XXV
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 18 settembre 2016
Rito
Romano
Am
8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13
Rito
Ambrosiano
Is
43,24c-44,3; Sal 32; Eb 11,39-12,4; Gv 5,25-36
III
Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
1)
Elogio dell’intelligenza.
Nelle
domeniche passate, i brani scelti dal racconto evangelico di San Luca
ci hanno fatto riflettere sui pericoli di un attaccamento egoistico
al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di
vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli.
Anche quest’oggi, attraverso una parabola un po’ stupefacente,
perché racconta di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr
Lc
16,1-13), San Luca offre ai suoi discepoli, quindi a noi, un serio e
utile insegnamento circa l’amministrazione
corretta dei beni del mondo e la gestione concreta della propria
vita, inserita in un rapporto filiale con Dio.
In
questo racconto dell’amministratore astuto, furbo, possiamo
riconoscervi la nostra storia. Ogni discepolo, quindi ciascuno di
noi, è un amministratore
del Signore, al quale Lui affida in custodia e gestione la terra e i
suoi beni, primi fra tutti i fratelli in umanità.
La
parola “amministratore” ricorre sette volte nella parabola e
perciò va presa in seria considerazione. Nel testo greco c’è
“economos”, che in italiano si può tradurre alla lettera con
“economo” (eco da oikos: casa e nomos= legge), cioè “colui che
dà la legge alla casa”.
Allora,
viene spontaneo farsi le seguenti domande: “Quale legge offriamo
alla nostra casa, alla nostra esistenza, alla casa di Dio, al tempio
santo della presenza di Dio?”; “Qual è la legge che regola i
nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre azioni e relazioni?”;
“La nostra legge è il Signore Gesù, termine e fine di essa (cfr.
Rm
10, 4)?”; “Acconsentiamo, nel nostro cuore, alla legge di Dio
(cfr. Rm 7,
22), cioè la viviamo in modo profondo o solo superficialmente,
distrattamente, senza amore, senza la purezza di un cuore che si
lascia raggiungere dal suo Signore?”; “La casa, che siamo
chiamati ad amministrare, è fondata su quella legge, che trova il
suo pieno compimento nell’amore dei nostri fratelli (cfr Rm
13, 8.10), da accogliere come sono e per condividere loro pesi,
fatiche, dolori e povertà (cfr. Gal
6, 2)?”.
La
risposta a queste domande è un sì pronto, deciso, intelligente:
astuto, se vogliamo tener conto della parabola di oggi.
In
effetti, il Messia ci presenta questo “economo” non come modello
da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la
sua previdente astuzia. Dunque, Gesù
vorrebbe che i discepoli abbiano la stessa risolutezza che il fattore
ebbe per sé. Il fattore fu astuto nel conservare se stesso, il
discepolo sia altrettanto astuto nello “amministrare” la sua vita
e la sua dimora, spendendosi per il Regno. Certo l’amministratore
della parabola e il discepolo appartengono a due logiche diverse. il
primo a quella del mondo e il secondo a quella del Regno.
L’amministratore
disonesto e furbo, dice fra sé e sé: ““Che
cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?
Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno” (Lc 16,3). E
subito trova una soluzione intelligente e disonesta per sopravvivere.
Il
discepolo onesto ma scaltro o, con un aggettivo più positivo,
intelligente, non solo cerca di amministrare in modo moralmente buono
i beni a lui affidati, ma si mette subito a fare quello che questo
amministratore dice di non volere fare: “scavare”
(è il significato letterale del verbo greco che è stato tradotto
con zappare) e “mendicare”,
perché non ha la forza o se ne vergogna.
Accogliamo
l’invito del libro dei Proverbi, che invita a scavare per ricercare
la Sapienza come si farebbe per i tesori più preziosi (Pr
2, 4). Scavare con le mani del cuore e della mente. Scavare sempre,
ogni giorno, sempre, fino alla fine della vita, per cercare il
Signore, il suo volto, la sua parola.
Lo
scavare le profondità della terra, della mente e del cuore dell’uomo
per ricercare Dio è un lavoro per vivere da uomini.
Dobbiamo
irrobustire le nostre mani fiacche mettendole giunte in preghiera. E'
necessario rendere salde le nostre ginocchia vacillanti e cominciare
a lavorare davvero per il Vangelo, a sudare e faticare per cercare il
Signore, il nostro vero tesoro, per poi “amministrarlo” nella
comunione e nella condivisione.
2)
Mendicare.
La
forza per scavare va domandata, quindi la ricerca si fa mendicanza.
La ricerca di Dio, la domanda di Lui e di vedere il Suo volto non
sono solamente un’ adesione ad un
complesso in sé completo di dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio
presente nell'uomo, mendicante di Infinito, di parole di vita eterna.
