venerdì 30 settembre 2016

La Potenza della fede è potenza dell’amore

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 2 ottobre 2016
Rito Romano
Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10

Rito Ambrosiano
Is 56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38
V Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) La fede non è un problema di quantità.
Perché, nel Vangelo di oggi, i discepoli chiedono a Cristo. “Aumenta la nostra fede”(Lc 17, 5)? Perché la richiesta di seguirLo lasciando tutto (cfr. Lc 16, 13) e di perdonare senza misura (cfr. Lc 17, 3-4), ha loro fatto capire quanto piccola sia la loro fede.
Da tempo avevano riconosciuto in Cristo il Figlio di Dio, l’Amore misericordioso e fedele. Oggi, chiedono di avere una fiducia sempre più grande in questo amore misericordioso e fedele di Dio.
In effetti, solo una fede tenace e piena consente di mettere tutta la loro vita sotto il segno della misericordia e della fedeltà.
I discepoli di allora fanno capire a noi discepoli di oggi che siamo chiamati a dare fiducia a questa fedeltà divina, che è l’impegno perseverante e totale con cui Dio si è consegnato all’umanità una volta per tutte nella sua Parola. Credere alla Parola non è un problema di quantità, è dare la parola alla Parola, è impegnarsi senza riserve con Colui che si è impegnato nei nostri confronti, senza ripensamenti.
Per far capire che non si tratta di avere una fede quantitativamente grande, ma qualitativamente autentica e tenace, il Cristo fa un paragone molto convincente: il gelso è saldamente abbarbicato alla terra e neppure le tempeste riescono a sradicarlo. Ebbene, basta un briciolo di fede -piccolo come un granello di senape- può sradicarlo. La fede è un affidarsi umilmente e totalmente a Dio, è l’accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e non sulle nostre. Le possibilità di riuscita non sono dovuta alla grandezza delle nostre capacità ma all’ampiezza dell’amore di Dio verso di noi e nel quale noi crediamo.
Un esempio attuale ci viene da Santa Teresa di Calcutta, che non ha certo compiuto gesti spettacolari, ma che con grande fede operosa ha mostrato come dalla potenza della fede sgorga la potenza dell’amore. Questa Santa ha fatto ben più che trapiantare gelsi in mare. Cominciando ad occuparsi dei moribondi di Calcutta, ha curato e salvato una folla innumerevole di poveri grazie anche alle migliaia di suore che l’hanno seguita e la seguono tuttora. Grazie ai suoi occhi –puri come quelli degli angeli- Madre Teresa ha saputo riconoscere Cristo nei vari Lazzaro che incontrava nel mondo e grazie alla fede che è sorgente di amore ha saputo curare i più poveri dei poveri con mani sante e pure, per le quali toccare le piaghe di un malato era toccare quelle di Cristo. La “qualità” della fede della Madre dei Poveri ha innescato una corrente di amore totalmente gratuito e disinteressato che tuttora parla molte lingue ed è destinato a durare a lungo.
Santa Teresa di Calcutta ha mostrato che nella Chiesa c’è il ministero della carità, perché la Chiesa non deve solo annunciare la Parola, ma vivere la Parola che è carità.
La salda fede di M. Teresa le permise di vivere in totale abbandono a Cristo, in amorosa fiducia di Lui, al quale lei aveva “semplicemente” fatto spazio, diventandone la sua santa dimora. Questa fede è ben espressa in questa sua preghiera: “Signore, dammi la fede che muove le montagne, ma con l'amore. Insegnami quell'amore che prova gioia nella verità, sempre pronto a perdonare, a credere, a sperare e a sopportare. Infine, quando tutte le cose finite si dissolveranno e tutto sarà chiaro, possa io essere stato il debole, ma costante riflesso del tuo amore perfetto.”
Questa preghiera ci aiuterà a crescere nella fede operosa nella carità.

