XII Domenica del Tempo
Ordinario - Anno A - 25 giugno 2017
Rito
Romano
Rito Ambrosiano
Gen 2,4b-17; Sal 103; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21
III
Domenica dopo Pentecoste
1)
Evangelizzazione e compassione.
La fede ci dice che la
nostra vita è custodita dall’amore di Dio, che è Padre e, perciò,
è provvidenza.
Il Vangelo di oggi
conferma questa fede e Cristo ci ricorda che se Dio che si prende
cura anche dei passeri, delle cose deboli come i nostri capelli,
certamente si prende cura di noi, ogni giorno.
Dio
non è mai assente, è con noi in ogni istante della nostra vita e lo
sarà fino alla fine del mondo. Sappiamo di essere nelle mani di Dio,
che ha fatto suo il dramma dell’uomo, facendosi carne per salvarci.
Lui è sempre presente, si commuove e piange, partecipa, si china
sulle nostre ferite, asciuga le nostre lacrime, si china su ciascuno.
Eppure viviamo spesso
nella paura. In effetti, la consolante verità che Dio, con volto
sereno e mano sicura guida la nostra storia, trova paradossalmente
nel nostro cuore un duplice, contrastante sentimento: da una parte
siamo portati ad accogliere e ad affidarci a questo Dio Provvidente,
così come afferma il Salmista: “Io sono tranquillo e sereno. Come
un bimbo in braccio a sua madre è quieto il mio cuore dentro di me”
(Sal 130, 2). Dall’altra, però, abbiamo paure e esitiamo ad
abbandonarci a Dio, Signore e Salvatore della nostra vita, o perché,
offuscato dalle cose, ci dimentichiamo di Dio provvidente, o perché,
feriti dalla varie sofferenze e difficoltà della vita, dubitiamo di
lui come Padre. In tutte e due i casi la Provvidenza di Dio è come
chiamata in causa dalla nostra fragile umanità.
Su questo crinale
sottile fra speranza e disperazione si colloca la parola di Dio così
splendida da essere umanamente quasi incredibile, così vera da
rafforzare immensamente le ragioni della speranza,. La parola di Dio
non assume mai tanta grandezza e fascino come quando si confronta con
la massima domanda dell’uomo, di ciascuno di noi che si chiede:
“Qual è e dov’è il mio destino?”. Il Vangelo ci dice che Dio
è qui, è Emmanuel, Dio-con-noi (Is 7, 14), e in Gesù di Nazareth
morto e risorto, Volto buono del destino, Figlio di Dio e nostro
fratello, Dio mostra di aver “piantato la sua tenda in mezzo a noi”
(Gv 1, 14).
Se accogliamo questa
risposta che è Cristo, che dimora in noi e noi in Lui non abbiamo
più paura perché la paura è
vinta dal nostro essere radicati nell’Amore.
Se, oggi accogliamo
l’invito di Cristo, che per tre volte ci ripete di non avere paura,
non solo vivremo nella pace perché il nostro cuore è consolato, ma
saremo testimoni del suo Vangelo di letizia, di compassione portando
nelle piazze delle nostre città e nell’intimo delle nostre case la
lieta notizia che Dio è tra noi e ci dice: “Non avere cura di te,
lascia che di te abbia cura il Signore".
La missione nasce dalla
compassione ricevuta da Dio e condivisa tra di noi. Questa
compassione non è solo dire che qualcuno ci fa pietà. La parola
“compassione” viene da due parole (greca ed ebraica) che fanno
riferimento alle viscere, all'utero della madre. Sentire compassione
allora è un qualcosa che ci prende dentro, qualcosa di viscerale e
mi pare che sia questa l'unica condizione per poter cogliere l'invito
di Gesù a non temere, a non avere paura, a confidare in Dio. La
missione, il predicare, come dice il vangelo di oggi dalle terrazze,
è possibile solo nella misura in cui essa non diventa un fatto di
organizzazione, ma di compassione.
Dunque, è giusto (o
almeno lo spero) affermare che il primo grande invito che ci fa la
Liturgia della Parola di questa domenica è: confidare in Dio. Già
nella prima lettura il profeta Geremia afferma: “il Signore è al
mio fianco... il Signore ha liberato la vita del povero”, ma anche
nel brano di Vangelo, che – attraverso delle immagini - ci
racconta di una vita, la nostra, custodita dall'amore di Dio. Di una
vicenda, quella di Geremia, assediato da amici e nemici: anche gli
amici ce l'hanno con lui, e perché? Unicamente perché ha annunciato
il volto di Dio e ha esortato le persone che lo ascoltavano a
confidare unicamente in Dio. Per questo Geremia viene preso, legato,
frustato nel tempio. Per questo, Cristo è stato crocifisso.