Commentando
il Salmo 104, che invita a “cercare sempre il volto di Dio”,
Sant’Agostino scrive che questo invito non vale soltanto per questa
vita; vale anche per l’eternità. La scoperta del “volto di Dio”
non si esaurisce mai. Più entriamo nello splendore dell’amore
divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così che “nella
misura in cui cresce ‘'amore, cresce la ricerca di Colui che è
stato trovato” (Enarr. in Ps.
104,3: CCL 40, 1537).
Noi
non siamo esseri per la morte (cfr Heiddeger, Essere e tempo), ma per
la vita, e mendichiamo per vivere eternamente. Il mendicante di Dio
cerca il Pane della vita e con la forza datagli da questo Pane può
cominciare e perseverare nel cammino verso la vita.
Certo
se guardiamo solo alle esteriorità, l’immediata
evidenza è che la vita appare come un lungo viaggio verso la morte,
che ha come monumento una tomba, che quando è artisticamente bella è
la glorificazione della morte.
Ma
se, come suggerisce Papa Francesco, guardiamo alla vita con tre
inquietudini: quella della mente, quella
dell’incontro con Dio e quella dell’amore, saremo pellegrini
verso la vita. Mendicando, facciamoci
pellegrini che dalla morte vanno verso la vita.
L’importante
è continuare a mendicare, non chiudendosi in se stessi.
L’indispensabile è continuare a
cercare la verità, il senso ultimo e definitivo della vita, non
smettendo mai a cercare il volto di Dio.
Questa
inquietudine della mente porta a desiderare “inquietamente”
l’incontro personale con Dio. In effetti l’inquietudine di
conoscere la verità e il senso della vita, non è per avere dei bei
pensieri in testa ma per incontrare Dio, senso e significato della
vita e che in Cristo svela il Volto buono e misericordioso del
destino. In questo incontro con chi è Parola di Vita e dice parole
di vita eterna facciamo esperienza del Dio vicino. Siamo portati a
capire che quel Dio che cerchiamo fuori di noi, lontano da noi è il
Dio vicino ad ogni essere umano, il Dio vicino al nostro cuore, più
intimo a noi di noi stessi (cfr. S. Agostino, Le
Confessioni, III,6,11). Tuttavia,
non bisogna fermarsi al conoscere ed incontrare Dio. Il cammino
inquieto continua. Il cammino sfocia nella terza inquietudine: quella
dell’amore.
Che
cos’è l’inquietudine dell’amore? “E’ cercare sempre, senza
sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella
intensità che porta anche alle lacrime. Mi vengono in mente Gesù
che piange davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, Pietro che, dopo
aver rinnegato Gesù ne incontra lo sguardo ricco di misericordia e
di amore e piange amaramente, il Padre che attende sulla terrazza il
ritorno del figlio e quando è ancora lontano gli corre incontro; mi
viene in mente la Vergine Maria che con amore segue il Figlio Gesù
fino alla Croce.” (Papa Francesco, Omelia 28 agosto 2013).
Nella
verginità l’inquietudine dell’amore si fa mendicanza, che pone
l’essere umano nella domanda stabile e costante di Cristo. In
effetti “la verginità non è assenza di desiderio, ma intensità
di desiderio” (Santa Teresa d’Avila). La
verginità non è entrata nel mondo come filosofia, è entrata come
dono di Dio che chiama ad una comunione stabile, profonda ed
esclusiva con Cristo. Il fatto che la verginità sia esclusiva non
implica che sia escludente, perché nell’amore a Dio c’è l’amore
del prossimo.
Spinte
dall’amore incondizionato a Cristo e all’umanità, soprattutto ai
poveri e ai sofferenti, le vergini consacrate vivono come “mendicanti
del Cielo” (Jacques Maritain) e “riproducono nella loro vita
quotidiana la vita terrena di Gesù: casto, povero e obbediente”
(Papa Francesco, Cost.
Ap. Vultum Dei quarere, 5; Cfr. San
Giovanni Paolo II, Vita consecrata,
n. 14).
E’
vero quello che l’essere innamorati di Dio e del prossimo riguarda
tutti i credenti, come già scriveva Sant’Agostino : “Il bel
giardino del Signore, o fratelli, possiede, non solo le rose dei
martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono
nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone
deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti”
(Discorsi,
304,3).
Ma
è altrettanto vero che le vergini
consacrate nel mondo, vivendo nel povero, obbediente e casto distacco
da se stessi, da tutti e da tutto, testimoniano in modo più alto e
radicale che Colui che solo manca al cuore umano è il Figlio di Dio
fatto carne, presente nel mondo. La
verginità dentro il mondo è, infatti, la suprema testimonianza che
tutto è in funzione di Cristo: richiama a coloro che vanno a
lavorare e a coloro che si sposano che tutto è in funzione di
Cristo.
