venerdì 16 settembre 2016

Il fedele è intelligente

XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 18 settembre 2016
Rito Romano
Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13


Rito Ambrosiano
Is 43,24c-44,3; Sal 32; Eb 11,39-12,4; Gv 5,25-36
III Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) Elogio dell’intelligenza.
Nelle domeniche passate, i brani scelti dal racconto evangelico di San Luca ci hanno fatto riflettere sui pericoli di un attaccamento egoistico al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli. Anche quest’oggi, attraverso una parabola un po’ stupefacente, perché racconta di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr Lc 16,1-13), San Luca offre ai suoi discepoli, quindi a noi, un serio e utile insegnamento circa l’amministrazione corretta dei beni del mondo e la gestione concreta della propria vita, inserita in un rapporto filiale con Dio.
In questo racconto dell’amministratore astuto, furbo, possiamo riconoscervi la nostra storia. Ogni discepolo, quindi ciascuno di noi, è un amministratore del Signore, al quale Lui affida in custodia e gestione la terra e i suoi beni, primi fra tutti i fratelli in umanità.
La parola “amministratore” ricorre sette volte nella parabola e perciò va presa in seria considerazione. Nel testo greco c’è “economos”, che in italiano si può tradurre alla lettera con “economo” (eco da oikos: casa e nomos= legge), cioè “colui che dà la legge alla casa”.
Allora, viene spontaneo farsi le seguenti domande: “Quale legge offriamo alla nostra casa, alla nostra esistenza, alla casa di Dio, al tempio santo della presenza di Dio?”; “Qual è la legge che regola i nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre azioni e relazioni?”; “La nostra legge è il Signore Gesù, termine e fine di essa (cfr. Rm 10, 4)?”; “Acconsentiamo, nel nostro cuore, alla legge di Dio (cfr. Rm 7, 22), cioè la viviamo in modo profondo o solo superficialmente, distrattamente, senza amore, senza la purezza di un cuore che si lascia raggiungere dal suo Signore?”; “La casa, che siamo chiamati ad amministrare, è fondata su quella legge, che trova il suo pieno compimento nell’amore dei nostri fratelli (cfr Rm 13, 8.10), da accogliere come sono e per condividere loro pesi, fatiche, dolori e povertà (cfr. Gal 6, 2)?”.
La risposta a queste domande è un sì pronto, deciso, intelligente: astuto, se vogliamo tener conto della parabola di oggi.
In effetti, il Messia ci presenta questo “economo” non come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente astuzia. Dunque, Gesù vorrebbe che i discepoli abbiano la stessa risolutezza che il fattore ebbe per sé. Il fattore fu astuto nel conservare se stesso, il discepolo sia altrettanto astuto nello “amministrare” la sua vita e la sua dimora, spendendosi per il Regno. Certo l’amministratore della parabola e il discepolo appartengono a due logiche diverse. il primo a quella del mondo e il secondo a quella del Regno.
L’amministratore disonesto e furbo, dice fra sé e sé: ““Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno” (Lc 16,3). E subito trova una soluzione intelligente e disonesta per sopravvivere.
Il discepolo onesto ma scaltro o, con un aggettivo più positivo, intelligente, non solo cerca di amministrare in modo moralmente buono i beni a lui affidati, ma si mette subito a fare quello che questo amministratore dice di non volere fare: “scavare” (è il significato letterale del verbo greco che è stato tradotto con zappare) e “mendicare”, perché non ha la forza o se ne vergogna.
Accogliamo l’invito del libro dei Proverbi, che invita a scavare per ricercare la Sapienza come si farebbe per i tesori più preziosi (Pr 2, 4). Scavare con le mani del cuore e della mente. Scavare sempre, ogni giorno, sempre, fino alla fine della vita, per cercare il Signore, il suo volto, la sua parola.
Lo scavare le profondità della terra, della mente e del cuore dell’uomo per ricercare Dio è un lavoro per vivere da uomini.
Dobbiamo irrobustire le nostre mani fiacche mettendole giunte in preghiera. E' necessario rendere salde le nostre ginocchia vacillanti e cominciare a lavorare davvero per il Vangelo, a sudare e faticare per cercare il Signore, il nostro vero tesoro, per poi “amministrarlo” nella comunione e nella condivisione.


