce” e deposto “in una mangiatoia” (Lc 2,12), riconosciamo e adoriamo “il Pane disceso dal cielo” (Gv 6,41.51), il Redentore venuto sulla terra per dare la vita al mondo.
Oggi non ci è dato solamente di ascoltare, ma anche di vedere la Parola di Dio, basta che andiamo “fino a Betlemme e guardiamo questa Parola, che il Signore ha fatto e ci ha mostrato. (Guerrico d’Igny)
Andiamo, dunque, alla grotta di Betlemme e contempliamo questo miracolo impensabile e che per molti è ancora incredibile: “Dio, che misura il cielo con la spanna, giace in una mangiatoia d’una spanna; Lui, che contiene il mare nel cavo della mano, conobbe la propria nascita in una grotta. Il cielo è pieno della sua gloria e la mangiatoia è piena del suo splendore (Sant’Efrem il Siro, Inno per la nascita di Cristo, 1). 
  Se leggiamo con attenzione il Vangelo della Natività, come lo propone San Luca, possiamo ricreare nella mente e nel cuore la scena del presepio. Immaginiamo una grotta utilizzata anche come stalla: povero alloggio di fortuna, scelto dai due pellegrini, Maria e Giuseppe, per ospitare la nascita di Colui che è  il centro del mondo e dell’umanità: maturo avvenimento che compie i tempi. Lasciamo attirare gli occhi del nostro cuore dalla notte, dal freddo, dalla povertà, dalla solitudine e, poi, improvvisamente, dall’aprirsi del cielo e dallo straordinario annuncio degli angeli, e dall’arrivo dei pastori. Con l’immaginazione possiamo ricostruire i particolari e trasformare la scena in un paesaggio pastorale, che sembra familiare, per una storia incantevole. Tutti diventiamo bambini, e gustiamo un momento incantato che ci fa sognare. Ciò è bello ma è riduttivo, perché Cristo nasce in una grotta. E quando i pastori vi arrivarono, cosa videro? 
Un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia come gli Angeli avevano annunciato loro. E’ la meraviglia del Natale: ad essere proclamato Signore, il Principe della pace, Messia e Salvatore  è un bambino che ha, come trono, una mangiatoia e, come palazzo reale, una grotta. La totale semplicità del primo presepe stupisce. Il particolare che più meraviglia è l’assenza di ogni tratto meraviglioso nella grotta. I pastori sono sì avvolti e intimoriti dalla gloria di Dio, ma il segno che ricevono dagli Angeli è semplicemente: “Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia”. E quando giungono a Betlemme non vedono altro che “un bambino deposto nella mangiatoia”.  Quindi chiediamo di scorgere il miracolo del Natale nella “banalità” del quotidiano e prediamo sul serio quanto un anonimo scrisse secoli fa: 
“Il nostro corpo è il Presepe vivente nei luoghi dove siamo chiamati a vivere e a lavorare. Le nostre gambe, come quelle degli animali che hanno riscaldato Gesù la notte del Suo natale. Il nostro ventre, come quello di Maria che ha accolto e fatto crescere Gesù. Le nostre braccia come quelle di Giuseppe che hanno cullato, sollevato, abbracciato Gesù e per Lui hanno lavorato. La nostra voce, come quella degli angeli per lodare il Verbo che si è fatto carne. I nostri occhi, come di tutti quelli che la notte l’hanno visto nella mangiatoia. Le nostre orecchie, come quelle dei pastori che hanno ascoltato –stupefatti- il canto angelico proveniente dal cielo. La nostra intelligenza, come quella dei Re Magi che hanno seguito la stella fino alla “casa” di Gesù: la grotta. Il nostro cuore come la mangiatoia che ha accolto l’Eterno che si è fatto piccolo e povero come uno di noi”.