Le
vergini consacrate testimoniano che anche nel mondo è possibile dare
la priorità a Dio e che solamente quando
Lui sta al centro del nostro pensare e operare di ogni giorno, la
vita personale e la società con i suoi dinamismi possono trovare il
loro giusto orientamento e pieno significato. Dove, invece, Dio non
occupa il primo posto; là dove Dio non
è riconosciuto e adorato come il Bene supremo, la dignità dell’uomo
è messa a pericolo. In un mondo in cui
l’egoismo e la ricerca del piacere dettano legge, le vergini
consacrate sono le custodi della purezza, del disinteresse, della
pietà e della vera dignità umana.
Lettura
Patristica
Bruno
di Segni (1045 – 1123)
In
Luc., 2, 7
È
una parabola molto chiara e non c’è bisogno di spiegarne i
dettagli. Ci dica lo stesso Signore perché inventò questa parabola.
"Perché",
egli dice, "i
figli di questo mondo son più avveduti dei figli della luce"
(Lc
16,8).
Il Signore non loda, certo, la malizia dell’amministratore, ma la
sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che fa, ma per l’ingegno
col quale provvede al suo futuro. Non sapendo, infatti, come vivere,
poiché non era capace di zappare e si vergognava di chieder
l’elemosina, trovò un aiuto singolare, aggiungendo una frode alla
malversazione dei beni del suo padrone. Non viene lodato per la
moralità della sua azione, ma per l’astuta trovata. E a questa
avvedutezza applaude il Signore, quando dice: "I
figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce".
Quelli sono più avveduti nel male che questi nel bene. A stento,
infatti, si trovano alcuni santi che mettano tanta accortezza
nell’acquisto dei beni eterni, quanta furbizia hanno questi
nell’accaparrarsi i beni temporali. Per questi essi vegliano giorno
e notte, lavorano, s’angustiano, e con frodi, furti, rapine,
tradimenti, spergiuri, omicidi non cessano mai d’accumular tali
ricchezze. E chi può dire quanta furbizia mettano nell’ingannarsi
l’un l’altro? Sentano i figli della luce e si vergognino di farsi
vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte
proprio perché diventiamo più accorti senza tuttavia imitarli
nell’ingiustizia. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: "Fatevi
degli amici col mammona d’iniquità"
(Lc
16,9),
ma non come fece l’amministratore infedele. Non frodando l’altrui,
ma dando il vostro. Tutte le ricchezze che sono avaramente
conservate, sono inique. E non sono equamente distribuite, se, dopo
aver messo da parte ciò che serve a te, non dai il resto agli
indigenti. Perciò l’Apostolo: Ci vuole - dice - una certa
uguaglianza; la vostra abbondanza colmi la loro indigenza e la loro
abbondanza supplisca alla vostra necessità (2Co
8,13).
Dalle quali parole si vede bene che non ci viene ordinato di dare il
necessario, ma il di più. L’Apostolo non vuole che diamo al punto
da ridurci in penuria. Le ricchezze, allora, che per sé sono inique
se son divise a questo modo, generano amici e il premio eterno. Le
ricchezze non divise sono ingiuste, ma se son divise, diventano
giuste. Né c’è più affatto ricchezza, se i beni son ridotti alla
necessità. Tolto il superfluo, finisce il problema dell’iniquità
della ricchezza. Il Maestro continua: "Chi
è fedele nel poco è fedele anche nel molto, chi è ingiusto nel
poco, è ingiusto anche nel molto ()".
Questo vale particolarmente per gli apostoli e per i dispensatori dei
beni della Chiesa. Non sono dunque da affidare cose importanti a
quelli che nella vita privata non sono stati fedeli, e di quel poco
che avevano non fecero opere di misericordia e di pietà. Ma non
dobbiamo dubitare della fedeltà amministrativa di coloro che
generosamente sovvengono gli altri col poco che hanno. Perciò
l’Apostolo ammonisce che i vescovi non devono essere cupidi di
danaro né procacciatori di lucro ingiusto. Bisogna tener presente
nella elezione dei capi come si siano diportati nel poco e quanto
abbiano di misericordia e di pietà. Perciò è detto ancora: "Se
non siete stati fedeli nell’amministrare le ricchezze di questo
mondo, chi vi affiderà le vere?"
Se non avete usato in misericordia dei beni transitori, chi potrà
affidarvi l’amministrazione dei beni della Chiesa, che sono veri e
santi?
"E
se non siete stati fedeli nel bene altrui, ciò che è vostro chi ve
lo darà?" Non son beni nostri le
cose che possono essere perdute a ogni momento della vita, come tutti
i beni temporali. Son nostri invece i beni che non possiamo perdere.
Son ricchezze altrui le ricchezze temporali; essere buoni e non
mettere la nostra speranza nei beni temporali, questa è, invece, la
nostra vera ricchezza. Ma questa ricchezza veramente nostra non ci
sarà data, se non saremo fedeli nell’amministrare i beni
temporali; a questa condizione i veri beni ci sono stati
predestinati.
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