2) Servizio e gratuità.
Dopo l’insegnamento sulla forza della fede (ne basta una briciola per sradicare un albero), il Vangelo di oggi prosegue con una breve parabola, in cui Gesù non intende descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, ma indicare quello del credente verso Dio: un comportamento di totale disponibilità, senza calcoli e senza pretese.
Il servizio e la gratuità sono le caratteristiche fondamentali del discepolo, che -come tutti in questo mondo- vi si trova con scandalo e peccati, ma vi vive con la misericordia e il perdono. Per questo è necessario un aumento costante di fede, cioè di conoscenza dell’amore di Dio per noi, e vivere nel servizio e con gratuità, perché la carità e giustizia non sono solo volontariato sociale, ma azione spirituale effettuata con la grazia dello Spirito Santo. I santi – e Santa Teresa di Calcutta ne è l’esempio più attuale - hanno sperimentato profonda unità di vita tra preghiera e azione tra amore per Dio e carità per i fratelli.
Questa Santa donna si fece Missionaria della Carità perché nella fede, così salda da resistere all’aridità e all’assenza di consolazioni spirituali, non solamente credette che Gesù è la manifestazione più grande dell’amore di Dio, ma è anche colui al quale noi ci uniamo per poter credere. La fede per lei non era solamente guardare verso Gesù, ma guardare dal punto di vista di Gesù. La fede fu per lei, come deve essere anche per noi, una partecipazione del modo di Cristo di guardare alla vita.
Come insegna Papa Francesco: “La fede è ascolto e visione, e si trasmette come parola e come luce” (Lumen fidei, 37), quindi la fatica più grande del nostro credo forse non è quella di accettare le dottrine, ma di accogliere la fede come un fatto vitale che parla e illumina la vita, cioè che dà senso e significato alla vita.
Insomma, la fede non è un atteggiamento puramente intellettuale, come la semplice accettazione di alcune verità. La fede è questione di vivere e non solamente di professare, richiede testimonianza coraggiosa e servizio gratuito. Chi dice di credere e di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato (1 Gv 2, 6). Lo ribadisce anche l’Apostolo Giacomo nella sua Lettera: la fede senza le opere (di carità) è vana e inesistente (Gc 2, 26).
Un esempio di questo servizio gratuito che si fa testimonianza è dato dalle vergini consacrate nel mondo, che con il dono totale di se stesse a Cristo mostrano che la fede è il ragionevole abbandonarsi nelle braccia dell’Amato. Queste donne mostrano in modo esemplare che noi tutti siamo chiamati a fidarci non di un mistero nemico, ma amoroso, a seguire non ordini assurdi di una divinità capricciosa, ma una legge della libertà data da un Dio che libera.
Il Dio che la Bibbia rivela è il Dio
che chiede fiducia,
che ha camminato nel deserto e sofferto,
che ha accompagnato e illuminato delle tribù di beduini facendole divenire popolo della speranza,
che ha illuminato i re di Israele,
che ha strappato degli uomini dal pascolo e dalla terra consacrandoli profeti,
che è Parola fatta carne e chiede di essere accolta non solo con le orecchie ma con il cuore.
Queste donne consacrate si sono fatte spose di questo Dio che soprattutto dalla Croce sul Calvario in poi ha dimostrato milioni di volte quanto dolorosamente, appassionatamente ci ama.
Con la loro consacrazione queste donne testimoniano che il granellino di senapa, il granello di fede:
  • è credere nell'amore di un Dio che ci ama infinitamente e che non viene mai meno;
  • è amare servendo concretamente l'altro, non servendosi i dell'altro.
  • è fidarsi e affidarsi alla Parola, potenza dell’amore che è e dà vita.
Dunque la potenza della fede è anzitutto la potenza dell'amore, quell'amore incredibile per l'uomo, per ogni uomo, che Dio ha manifestato nel suo Figlio e che rende il credente stesso capace a sua volta di amare.

Lettura patristica
Bernardo di Chiaravalle (1090 -1153),
De diversis, 23, 5-8

       "Non furono dieci a essere guariti; e gli altri nove dove sono?" (Lc 17,17). Penso che ricordiate che son queste le parole del Salvatore, che rimproverava l’ingratitudine di quei nove. Si vede dal testo quanto abbiano saputo ben pregare coloro che dicevano: "Gesù, figlio di David, abbi pietà di noi" (Lc 18,38); mancò però l’altra cosa di cui parla l’Apostolo (1Tm 2,1), il ringraziamento, perché non tornarono a render grazie a Dio.

       Anche oggi vediamo molti impegnati a chiedere ciò di cui sanno d’aver bisogno, ma vediamo ben pochi che si preoccupano di ringraziare per ciò che hanno ricevuto. E non è che è male chiedere con insistenza; ma l’essere ingrati toglie forza alla domanda. E forse è un tratto di clemenza il negare agli ingrati il favore che chiedono. Che non capiti a noi di essere tanto più accusati d’ingratitudine, quanto maggiori sono i benefici che abbiamo ricevuto. È dunque un tratto di misericordia, in questo caso, negare misericordia, com’è un tratto d’ira mostrare misericordia, certo quella misericordia di cui parla il Padre della misericordia attraverso il Profeta, quando dice: "Facciamo misericordia al malvagio, ed egli non imparerà a far giustizia" (Is 26,10)...

       Vedi, dunque, che non giova a tutti essere guariti dalla lebbra della conversione mondana, i cui peccati son noti a tutti; ma alcuni contraggono un male peggiore, quello dell’ingratitudine; male che è tanto peggiore, quanto è più interno...

       Fortunato quel Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse ricevuto, e perciò tornò a ringraziare il Signore. Fortunato colui che a ogni dono, torna a colui nel quale c’è la pienezza di tutte le grazie; poiché quando ci mostriamo grati di quanto abbiamo ricevuto, facciamo spazio in noi stessi a un dono anche maggiore. La sola ingratitudine impedisce la crescita del nostro rapporto di grazia, poiché il datore, stimando perduto ciò che ha ricevuto un ingrato, si guarda poi bene di perdere tanto più, quanto più dà a un ingrato. Fortunato perciò colui che, ritenendosi forestiero, si prodiga in ringraziamenti per il più piccolo favore, e ha coscienza e dichiara che è un gran dono ciò che si dà a un forestiero sconosciuto. Noi però, miserabili, sebbene a principio, quando ancora ci sentiamo forestieri, siamo abbastanza timorati, umili e devoti, poi tanto facilmente ci dimentichiamo quanto sia gratuito tutto ciò che abbiamo ricevuto e, come presuntuosi della nostra familiarità con Dio, non badiamo che meriteremmo di sentirci dire che i nemici del Signore sono proprio i suoi familiari (Mt 10,36). Lo offendiamo più facilmente, come se non sapessimo che dovranno essere giudicati più severamente i nostri peccati, dal momento che leggiamo nel salmo: "Se un mio nemico mi avesse maledetto, l’avrei pure sopportato" (Ps 54,13). Perciò vi scongiuro, fratelli; umiliamoci sempre più sotto la potente mano di Dio e facciamo di tutto per tenerci lontani da questo orribile vizio dell’ingratitudine, sicché, impegnati con tutto l’animo nel ringraziamento, ci accaparriamo la grazia del nostro Dio, che sola può salvare le nostre anime. E mostriamo la nostra gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità; perché il Signore nostro, che è benedetto nei secoli, non vuole tanto parole, quanto azioni di grazie. Amen.


