XXVII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 2 ottobre 2016
Rito Romano
Ab
1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Rito
Ambrosiano
Is
56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38
V
Domenica dopo il martirio di San
Giovanni il Precursore
1)
La fede non è un problema di quantità.
Perché,
nel Vangelo di oggi, i discepoli chiedono a Cristo. “Aumenta la
nostra fede”(Lc
17, 5)? Perché la richiesta di seguirLo lasciando tutto (cfr. Lc
16, 13) e di perdonare senza misura (cfr. Lc
17, 3-4), ha loro fatto capire quanto piccola sia la loro fede.
Da
tempo avevano riconosciuto in Cristo il Figlio di Dio, l’Amore
misericordioso e fedele. Oggi, chiedono di avere una fiducia sempre
più grande in questo amore misericordioso e fedele di Dio.
In
effetti, solo una fede tenace e piena consente di mettere tutta la
loro vita sotto il segno della misericordia e della fedeltà.
I
discepoli di allora fanno capire a noi discepoli di oggi che siamo
chiamati a dare fiducia a questa fedeltà divina, che è l’impegno
perseverante e totale con cui Dio si è consegnato all’umanità una
volta per tutte nella sua Parola. Credere alla Parola non è un
problema di quantità, è dare la parola alla Parola, è impegnarsi
senza riserve con Colui che si è impegnato nei nostri confronti,
senza ripensamenti.
Per
far capire che non si tratta di avere una fede quantitativamente
grande, ma qualitativamente autentica e tenace, il Cristo fa un
paragone molto convincente: il gelso è saldamente abbarbicato
alla terra e neppure le tempeste riescono a sradicarlo. Ebbene, basta
un briciolo di fede -piccolo come un granello di senape- può
sradicarlo. La fede è un affidarsi umilmente e totalmente a Dio, è
l’accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e
non sulle nostre. Le possibilità di riuscita non sono dovuta alla
grandezza delle nostre capacità ma all’ampiezza dell’amore di
Dio verso di noi e nel quale noi crediamo.
Un
esempio attuale ci viene da Santa Teresa di Calcutta, che non
ha certo compiuto gesti spettacolari, ma che con grande fede operosa
ha mostrato come dalla potenza della fede sgorga la potenza
dell’amore. Questa Santa ha fatto ben più che trapiantare gelsi in
mare. Cominciando ad occuparsi dei moribondi di Calcutta, ha curato e
salvato una folla innumerevole di poveri grazie anche alle migliaia
di suore che l’hanno seguita e la seguono tuttora. Grazie ai suoi
occhi –puri come quelli degli angeli- Madre Teresa ha saputo
riconoscere Cristo nei vari Lazzaro che incontrava nel mondo e grazie
alla fede che è sorgente di amore ha saputo curare i più poveri dei
poveri con mani sante e pure, per le quali toccare le piaghe di un
malato era toccare quelle di Cristo. La “qualità” della fede
della Madre dei Poveri ha innescato una corrente di amore totalmente
gratuito e disinteressato che tuttora parla molte lingue ed è
destinato a durare a lungo.
Santa Teresa di
Calcutta ha mostrato che nella Chiesa c’è il ministero della
carità, perché la Chiesa non deve solo annunciare la Parola, ma
vivere la Parola che è carità.
La salda fede di M.
Teresa le permise di vivere in totale abbandono a Cristo, in amorosa
fiducia di Lui, al quale lei aveva “semplicemente” fatto spazio,
diventandone la sua santa dimora. Questa fede è ben espressa in
questa sua preghiera: “Signore, dammi la fede che muove le
montagne, ma con l'amore. Insegnami quell'amore che prova gioia nella
verità, sempre pronto a perdonare, a credere, a sperare e a
sopportare. Infine, quando tutte le cose finite si dissolveranno e
tutto sarà chiaro, possa io essere stato il debole, ma costante
riflesso del tuo amore perfetto.”
Questa preghiera ci
aiuterà a crescere nella fede operosa nella carità.