Ma la vita di Geremia e
quella di Cristo mostrano che vale la pena confidare in Dio. E’
ragionevole vivere questo abbandono totale e questa amorosa
confidenza. Quando lo facciamo, facciamo esperienza di una pace e
gioia profonde. E nei momenti di fatica guardiamo a Cristo e alla
lunghissima teoria di santi e sante che l’hanno seguito. Come
esempio, questa volta cito Nicodemo, che va da Gesù di notte, per
paura. La notte è il momento ideale per chi non vuole essere visto.
Per chi non vuole farsi vedere a parlare con qualcuno. Chi ha
vergogna di mostrare se stesso trova nella notte il momento ideale.
La notte di Nicodemo, forse indica la paura di essere se stesso.
Indica la paura di essere vero. La notte di Nicodemo indica la sua
incapacità e la sua paura di essere libero. Bellissimo poi, che nel
momento più difficile Nicodemo vada a chiedere il corpo di Gesù in
pieno giorno: come se lo chiedesse urlando da un tetto.
2) Martiri:
testimoni esemplari della Provvidenza, confidenti in Dio fino a
morirne.
Mi piace molto che nel
vangelo di oggi ci sia scritto anche che nulla rimarrà nascosto,
sconosciuto a Dio, nemmeno la sofferenza più piccola. Per noi
“figli” è una garanzia che anche il disagio o la sofferenza o,
al limite, il martirio entrino nel disegno di Dio Padre.
L’affermazione : “Non cade un passero senza che Dio lo sappia e
lo voglia” non vuole dire: non ci accadrà mai di cadere, ma che
tutto è parte del disegno provvidente del Padre onnipotente e
provvidente. Ma significa: se vi accade di cadere, Dio lo sa. Dentro
alla nostra sofferenza Dio c’è, non siamo abbandonati, c'è la sua
presenza come presenza di salvezza, anche se evidentemente non viene
percepita, e anche se a livello psicologico non fa un grande effetto,
non si sente una grande consolazione; ma dentro ad una dimensione di
fede c'è la possibilità di vivere ugualmente questa dimensione di
presenza di amore dell’Emmanuele, il Dio sempre con noi .
San
Paolo paragona le sofferenze umane e cosmiche a una sorta di “doglie
del parto” di tutta la creazione, sottolineando i “gemiti” di
coloro che possiedono le “primizie” dello Spirito e aspettano la
pienezza dell’adozione, cioè “la redenzione del nostro corpo”.
Ma aggiunge: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di
coloro che amano Dio . . .” e più oltre: “Chi ci separerà
dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia,
la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”, fino
a concludere: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita . .
. né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di
Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,
22-39). Accanto alla paternità di Dio, manifestata dalla Provvidenza
divina, appare anche la pedagogia di Dio: “È per la vostra
correzione (“paideia”, cioè educazione) che voi soffrite! Dio vi
tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto (educato)
dal padre? . . . Dio lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci
partecipi della sua santità” (cf Eb 12,
7. 10) (S. Giovanni Paolo II).
Vista dunque con gli occhi della fede la sofferenza, anche se può
ancora apparire come l’aspetto più oscuro del destino dell’uomo
sulla terra, lascia però trasparire il mistero della divina
Provvidenza, contenuto nella rivelazione di Cristo, e in particolare
nella sua croce e nella sua risurrezione.
L’importante
è scoprire mediante la fede la potenza e la “sapienza” del Dio
Padre che con Cristo ci conduce sulle vie salvifiche della divina
Provvidenza. Si conferma allora il senso delle parole del salmista:
“II Signore è il mio pastore . . . Se dovessi camminare in una
valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”
(Sal 22,
1. 4).
Qualsiasi
esperienza ci sia portata da ciò che “umanamente” chiamiamo il
destino, dobbiamo cristianamente chiamarla Provvidenza, e con fiducia
superare la nostra ignoranza e con amore collaborare all’opera
redentiva del Dio Figlio. Il suo santo Spirito possa testimoniare nel
nostro cuore che siamo veramente figlio di Dio, e che è ragionevole
accettare tutti gli avvenimenti della “mano” di Dio.