venerdì 23 settembre 2016

Il povero alla porta è Cristo

XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 25 settembre 2016
Rito Romano
Am 6,1.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31


Rito Ambrosiano
Pr 9,1-6; Sal 33; 1Cor 10,14-21; Gv 6,51-59
IV Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) Il mendicante alla porta.
Il Vangelo di questa 26ª domenica del tempo ordinario ci propone la parabola del ricco epulone (= mangione) gaudente e del povero Lazzaro. In questo modo siamo chiamati a guardare al povero, che è gettato alla nostra porta dalla fame e dalla guerra, riconoscendo in lui il Cristo che ci salva. La salvezza sta alla porta della nostra vita con gli abiti stracciati del mendicante piagato e affamato: “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo” (Mons. Luigi Giussani).
Invece di erigere muri siamo chiamati a costruire ponti di carità per i poveri, nei quali vi è il mendicante per eccellenza: Cristo salvatore.
Invece di guardare il povero con fastidio, accogliamolo con carità, con condivisione.
Per capire meglio l’insegnamento di Cristo vediamo la parabola di oggi più da vicino.
In questo racconto il Messia parla di un ricco, il cui egoismo gli impedisce di soccorrere il povero, rifiutando il quale come fratello rifiuta Dio, che di entrambi è Padre.
Quest’uomo ricco, del quale Gesù non dice il nome, è il tipico benestante che si preoccupa unicamente di assaporare le gioie della vita presente, senza pensare né a Dio, né agli altri, e neppure alla vita eterna.
Apparentemente, questo benestante non fa niente di male godendosi la vita, ma è tanto preso da questa gioia passeggera, che non si accorge nemmeno che alla porta della sua casa giace un povero, che per giunta è ammalato e ricoperto di piaghe. Inoltre, questo povero, che ha un nome: Lazzaro (nome che vuol dire “Dio aiuta”1 quindi Dio ci aiuta nel povero) é tormentato dalla fame, che non può soddisfare perché è fuori della porta e non può prendere neppure le briciole che cadono dalla tavola del ricco. Solo i cani hanno pietà di lui e gli leccano le ferite.
Questa prima parte della scena descritta nella parabola ci presenta la forza apparente della ricchezza, che permette di assaporare le gioie passeggere della vita che scorre rapidissimamente e non impedisce il drammatico dolore della morte. Del dopo morte parla la seconda parte della scena, nella quale vediamo Lazzaro nella gioia perenne e il ricco epulone nel dolore senza fine.
Va riconosciuto che le parole usate da San Luca sono molto forti. Lui scrive così perché sia chiaro che l’episodio è simbolico, ma ciò non implica che il messaggio che esse comunicano possa essere minimizzato o equivocato.
La parabola del ricco mangione e del povero Lazzaro affamato, in forma drammatica, presenta tutta la forza provvisoria e distruttiva della ricchezza usata male. Quando la ricchezza è ridotta ad essere solo un mezzo di soddisfazione personale, essa chiude talmente i cuori alle necessità del prossimo, al punto tale da rendere incapaci di vedere chi è nel bisogno e, peggio ancora, spinge a murare la porta per non vedere i medicanti ed escluderli dalla nostra vita. Invece di risolvere il problema con vera carità, lo si censura ipocritamente.
Insomma, la parabola non solo mostra il contrasto tra il povero e il ricco, ma mette in evidenza che il povero e il ricco sono vicini, ma il ricco non si accorge o non vuole accorgersi del povero.
Il vivere da ricchi egoisti rende ciechi di fronte al povero anche se sta davanti alla porta e ciechi di fronte alla Sacra Scrittura che ci dice di riconoscere Dio nel povero. Il ricco egoista non osteggia Dio e non opprime il povero, semplicemente non lo vede. Sta qui il grande pericolo della ricchezza, ed è questa forse la principale lezione della parabola.