2) Servizio e
gratuità.
Dopo l’insegnamento
sulla forza della fede (ne basta una briciola per sradicare un
albero), il Vangelo di oggi prosegue con una breve parabola, in cui
Gesù non intende descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo,
ma indicare quello del credente verso Dio: un comportamento di totale
disponibilità, senza calcoli e senza pretese.
Il servizio e la
gratuità sono le caratteristiche fondamentali del discepolo, che
-come tutti in questo mondo- vi si trova con scandalo e peccati, ma
vi vive con la misericordia e il perdono. Per questo è necessario un
aumento costante di fede, cioè di conoscenza dell’amore di Dio per
noi, e vivere nel servizio e con gratuità, perché la carità e
giustizia non sono solo volontariato sociale, ma azione spirituale
effettuata con la grazia dello Spirito Santo. I santi – e Santa
Teresa di Calcutta ne è l’esempio più attuale - hanno
sperimentato profonda unità di vita tra preghiera e azione tra amore
per Dio e carità per i fratelli.
Questa Santa donna si
fece Missionaria della Carità perché nella fede, così salda da
resistere all’aridità e all’assenza di consolazioni spirituali,
non solamente credette che Gesù è la manifestazione più grande
dell’amore di Dio, ma è anche colui al quale noi ci uniamo per
poter credere. La fede per lei non era solamente guardare verso Gesù,
ma guardare dal punto di vista di Gesù. La fede fu per lei, come
deve essere anche per noi, una partecipazione del modo di Cristo di
guardare alla vita.
Come insegna Papa
Francesco: “La fede è ascolto e visione, e si trasmette come
parola e come luce” (Lumen fidei, 37), quindi la fatica più
grande del nostro credo forse non è quella di accettare le dottrine,
ma di accogliere la fede come un fatto vitale che parla e illumina la
vita, cioè che dà senso e significato alla vita.
Insomma, la fede non è
un atteggiamento puramente intellettuale, come la semplice
accettazione di alcune verità. La fede è questione di vivere e non
solamente di professare, richiede testimonianza coraggiosa e servizio
gratuito. Chi dice di credere e di dimorare in Cristo, deve
comportarsi come lui si è comportato (1 Gv 2, 6). Lo
ribadisce anche l’Apostolo Giacomo nella sua Lettera: la fede senza
le opere (di carità) è vana e inesistente (Gc 2, 26).
Un esempio di questo
servizio gratuito che si fa testimonianza è dato dalle vergini
consacrate nel mondo, che con il dono totale di se stesse a Cristo
mostrano che la fede è il ragionevole abbandonarsi nelle braccia
dell’Amato. Queste donne mostrano in modo esemplare che noi tutti
siamo chiamati a fidarci non di un mistero nemico, ma amoroso, a
seguire non ordini assurdi di una divinità capricciosa, ma una legge
della libertà data da un Dio che libera.
Il Dio che la Bibbia
rivela è il Dio
che chiede fiducia,
che ha camminato nel
deserto e sofferto,
che ha accompagnato e
illuminato delle tribù di beduini facendole divenire popolo della
speranza,
che ha illuminato i re
di Israele,
che ha strappato degli
uomini dal pascolo e dalla terra consacrandoli profeti,
che è Parola fatta
carne e chiede di essere accolta non solo con le orecchie ma con il
cuore.
Queste donne
consacrate si sono fatte spose di questo Dio che soprattutto dalla
Croce sul Calvario in poi ha dimostrato milioni di volte quanto
dolorosamente, appassionatamente ci ama.
Con la loro
consacrazione queste donne testimoniano che il granellino di senapa,
il granello di fede:
- è credere nell'amore di un Dio che ci ama infinitamente e che non viene mai meno;
- è amare servendo concretamente l'altro, non servendosi i dell'altro.
- è fidarsi e affidarsi alla Parola, potenza dell’amore che è e dà vita.