Andiamo dunque al presepe per diventare noi sempre più Presepe vivente che rivela l’Uomo e Dio. L’Uomo che non siamo ancora ma che siamo chiamati ad essere e Dio che non può manifestarsi che in una umanità umile ma trasparente, che fa passare attraverso di essa questo Amore che è unicamente Amore.
Se andiamo al presepe è perché il Natale è il centro della Storia universale. E’ in rapporto al Natale che tutti i secoli sono contati. 
Se andiamo al presepe è perché nella nascita di Cristo c’è la nostra nascita, la nostra dignità, la nostra grandezza e la nostra libertà.
Se andiamo al presepe è perché lì Dio si rivela non più come un padrone che ci domina, che rivendica dei diritti su di noi, ma come un Amore dolce, che si vuole nascondere in noi, e che non smette di aspettarci perché la “sola” cosa che può fare sempre è di amarci.
L’unica risposta logica a questo Amore è di amarLo. I cristiani sono coloro che hanno creduto e credono a questo Amore nato in mezzo a noi e per noi. I cristiani sono chiamati dall’Amore per amare. Questa è la vocazione che il Natale propone e ogni anno rinnova. 
Questa vocazione all’Amore è vissuta in modo speciale dalle Vergini consacrate. Se la vita cristiana è un cammino e un’assimilazione progressiva alla vita del Signore Gesù, lo è in modo particolare quella di queste donne che lietamente si sono consacrate a Cristo con amorosa fiducia e totale abbandono. Le vergini consacrate ci testimoniano che Cristo è un dono al quale si risponde donandosi e facendo del nostro cuore la mangiatoia da dove Lui apre le braccia al mondo. Il Natale non è un’emozione, ma una vocazione a stare sempre con Lui castamente. Il Figlio di Dio che si incarna, si fa uno di noi, e ci chiama a credere con il cuore, a proclamare con la bocca (cfr. Rm 10,9-10) e confermare con le opere che l’alleanza di Dio è nella nostra carne consacrata dall’offerta verginale  affinché gli uomini, vedendo le nostre opere buone, diano gloria al Padre nostro che è nei cieli (cfr. Mt 5,16) in Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Liturgia). Essere vergini consacrate vuol dire essere segno della fedeltà di Dio e luogo dove la vita di Cristo donata genera vita qui sulla terra  e per l’eternità.
Le Vergini consacrate nel mondo - e noi con loro - sono chiamate ad essere  la culla del vero Adamo, dove il mondo intero è messo al mondo nella comunione divina. “Mi aspetto pertanto che la ‘spiritualità della comunione’, indicata da San Giovanni Paolo II, diventi realtà e che voi siate in prima linea nel cogliere ‘la grande sfida che ci sta davanti’ in questo nuovo millennio: fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” (Papa Francesco, Lettera in occasione dell’Anno della Vita consacrata, novembre 2014).