2) Purezza angelica e povertà.
Santa Teresa di Calcutta affermava che per riconoscere Cristo nel povero ci vuole una purezza angelica. Se i nostri occhi e cuori sono puri possono riconoscere Gesù in Lazzaro.
Il Redentore ha “assunto” la nostra natura di poveri Lazzari: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita sazia di beni materiali, superba e prepotente. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà di mendicanti di infinito, di nostalgici di eterno. Lui, il Mendicante, bussa alla porta nostro cuore mendicante di felicità vera: pura.
Per avere questa purezza che sa scorgere Cristo nel povero che si accontenta delle briciole della nostra mensa, occorre –come primo passo- domandare perdono con un cuore contrito.
Il secondo passo è “alzare lo sguardo” a Cristo, come il ricco lo alzò verso Lazzaro in cielo con Abramo e mendicare a Cristo di avere lo stesso destino di Lazzaro, il fratello che ha saputo amare in mezzo alla sua povertà e malattia. Da parte nostra mendichiamo un cuore puro che permetta ai nostri occhi di vedere Cristo accanto a noi, che –come Lazzaro- mendica la nostra attenzione, la nostra pietà.
Il terzo passo è aprire la porta del nostro cuore a cui Gesù bussa rivestito della nostra debolezza per risvegliarci dal torpore di una vita superficiale e sazia di beni materiali.
Il quarto passo è umilmente riconoscerci come poveri “cani” che –come dice la parabola- sono scacciati da tutti ma che si “accorgono del dolore innamorato” di Lazzaro-Cristo e Gli curano le piaghe che li salvano.
Infine convertirsi è domandare umili e pentiti che qualcuno “bagni la punta del dito per bagnarci la lingua” e ci doni comunione di vita. In questa vitale comunione di amore sono superate le barriere tra mariti e mogli, tra figli e genitori, tra confratelli e tra colleghi, tra poveri e ricchi, tra i rifugiati e noi.
Aprendo la nostra porta a questo prossimo, saremo capaci di aprirla a Cristo, l’Emmanuele, il Dio che è sempre con noi e che ci è più prossimo di quanto noi lo siamo a noi stessi.
Tutti siamo chiamati a vivere la purezza per riconoscere Cristo nel povero ed essere mendicanti del Salvatore, ma la vergini consacrate nel mondo testimoniano che la verginità è quella “innamorata povertà” (Jacopone da Todi) che lascia ogni altro amore per donarsi a Cristo. Con il cuore vergine guardano a Cristo come ha fatto la Veronica e diventano ciò che contemplano, mendicando solo il Suo amore.
Grazie a questo amore verginale che contempla l’Amato, il cuore delle vergini diventa il luogo dove si imprime il volto di Cristo, icona di verità. Con la vita di mendicanti dello Sposo testimoniano che lietamente si può lasciare tutto perché con Lui nulla è perduto, ma tutto portato a compimento. Da Lui viene quella luce di perfezione che risplende negli atti, nelle parole, nello sguardo di quelle creature che fanno della nostra vita un canto che canta così:
«Forse che fine della vita è vivere? Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma salirvi e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!» (Paul Claudel, L’Annuncio a Maria). Il loro cuore è in sintonia con la misericordia e la loro vita consacrata è segno che ciascuno di noi è chiamato ad essere “luogo” abitato da Dio, il cui potente amore perdona e ricrea.

1 Lazzaro vien dall’ebraico: “Elì osèr: Dio aiuta”. Il nome del povero è “Dio aiuta” sia perché Dio aiuta il povero, sia perché il povero è Dio che ci aiuta. Ciò che avete fatto ad uno di questi ultimi lo avete fatto a me, venite benedetti. Cioè il povero è lì ad aiutarci ed ha un nome; il povero è Dio che ci aiuta.

Lettura Patristica
San Gregorio Magno
Hom., 40, 3 s.10


1. Fate dei poveri i vostri avvocati

       "Un tale era ricco e si vestiva di porpora e bisso e banchettava ogni giorno splendidamente. E c’era un mendicante, di nome Lazzaro, pieno di piaghe, che se ne stava per terra alla porta del ricco" (Lc 16,19). Alcuni credono che il Vecchio Testamento sia più severo del Nuovo ma si sbagliano. Nel Vecchio, infatti, non è condannato il non dare, ma la rapina. Qui, invece, questo ricco non è condannato per aver preso l’altrui, ma per non aver dato il suo. Non si dice ch’egli abbia fatto violenza a qualcuno, ma che faceva pompa dei beni ricevuti. Si può capire, quindi, quale pena dovrebbe meritare colui che ruba l’altrui, se è già condannato all’inferno colui che non dona il proprio. Nessuno perciò si assicuri dicendo: Non ho rubato nulla, mi godo ciò che m’è stato legittimamente assegnato, poiché questo ricco non è stato punito per aver rubato, ma perché si abbandonò malamente alle cose che aveva ricevuto. Lo ha condannato all’inferno quel suo non essere guardingo nella prosperità, il piegare i doni ricevuti al servizio della sua arroganza, il non aver voluto redimere i suoi peccati, pur avendone tutti i mezzi...

       Ma bisogna far bene attenzione anche al modo di narrare usato dalla Verità, quando indica il ricco superbo e l’umile povero. Si dice infatti: "Un tale era ricco", e poi si aggiunge subito: "E c’era un povero di nome Lazzaro". Certo, tra il popolo son più noti i nomi dei ricchi, che quelli dei poveri. Perché allora il Signore, parlando di un ricco e di un povero, tace il nome del ricco e ci dà quello del povero? Certo, perché il Signore riconosce e approva gli umili e ignora i superbi. Perciò dice anche ad alcuni che s’insuperbivano dei miracoli da loro operati: "Non vi conosco; andate via da me, gente malvagia" (Mt 7,23). Invece di Mosè è detto: "Ti conosco per nome" (Ex 33,12). Del ricco, dunque, dice: "Un tale ricco"; del povero, invece: "Un mendicante di nome Lazzaro", come se volesse dire: Conosco il povero, umile, non conosco il ricco, superbo; quello lo approvo riconoscendolo, questo lo condanno rifiutando di conoscerlo.