2) Mendicare.
La forza per scavare va domandata, quindi la ricerca si fa mendicanza. La ricerca di Dio, la domanda di Lui e di vedere il Suo volto non sono solamente un’ adesione ad un complesso in sé completo di dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio presente nell'uomo, mendicante di Infinito, di parole di vita eterna.
Commentando il Salmo 104, che invita a “cercare sempre il volto di Dio”, Sant’Agostino scrive che questo invito non vale soltanto per questa vita; vale anche per l’eternità. La scoperta del “volto di Dio” non si esaurisce mai. Più entriamo nello splendore dell’amore divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così che “nella misura in cui cresce ‘'amore, cresce la ricerca di Colui che è stato trovato” (Enarr. in Ps. 104,3: CCL 40, 1537).
Noi non siamo esseri per la morte (cfr Heiddeger, Essere e tempo), ma per la vita, e mendichiamo per vivere eternamente. Il mendicante di Dio cerca il Pane della vita e con la forza datagli da questo Pane può cominciare e perseverare nel cammino verso la vita.
Certo se guardiamo solo alle esteriorità, l’immediata evidenza è che la vita appare come un lungo viaggio verso la morte, che ha come monumento una tomba, che quando è artisticamente bella è la glorificazione della morte.
Ma se, come suggerisce Papa Francesco, guardiamo alla vita con tre inquietudini: quella della mente, quella dell’incontro con Dio e quella dell’amore, saremo pellegrini verso la vita. Mendicando, facciamoci pellegrini che dalla morte vanno verso la vita.
L’importante è continuare a mendicare, non chiudendosi in se stessi. L’indispensabile è continuare a cercare la verità, il senso ultimo e definitivo della vita, non smettendo mai a cercare il volto di Dio.
Questa inquietudine della mente porta a desiderare “inquietamente” l’incontro personale con Dio. In effetti l’inquietudine di conoscere la verità e il senso della vita, non è per avere dei bei pensieri in testa ma per incontrare Dio, senso e significato della vita e che in Cristo svela il Volto buono e misericordioso del destino. In questo incontro con chi è Parola di Vita e dice parole di vita eterna facciamo esperienza del Dio vicino. Siamo portati a capire che quel Dio che cerchiamo fuori di noi, lontano da noi è il Dio vicino ad ogni essere umano, il Dio vicino al nostro cuore, più intimo a noi di noi stessi (cfr. S. Agostino, Le Confessioni, III,6,11). Tuttavia, non bisogna fermarsi al conoscere ed incontrare Dio. Il cammino inquieto continua. Il cammino sfocia nella terza inquietudine: quella dell’amore.
Che cos’è l’inquietudine dell’amore? “E’ cercare sempre, senza sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella intensità che porta anche alle lacrime. Mi vengono in mente Gesù che piange davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, Pietro che, dopo aver rinnegato Gesù ne incontra lo sguardo ricco di misericordia e di amore e piange amaramente, il Padre che attende sulla terrazza il ritorno del figlio e quando è ancora lontano gli corre incontro; mi viene in mente la Vergine Maria che con amore segue il Figlio Gesù fino alla Croce.” (Papa Francesco, Omelia 28 agosto 2013).


3) Inquietudine e verginità.
Nella verginità l’inquietudine dell’amore si fa mendicanza, che pone l’essere umano nella domanda stabile e costante di Cristo. In effetti “la verginità non è assenza di desiderio, ma intensità di desiderio” (Santa Teresa d’Avila). La verginità non è entrata nel mondo come filosofia, è entrata come dono di Dio che chiama ad una comunione stabile, profonda ed esclusiva con Cristo. Il fatto che la verginità sia esclusiva non implica che sia escludente, perché nell’amore a Dio c’è l’amore del prossimo.
Spinte dall’amore incondizionato a Cristo e all’umanità, soprattutto ai poveri e ai sofferenti, le vergini consacrate vivono come “mendicanti del Cielo” (Jacques Maritain) e “riproducono nella loro vita quotidiana la vita terrena di Gesù: casto, povero e obbediente” (Papa Francesco, Cost. Ap. Vultum Dei quarere, 5; Cfr. San Giovanni Paolo II, Vita consecrata, n. 14).
E’ vero quello che l’essere innamorati di Dio e del prossimo riguarda tutti i credenti, come già scriveva Sant’Agostino : “Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede, non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti” (Discorsi, 304,3).
Ma è altrettanto vero che le vergini consacrate nel mondo, vivendo nel povero, obbediente e casto distacco da se stessi, da tutti e da tutto, testimoniano in modo più alto e radicale che Colui che solo manca al cuore umano è il Figlio di Dio fatto carne, presente nel mondo. La verginità dentro il mondo è, infatti, la suprema testimonianza che tutto è in funzione di Cristo: richiama a coloro che vanno a lavorare e a coloro che si sposano che tutto è in funzione di Cristo.
Le vergini consacrate testimoniano che anche nel mondo è possibile dare la priorità a Dio e che solamente quando Lui sta al centro del nostro pensare e operare di ogni giorno, la vita personale e la società con i suoi dinamismi possono trovare il loro giusto orientamento e pieno significato. Dove, invece, Dio non occupa il primo posto; là dove Dio non è riconosciuto e adorato come il Bene supremo, la dignità dell’uomo è messa a pericolo. In un mondo in cui l’egoismo e la ricerca del piacere dettano legge, le vergini consacrate sono le custodi della purezza, del disinteresse, della pietà e della vera dignità umana.