Lettura Patristica
Sant’Atanasio (295 – 373)
De incarnat. Verbi, 8 s.


 Per questo motivo il Verbo di Dio, incorporeo ed incorruttibile ed immateriale, si calò nella nostra dimensione, benché mai neppure prima ne sia stato lontano, dal momento che, unito com’è al Padre suo, non ha lasciato alcuna parte della creazione vuota di sé e riempie ogni cosa.

       Il Verbo di Dio si degna così di venire e di manifestarsi a noi, in virtù della sua filantropia nei nostri confronti. Vedendo che gli esseri ragionevoli si perdono e che la corruzione della morte regna su di loro; vedendo che la minaccia formulata da Dio contro la trasgressione trova efficace realizzazione attraverso questa corruzione e che sarebbe assurdo che questa legge venisse violata prima ancora d’esser compiuta; vedendo come fosse disdicevole che le opere di cui egli era l’autore fossero distrutte; vedendo la soverchiante cattiveria degli uomini accrescersi pian piano ai danni di loro stessi e divenire intollerabile; vedendo che tutti gli uomini si rendevano schiavi della morte, il Signore ebbe pietà della nostra stirpe e si fece misericordioso nei rispetti della nostra debolezza. Volle rimediare alla nostra corruzione e non sopportò che la morte la spuntasse su di noi, affinché la sua creatura non perisse e l’opera compiuta dal Padre suo, nel creare gli uomini, non si dimostrasse inutile. Assunse dunque un corpo, ed un corpo che non è diverso dal nostro. Egli, infatti, non ha voluto semplicemente «trovarsi in un corpo», come non ha voluto unicamente «mostrarsi»: in quest’ultimo caso, altrimenti, avrebbe potuto realizzare questa teofania in un essere più potente d’un uomo. Il Signore assume, invece, un corpo come il nostro, né si accontenta semplicemente di rivestirsene, ma vuole farlo nascendo da una vergine senza colpa né macchia, che non conosceva uomo, prendendo così un corpo puro e del tutto incontaminato da qualsiasi unione carnale. Benché onnipotente e demiurgo dell’universo, all’interno di questa vergine egli si edifica il proprio corpo come un tempio e, manifestandosi e dimorando in esso, se ne serve come d’uno strumento. Dal nostro genere, pertanto, il Signore acquista una natura analoga alla nostra e, allo stesso modo come tutti noi siamo condannati alla corruzione ed alla morte, non diversamente anch’egli, per il beneficio di tutti, consegna il proprio corpo alla morte, presentandolo al Padre; e tutto questo egli conduce a termine per filantropia.

       In tal modo, dal momento che tutti muoiono in lui (Rm 6,8), la legge della corruzione, diretta contro gli uomini, sarà infranta. Essa, infatti, dopo aver esercitato tutto il suo potere sul corpo del Signore, da quell’istante non sarà più in grado di infierire sugli uomini, essendo ormai costoro simili a lui.

       Il Verbo di Dio, pertanto, ripristina nell’incorruttibilità quegli uomini che erano divenuti nuovamente preda della corruzione. Appropriandosi d’un corpo, egli dona loro una nuova vita e li riscatta dalla morte. In virtù della grazia della risurrezione, il Signore fa sparire la morte lontano dagli uomini, come un fuscello di paglia distrutto nel fuoco.


       Il Verbo, dunque, costatava che la corruzione degli uomini non poteva assolutamente esser cancellata, se non attraverso la morte. D’altronde, essendo immortale e figlio del Padre, non era possibile che il Verbo potesse morire. Pertanto egli si riveste di un corpo suscettibile di morire affinché, partecipando del Verbo che sta al di sopra di tutto, questo corpo sia in grado di morire per tutti e, d’altronde, grazie al Verbo che ha preso dimora in lui, rimanga incorruttibile e faccia ormai cessare in tutti, in virtù della risurrezione, la corruzione. Così, come nel sacrificio d’una vittima innocente, egli offre alla morte questo corpo, dopo essersene spontaneamente rivestito, e, tosto, fa sparire la morte in tutti i suoi simili, attraverso l’offerta d’una vittima somigliante a loro.

       È giusto che il Verbo di Dio, superiore com’è a tutti, offrendo il suo tempio e lo strumento del suo corpo come prezzo del riscatto per tutti, paghi, con la sua morte, il nostro debito. Così, unito a tutti gli uomini attraverso un corpo simile al loro, il Figlio incorruttibile di Dio può a giusta ragione rivestire tutti gli uomini d’incorruttibilità, promettendo altresì loro la risurrezione. La corruzione stessa della morte, perciò, non ha più alcun potere contro gli uomini, grazie al Verbo che dimora fra questi, in un corpo simile al loro.

       Allorché un re illustre fa il suo ingresso in una grande città e prende dimora in una delle sue case, questa città si sente oltremodo onorata, né nemici né briganti, ormai, marceranno più contro di essa per devastarla e vien fatta oggetto d’ogni attenzione per il fatto che il re risiede in una sola delle sue case. Così avviene anche al riguardo del re dell’universo: da quando egli è venuto nella nostra terra ed ha abitato un corpo simile al nostro, ogni iniziativa dei nemici contro gli uomini ha avuto termine e la corruzione della morte, che per lungo tempo aveva imperversato contro di essi, è scomparsa. Il genere umano sarebbe completamente perito, se il Figlio di Dio, signore dell’universo e salvatore, non fosse disceso a porre termine alla morte.

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