       Bisogna anche osservare con quanta attenzione il nostro Creatore disponga tutte le cose. Il fatto è uno solo, ma non dice una cosa sola. Lazzaro, coperto di piaghe, sta innanzi alla porta del ricco. Da questo unico fatto il Signore ricava due giudizi. Forse il ricco avrebbe avuto una scusa, se Lazzaro povero e piagato non fosse stato proprio alla sua porta, se fosse stato lontano, se la sua indigenza non avesse dato perfino fastidio ai suoi occhi. E se il ricco fosse stato lontano dagli occhi del povero malato, questi avrebbe dovuto sopportare una tentazione meno grave. Ma ponendo il povero e malato alla porta del ricco e gaudente, il Signore, allo stesso tempo, aggrava il titolo di condanna del ricco, che non si commuove alla vista del povero, e fa vedere quanto grande sia la tentazione del povero, che vede ogni giorno lo scialacquio del ricco. Non vedete, infatti, che dura tentazione dovesse essere per il povero non aver neanche il pane, esser malato, e vedere il ricco far feste tra porpora e bisso; sentirsi mordere dalle piaghe e veder quello scialarsela tra tanti beni, aver bisogno di tutto e veder quello che non voleva dar nulla? Che tumulto di tentazioni dev’essere stato nel cuore del povero, per il quale poteva essere già abbastanza la sola pena della povertà, anche se fosse stato sano; e poteva essere abbastanza la malattia, anche se avesse avuto dei mezzi. Ma perché il povero fosse maggiormente provato, fu afflitto contemporaneamente dalla malattia e dalla povertà. Vedeva il ricco muoversi sempre in mezzo a uno stuolo di gente, e lui nessuno lo visitava. E che nessuno lo avvicinasse lo attestano i cani che ne leccavano le piaghe.

       "Morì poi il mendicante e fu portato dagli angeli tra le braccia di Abramo. Morì anche il ricco e fu gettato nell’inferno" (Lc 16,22). Così proprio quel ricco, che in questa vita non volle aver compassione del povero, ora, condannato, ne cerca l’aiuto. Viene aggiunto, infatti: "Alzando gli occhi dai suoi tormenti, vide lontano Abramo e Lazzaro tra le sue braccia e gridò: Padre Abramo, abbi pietà di me. Di’ a Lazzaro che metta il suo dito nell’acqua e ne faccia cadere una goccia sulla mia bocca, perché io brucio in questa fiamma" (Lc 16,23-24). Oh, quant’è sottile il giudizio di Dio! E quant’è misurata la distribuzione dei premi e delle pene! Lazzaro avrebbe voluto le briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora il ricco, nel supplizio, vorrebbe che Lazzaro facesse cadere dal dito una goccia d’acqua sulla sua bocca. Vedete, vedete, allora, fratelli, quanto sia stretta la giustizia di Dio. Il ricco non volle dare al povero piagato la più piccola porzione della sua mensa, e nell’inferno è ridotto a chiedere la più piccola delle cose. Negò le briciole e chiede una goccia d’acqua...

       Ma voi, fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro.


venerdì 16 settembre 2016

Il fedele è intelligente

XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 18 settembre 2016
Rito Romano
Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13


Rito Ambrosiano
Is 43,24c-44,3; Sal 32; Eb 11,39-12,4; Gv 5,25-36
III Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) Elogio dell’intelligenza.
Nelle domeniche passate, i brani scelti dal racconto evangelico di San Luca ci hanno fatto riflettere sui pericoli di un attaccamento egoistico al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli. Anche quest’oggi, attraverso una parabola un po’ stupefacente, perché racconta di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr Lc 16,1-13), San Luca offre ai suoi discepoli, quindi a noi, un serio e utile insegnamento circa l’amministrazione corretta dei beni del mondo e la gestione concreta della propria vita, inserita in un rapporto filiale con Dio.
In questo racconto dell’amministratore astuto, furbo, possiamo riconoscervi la nostra storia. Ogni discepolo, quindi ciascuno di noi, è un amministratore del Signore, al quale Lui affida in custodia e gestione la terra e i suoi beni, primi fra tutti i fratelli in umanità.
La parola “amministratore” ricorre sette volte nella parabola e perciò va presa in seria considerazione. Nel testo greco c’è “economos”, che in italiano si può tradurre alla lettera con “economo” (eco da oikos: casa e nomos= legge), cioè “colui che dà la legge alla casa”.
Allora, viene spontaneo farsi le seguenti domande: “Quale legge offriamo alla nostra casa, alla nostra esistenza, alla casa di Dio, al tempio santo della presenza di Dio?”; “Qual è la legge che regola i nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre azioni e relazioni?”; “La nostra legge è il Signore Gesù, termine e fine di essa (cfr. Rm 10, 4)?”; “Acconsentiamo, nel nostro cuore, alla legge di Dio (cfr. Rm 7, 22), cioè la viviamo in modo profondo o solo superficialmente, distrattamente, senza amore, senza la purezza di un cuore che si lascia raggiungere dal suo Signore?”; “La casa, che siamo chiamati ad amministrare, è fondata su quella legge, che trova il suo pieno compimento nell’amore dei nostri fratelli (cfr Rm 13, 8.10), da accogliere come sono e per condividere loro pesi, fatiche, dolori e povertà (cfr. Gal 6, 2)?”.
La risposta a queste domande è un sì pronto, deciso, intelligente: astuto, se vogliamo tener conto della parabola di oggi.
In effetti, il Messia ci presenta questo “economo” non come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente astuzia. Dunque, Gesù vorrebbe che i discepoli abbiano la stessa risolutezza che il fattore ebbe per sé. Il fattore fu astuto nel conservare se stesso, il discepolo sia altrettanto astuto nello “amministrare” la sua vita e la sua dimora, spendendosi per il Regno. Certo l’amministratore della parabola e il discepolo appartengono a due logiche diverse. il primo a quella del mondo e il secondo a quella del Regno.
L’amministratore disonesto e furbo, dice fra sé e sé: ““Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno” (Lc 16,3). E subito trova una soluzione intelligente e disonesta per sopravvivere.
Il discepolo onesto ma scaltro o, con un aggettivo più positivo, intelligente, non solo cerca di amministrare in modo moralmente buono i beni a lui affidati, ma si mette subito a fare quello che questo amministratore dice di non volere fare: “scavare” (è il significato letterale del verbo greco che è stato tradotto con zappare) e “mendicare”, perché non ha la forza o se ne vergogna.
Accogliamo l’invito del libro dei Proverbi, che invita a scavare per ricercare la Sapienza come si farebbe per i tesori più preziosi (Pr 2, 4). Scavare con le mani del cuore e della mente. Scavare sempre, ogni giorno, sempre, fino alla fine della vita, per cercare il Signore, il suo volto, la sua parola.
Lo scavare le profondità della terra, della mente e del cuore dell’uomo per ricercare Dio è un lavoro per vivere da uomini.
Dobbiamo irrobustire le nostre mani fiacche mettendole giunte in preghiera. E' necessario rendere salde le nostre ginocchia vacillanti e cominciare a lavorare davvero per il Vangelo, a sudare e faticare per cercare il Signore, il nostro vero tesoro, per poi “amministrarlo” nella comunione e nella condivisione.