Il
testamento scritto dall’Abate di Tiberine alcuni mesi prima di
essere martirizzato ci è di esempio sublime: “Se
mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere
vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli
stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia
Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a
Dio e a questo paese.
Che
essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe
essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me:
come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero
associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate
nell’indifferenza dell’anonimato.
La
mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In
ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto
abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè,
prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla
cieca.
Venuto
il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi
permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei
fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il
cuore chi mi avesse colpito”
(si veda il testo completo che è proposto al posto della lettura
patristica)
A
questo punto non ci resta che pregare perché nella certezza
dell’amore di Dio noi troviamo la risposta quelle domande a cui
nessuna sapienza umana può rispondere. Preghiamo dunque così: “Che
tu mi ami è risposta a ogni domanda — fa’ che io lo senta quando
giunge l’ora della prova” (Romano Guardini)»
Nei
due paragrafi precedenti ho cercato di spiegare che la Provvidenza
divina si rivela come il camminare di Dio a fianco dell’uomo.
Tenendo
presente l’Antico Testamento1,
ho cercato di mostrare che le parole di Cristo raggiungono una
pienezza di significato ancora maggiore. Le pronuncia infatti il
Figlio che “scrutando” tutto ciò che è stato detto sul tema
della Provvidenza, rende testimonianza perfetta al mistero del Padre
suo: mistero di Provvidenza e di cura paterna, che abbraccia ogni
creatura, anche la più insignificante, come l’erba del campo o i
passeri. Quanto più l’uomo, dunque.
Ma
c’è da tenere presente che ciascuno di noi non solo deve essere
grato per l’azione provvidente del Creatore verso di noi, ma
abbiamo anche il dovere di cooperare col dono ricevuto dalla
Provvidenza. Egli non può quindi accontentarsi dei soli valori del
senso, della materia e dell’utilità. Deve cercare soprattutto “il
regno di Dio e la sua giustizia” perché “tutte queste cose (i
beni terreni) vi saranno date in aggiunta” (cf. Mt 6,
33).
Un
esempio di questa cooperazione al disegno di amore provvidente di Dio
è la consacrazione delle vergini, che con il dono totale di se
stesse a Dio diventano il riflesso del pensiero e dell’amore di Dio
nelle cose e nella storia, lasciandosi impregnare dalla carità
sapiente di Dio e di condividerla con i fratelli e sorelle in
umanità.
Per
questo il Vescovo che presiede il rito di consacrazione dell’OV
prega: “O Dio, che ti compiaci di abitare come in un tempio nel
corpo delle persone caste e prediligi le anime pure e incontaminate…
volgi lo sguardo su queste figlie, che nelle tue mani depongono il
proposito di verginità di cui sei l'ispiratore, per farne a te
un'offerta devota e pura. Guida e proteggi queste nostre sorelle, che
implorano il tuo aiuto nel desiderio ardente di essere fortificate e
consacrate dalla tua benedizione … Concedi, per il dono del tuo
Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella bontà,
austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella carità
nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza ambire la lode;
a te solo diano Gloria nella santità del corpo e nella purezza dello
spirito; con amore ti temano, per amore ti servano. In te, Signore,
possiedano tutto, poiché hanno scelto te solo al di sopra di tutto”
(RCV 38).
1 Per esempio, il Salmo 90: “Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente, di’ al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido» . . . Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora . . . Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura” (Sal 90, 1-2. 9. 14-15),
Lettura “quasi”
patristica
Testamento
di Padre
Christian De Chergé,
priore
dell’Abbazia di Tibihrine,
Questo
Monaco fu martirizzato con altri sei monaci trappisti in
Algeria nel maggio 1996.
“Se
mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere
vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli
stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia
Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata”
a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Che
pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta?
Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La
mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno.
In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia.
Ho
vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè,
prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla
cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di
lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e
quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di
perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non
potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo.
Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo
popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio
assassinio.
Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
So
di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini,
globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam
incoraggia un certo islamismo. E’ troppo facile mettersi la
coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli
integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria
e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un
anima.
L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
Ma
queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia
curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere
il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi
figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla
gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono
dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la
comunione,giocando con le differenze.
Di
questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo
grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia,
attraverso e nonostante tutto.
In
questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita,
includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui,
insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei
fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!
E
anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che
facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo
“a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E
che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a
Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen!
Inch’Allah”.
Algeri,
1° dicembre 1993
Tibihrine,
1° gennaio 1994
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