Lettura Patristica
Bruno di Segni (1045 – 1123)
In Luc., 2, 7


       È una parabola molto chiara e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dica lo stesso Signore perché inventò questa parabola. "Perché", egli dice, "i figli di questo mondo son più avveduti dei figli della luce" (Lc 16,8). Il Signore non loda, certo, la malizia dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che fa, ma per l’ingegno col quale provvede al suo futuro. Non sapendo, infatti, come vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava di chieder l’elemosina, trovò un aiuto singolare, aggiungendo una frode alla malversazione dei beni del suo padrone. Non viene lodato per la moralità della sua azione, ma per l’astuta trovata. E a questa avvedutezza applaude il Signore, quando dice: "I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce". Quelli sono più avveduti nel male che questi nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni santi che mettano tanta accortezza nell’acquisto dei beni eterni, quanta furbizia hanno questi nell’accaparrarsi i beni temporali. Per questi essi vegliano giorno e notte, lavorano, s’angustiano, e con frodi, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi non cessano mai d’accumular tali ricchezze. E chi può dire quanta furbizia mettano nell’ingannarsi l’un l’altro? Sentano i figli della luce e si vergognino di farsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte proprio perché diventiamo più accorti senza tuttavia imitarli nell’ingiustizia. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: "Fatevi degli amici col mammona d’iniquità" (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore infedele. Non frodando l’altrui, ma dando il vostro. Tutte le ricchezze che sono avaramente conservate, sono inique. E non sono equamente distribuite, se, dopo aver messo da parte ciò che serve a te, non dai il resto agli indigenti. Perciò l’Apostolo: Ci vuole - dice - una certa uguaglianza; la vostra abbondanza colmi la loro indigenza e la loro abbondanza supplisca alla vostra necessità (2Co 8,13). Dalle quali parole si vede bene che non ci viene ordinato di dare il necessario, ma il di più. L’Apostolo non vuole che diamo al punto da ridurci in penuria. Le ricchezze, allora, che per sé sono inique se son divise a questo modo, generano amici e il premio eterno. Le ricchezze non divise sono ingiuste, ma se son divise, diventano giuste. Né c’è più affatto ricchezza, se i beni son ridotti alla necessità. Tolto il superfluo, finisce il problema dell’iniquità della ricchezza. Il Maestro continua: "Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto, chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto ()". Questo vale particolarmente per gli apostoli e per i dispensatori dei beni della Chiesa. Non sono dunque da affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli, e di quel poco che avevano non fecero opere di misericordia e di pietà. Ma non dobbiamo dubitare della fedeltà amministrativa di coloro che generosamente sovvengono gli altri col poco che hanno. Perciò l’Apostolo ammonisce che i vescovi non devono essere cupidi di danaro né procacciatori di lucro ingiusto. Bisogna tener presente nella elezione dei capi come si siano diportati nel poco e quanto abbiano di misericordia e di pietà. Perciò è detto ancora: "Se non siete stati fedeli nell’amministrare le ricchezze di questo mondo, chi vi affiderà le vere?" Se non avete usato in misericordia dei beni transitori, chi potrà affidarvi l’amministrazione dei beni della Chiesa, che sono veri e santi?


       "E se non siete stati fedeli nel bene altrui, ciò che è vostro chi ve lo darà?" Non son beni nostri le cose che possono essere perdute a ogni momento della vita, come tutti i beni temporali. Son nostri invece i beni che non possiamo perdere. Son ricchezze altrui le ricchezze temporali; essere buoni e non mettere la nostra speranza nei beni temporali, questa è, invece, la nostra vera ricchezza. Ma questa ricchezza veramente nostra non ci sarà data, se non saremo fedeli nell’amministrare i beni temporali; a questa condizione i veri beni ci sono stati predestinati.

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