2) Mendicare.
La forza per scavare va domandata, quindi la ricerca si fa mendicanza. La ricerca di Dio, la domanda di Lui e di vedere il Suo volto non sono solamente un’ adesione ad un complesso in sé completo di dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio presente nell'uomo, mendicante di Infinito, di parole di vita eterna.
Commentando il Salmo 104, che invita a “cercare sempre il volto di Dio”, Sant’Agostino scrive che questo invito non vale soltanto per questa vita; vale anche per l’eternità. La scoperta del “volto di Dio” non si esaurisce mai. Più entriamo nello splendore dell’amore divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così che “nella misura in cui cresce ‘'amore, cresce la ricerca di Colui che è stato trovato” (Enarr. in Ps. 104,3: CCL 40, 1537).
Noi non siamo esseri per la morte (cfr Heiddeger, Essere e tempo), ma per la vita, e mendichiamo per vivere eternamente. Il mendicante di Dio cerca il Pane della vita e con la forza datagli da questo Pane può cominciare e perseverare nel cammino verso la vita.
Certo se guardiamo solo alle esteriorità, l’immediata evidenza è che la vita appare come un lungo viaggio verso la morte, che ha come monumento una tomba, che quando è artisticamente bella è la glorificazione della morte.
Ma se, come suggerisce Papa Francesco, guardiamo alla vita con tre inquietudini: quella della mente, quella dell’incontro con Dio e quella dell’amore, saremo pellegrini verso la vita. Mendicando, facciamoci pellegrini che dalla morte vanno verso la vita.
L’importante è continuare a mendicare, non chiudendosi in se stessi. L’indispensabile è continuare a cercare la verità, il senso ultimo e definitivo della vita, non smettendo mai a cercare il volto di Dio.
Questa inquietudine della mente porta a desiderare “inquietamente” l’incontro personale con Dio. In effetti l’inquietudine di conoscere la verità e il senso della vita, non è per avere dei bei pensieri in testa ma per incontrare Dio, senso e significato della vita e che in Cristo svela il Volto buono e misericordioso del destino. In questo incontro con chi è Parola di Vita e dice parole di vita eterna facciamo esperienza del Dio vicino. Siamo portati a capire che quel Dio che cerchiamo fuori di noi, lontano da noi è il Dio vicino ad ogni essere umano, il Dio vicino al nostro cuore, più intimo a noi di noi stessi (cfr. S. Agostino, Le Confessioni, III,6,11). Tuttavia, non bisogna fermarsi al conoscere ed incontrare Dio. Il cammino inquieto continua. Il cammino sfocia nella terza inquietudine: quella dell’amore.
Che cos’è l’inquietudine dell’amore? “E’ cercare sempre, senza sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella intensità che porta anche alle lacrime. Mi vengono in mente Gesù che piange davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, Pietro che, dopo aver rinnegato Gesù ne incontra lo sguardo ricco di misericordia e di amore e piange amaramente, il Padre che attende sulla terrazza il ritorno del figlio e quando è ancora lontano gli corre incontro; mi viene in mente la Vergine Maria che con amore segue il Figlio Gesù fino alla Croce.” (Papa Francesco, Omelia 28 agosto 2013).