Dunque la potenza della
fede è anzitutto la potenza dell'amore, quell'amore incredibile per
l'uomo, per ogni uomo, che Dio ha manifestato nel suo Figlio e che
rende il credente stesso capace a sua volta di amare.
Lettura patristica
Bernardo di Chiaravalle
(1090 -1153),
De diversis, 23, 5-8
"Non
furono dieci a essere guariti; e gli altri nove dove sono?"
(Lc
17,17).
Penso che ricordiate che son queste le parole del Salvatore, che
rimproverava l’ingratitudine di quei nove. Si vede dal testo quanto
abbiano saputo ben pregare coloro che dicevano: "Gesù,
figlio di David, abbi pietà di noi"
(Lc
18,38);
mancò però l’altra cosa di cui parla l’Apostolo (1Tm
2,1),
il ringraziamento, perché non tornarono a render grazie a Dio.
Anche
oggi vediamo molti impegnati a chiedere ciò di cui sanno d’aver
bisogno, ma vediamo ben pochi che si preoccupano di ringraziare per
ciò che hanno ricevuto. E non è che è male chiedere con
insistenza; ma l’essere ingrati toglie forza alla domanda. E forse
è un tratto di clemenza il negare agli ingrati il favore che
chiedono. Che non capiti a noi di essere tanto più accusati
d’ingratitudine, quanto maggiori sono i benefici che abbiamo
ricevuto. È dunque un tratto di misericordia, in questo caso, negare
misericordia, com’è un tratto d’ira mostrare misericordia, certo
quella misericordia di cui parla il Padre della misericordia
attraverso il Profeta, quando dice: "Facciamo
misericordia al malvagio, ed egli non imparerà a far giustizia"
(Is
26,10)...
Vedi,
dunque, che non giova a tutti essere guariti dalla lebbra della
conversione mondana, i cui peccati son noti a tutti; ma alcuni
contraggono un male peggiore, quello dell’ingratitudine; male che è
tanto peggiore, quanto è più interno...
Fortunato
quel Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse
ricevuto, e perciò tornò a ringraziare il Signore. Fortunato colui
che a ogni dono, torna a colui nel quale c’è la pienezza di tutte
le grazie; poiché quando ci mostriamo grati di quanto abbiamo
ricevuto, facciamo spazio in noi stessi a un dono anche maggiore. La
sola ingratitudine impedisce la crescita del nostro rapporto di
grazia, poiché il datore, stimando perduto ciò che ha ricevuto un
ingrato, si guarda poi bene di perdere tanto più, quanto più dà a
un ingrato. Fortunato perciò colui che, ritenendosi forestiero, si
prodiga in ringraziamenti per il più piccolo favore, e ha coscienza
e dichiara che è un gran dono ciò che si dà a un forestiero
sconosciuto. Noi però, miserabili, sebbene a principio, quando
ancora ci sentiamo forestieri, siamo abbastanza timorati, umili e
devoti, poi tanto facilmente ci dimentichiamo quanto sia gratuito
tutto ciò che abbiamo ricevuto e, come presuntuosi della nostra
familiarità con Dio, non badiamo che meriteremmo di sentirci dire
che i nemici del Signore sono proprio i suoi familiari (Mt
10,36).
Lo offendiamo più facilmente, come se non sapessimo che dovranno
essere giudicati più severamente i nostri peccati, dal momento che
leggiamo nel salmo: "Se
un mio nemico mi avesse maledetto, l’avrei pure sopportato"
(Ps
54,13).
Perciò vi scongiuro, fratelli; umiliamoci sempre più sotto la
potente mano di Dio e facciamo di tutto per tenerci lontani da questo
orribile vizio dell’ingratitudine, sicché, impegnati con tutto
l’animo nel ringraziamento, ci accaparriamo la grazia del nostro
Dio, che sola può salvare le nostre anime. E mostriamo la nostra
gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità;
perché il Signore nostro, che è benedetto nei secoli, non vuole
tanto parole, quanto azioni di grazie. Amen.