3) Inquietudine e verginità.
Nella verginità l’inquietudine dell’amore si fa mendicanza, che pone l’essere umano nella domanda stabile e costante di Cristo. In effetti “la verginità non è assenza di desiderio, ma intensità di desiderio” (Santa Teresa d’Avila). La verginità non è entrata nel mondo come filosofia, è entrata come dono di Dio che chiama ad una comunione stabile, profonda ed esclusiva con Cristo. Il fatto che la verginità sia esclusiva non implica che sia escludente, perché nell’amore a Dio c’è l’amore del prossimo.
Spinte dall’amore incondizionato a Cristo e all’umanità, soprattutto ai poveri e ai sofferenti, le vergini consacrate vivono come “mendicanti del Cielo” (Jacques Maritain) e “riproducono nella loro vita quotidiana la vita terrena di Gesù: casto, povero e obbediente” (Papa Francesco, Cost. Ap. Vultum Dei quarere, 5; Cfr. San Giovanni Paolo II, Vita consecrata, n. 14).
E’ vero quello che l’essere innamorati di Dio e del prossimo riguarda tutti i credenti, come già scriveva Sant’Agostino : “Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede, non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti” (Discorsi, 304,3).
Ma è altrettanto vero che le vergini consacrate nel mondo, vivendo nel povero, obbediente e casto distacco da se stessi, da tutti e da tutto, testimoniano in modo più alto e radicale che Colui che solo manca al cuore umano è il Figlio di Dio fatto carne, presente nel mondo. La verginità dentro il mondo è, infatti, la suprema testimonianza che tutto è in funzione di Cristo: richiama a coloro che vanno a lavorare e a coloro che si sposano che tutto è in funzione di Cristo.
Le vergini consacrate testimoniano che anche nel mondo è possibile dare la priorità a Dio e che solamente quando Lui sta al centro del nostro pensare e operare di ogni giorno, la vita personale e la società con i suoi dinamismi possono trovare il loro giusto orientamento e pieno significato. Dove, invece, Dio non occupa il primo posto; là dove Dio non è riconosciuto e adorato come il Bene supremo, la dignità dell’uomo è messa a pericolo. In un mondo in cui l’egoismo e la ricerca del piacere dettano legge, le vergini consacrate sono le custodi della purezza, del disinteresse, della pietà e della vera dignità umana.


Lettura Patristica
Bruno di Segni (1045 – 1123)
In Luc., 2, 7


       È una parabola molto chiara e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dica lo stesso Signore perché inventò questa parabola. "Perché", egli dice, "i figli di questo mondo son più avveduti dei figli della luce" (Lc 16,8). Il Signore non loda, certo, la malizia dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che fa, ma per l’ingegno col quale provvede al suo futuro. Non sapendo, infatti, come vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava di chieder l’elemosina, trovò un aiuto singolare, aggiungendo una frode alla malversazione dei beni del suo padrone. Non viene lodato per la moralità della sua azione, ma per l’astuta trovata. E a questa avvedutezza applaude il Signore, quando dice: "I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce". Quelli sono più avveduti nel male che questi nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni santi che mettano tanta accortezza nell’acquisto dei beni eterni, quanta furbizia hanno questi nell’accaparrarsi i beni temporali. Per questi essi vegliano giorno e notte, lavorano, s’angustiano, e con frodi, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi non cessano mai d’accumular tali ricchezze. E chi può dire quanta furbizia mettano nell’ingannarsi l’un l’altro? Sentano i figli della luce e si vergognino di farsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte proprio perché diventiamo più accorti senza tuttavia imitarli nell’ingiustizia. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: "Fatevi degli amici col mammona d’iniquità" (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore infedele. Non frodando l’altrui, ma dando il vostro. Tutte le ricchezze che sono avaramente conservate, sono inique. E non sono equamente distribuite, se, dopo aver messo da parte ciò che serve a te, non dai il resto agli indigenti. Perciò l’Apostolo: Ci vuole - dice - una certa uguaglianza; la vostra abbondanza colmi la loro indigenza e la loro abbondanza supplisca alla vostra necessità (2Co 8,13). Dalle quali parole si vede bene che non ci viene ordinato di dare il necessario, ma il di più. L’Apostolo non vuole che diamo al punto da ridurci in penuria. Le ricchezze, allora, che per sé sono inique se son divise a questo modo, generano amici e il premio eterno. Le ricchezze non divise sono ingiuste, ma se son divise, diventano giuste. Né c’è più affatto ricchezza, se i beni son ridotti alla necessità. Tolto il superfluo, finisce il problema dell’iniquità della ricchezza. Il Maestro continua: "Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto, chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto ()". Questo vale particolarmente per gli apostoli e per i dispensatori dei beni della Chiesa. Non sono dunque da affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli, e di quel poco che avevano non fecero opere di misericordia e di pietà. Ma non dobbiamo dubitare della fedeltà amministrativa di coloro che generosamente sovvengono gli altri col poco che hanno. Perciò l’Apostolo ammonisce che i vescovi non devono essere cupidi di danaro né procacciatori di lucro ingiusto. Bisogna tener presente nella elezione dei capi come si siano diportati nel poco e quanto abbiano di misericordia e di pietà. Perciò è detto ancora: "Se non siete stati fedeli nell’amministrare le ricchezze di questo mondo, chi vi affiderà le vere?" Se non avete usato in misericordia dei beni transitori, chi potrà affidarvi l’amministrazione dei beni della Chiesa, che sono veri e santi?


       "E se non siete stati fedeli nel bene altrui, ciò che è vostro chi ve lo darà?" Non son beni nostri le cose che possono essere perdute a ogni momento della vita, come tutti i beni temporali. Son nostri invece i beni che non possiamo perdere. Son ricchezze altrui le ricchezze temporali; essere buoni e non mettere la nostra speranza nei beni temporali, questa è, invece, la nostra vera ricchezza. Ma questa ricchezza veramente nostra non ci sarà data, se non saremo fedeli nell’amministrare i beni temporali; a questa condizione i veri beni ci sono stati predestinati.

venerdì 9 settembre 2016

La gioia della Misericordia


XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 11 settembre 2016
Rito Romano
Es 32,7-11.13-14; Sal 50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32


Rito Ambrosiano
Is 5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32
II Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) La logica della misericordia.
Il motivo, per cui Gesù racconta le tre parabole proposte dalla liturgia della Parola di questa domenica, è detto da San Luca all’inizio del cap. 15 del suo Vangelo : “Si avvicinavano a lui (a Cristo) tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’. Allora Lui raccontò la parabole che narrano la perdita e il ritrovamento di una pecora, di una dramma e di un figlio” (cfr vv 1-3).
Nella parabola della pecora perduta e ritrovata si annota che il pastore non interrompe la sua ricerca finché non la trova: dunque una ricerca ostinata, perseverante, per nessun motivo disposto ad abbandonare la pecora al suo destino. Dunque, in questo racconto Cristo presenta Dio fedele, perseverante, tenace. Il cuore di Dio ha un unico e grande desiderio: che ogni uomo non si perda e che qualora si perdesse la tenacia del Padre è quella di essere Padre sempre e comunque verso i suoi figli.
Nella parabola della dramma1 perduta emerge la gioia di una povera donna, che ritrova di che vivere. Per cercare questa moneta questa donna accende una lampada, perché a quel tempo le case erano piuttosto scure e senza la luce lei non avrebbe potuto localizzare la sua preziosa moneta. Quando la luce si riflesse sulla moneta facendola brillare, allora fu possibile ritrovarla. Questo fatto ci insegna che possiamo perderci, ma non dobbiamo smetter di “brillare”, perché possiamo essere ritrovati più facilmente.
Nella parabola del figlio perduto (più conosciuta come quella figlio prodigo) contempliamo il Padre che è fedele al figlio e che è nella gioia quando lui ritorna alla casa paterna, che è luogo di perdono e di festa.
Il Padre perdona e organizza una festa per questo figlio perduto e poco saggio, il quale per la voglia di avere tutto per sé pretese e ottenne “solamente” la sua parte e la dissipò. Questo misericordioso Padre non solo accoglie di nuovo il figlio ma gli ridona la dignità di figlio (cfr Papa Francesco, Udienza Generale del 30 agosto 2016). Questo figlio riceve di più di quanto chiede. Addolorato per il suo peccato, questo giovane ritorna dal padre e gli chiede di essere accolto “solamente” come servo. A colui che si sarebbe accontentato di un cuore di servo, il padre ridà un cuore di figlio.
Questo figlio prodigo e perduto consegna al padre il proprio dolore e il padre lo conferma nell’amore, al quale il figlio assurdamente si era ribellato.
Anche noi con il nostro peccato rifiutiamo l’amore gratuito di Dio Padre. Ma quando torniamo da Lui convertiti dalla sua giustizia misericordiosa, riceviamo un vestito per la festa, un anello e dei sandali.
Anche per ciascuno di noi convertiti, il Padre dice “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo”. Qual era la prima veste di Adamo? Era nudo. La sua veste era quello di essere immagine e somiglianza di Dio, cioè di essere figlio. Questo è il nostro vestito: essere figli accanto al Padre. L’essere figli è il nostro vestito, veste, la nostra dignità, la nostra identità.
Anche a ciascuno di noi, che torna contrito dal Padre, sono consegnati l’anello e i sandali, che confermano che siamo figli e non servi. Infatti, dare l’anello con lo stemma significava dare il sigillo che implicava il fatto di avere a disposizione tutti i beni di famiglia e non solo una parte. I sandali ai piedi erano indossati dagli uomini liberi, perché gli schiavi andavano scalzi.


2) Giustizia e amore: misericordia.
Credo sia utile ricordare che la misericordia di Dio è inconcepibile dall'uomo, perché trascende il suo pensiero. Prima di comprender ciò con la riflessione lo capii grazie a questo fatto. Mi trovavo in Germania, a Francoforte sul Meno, per un corso di tedesco, e un giorno, il professore chiese agli studenti di parlare di ciò che ciascuno di noi considerava più caratteristico del suo Stato. Poiché sapevano che venivo dal Vaticano, dovetti parlare della Città del Vaticano. Nei dieci minuti che mi erano stati dati, parlai del Vaticano come Stato “funzionale” perché permette al Santo Padre di esercitare la sua “funzione” di Capo della Chiesa Universale, a servizio della verità e della carità.
Dopo di me, fu il turno di un giovane ucraino, che raccontò la parabola del figliol prodigo. Fui stupito di questa scelta. Ma fui ancor più stupito dalla reazione dei quattro studenti della Corea del Sud che dissero: “E’ davvero una bella storia, ma non è umana”. Questi giovani asiatici avevano capito che la parabola non poteva essere frutto della mente umana. Solo una mente divina poteva concepirla, solo un amore divino poteva realizzarla, solo un cuore umano inquieto può cercarla, solo un cuore umano contrito può accoglierla e praticarla mediante le opere di misericordia.
Nella sua essenza la misericordia esprime il legame di amore che unisce il Creatore alla creatura, il Padre al figlio e i figli tra di loro.
L’importante è vivere la vita come perseverante ritorno alla casa del Padre.
Ritorno mediante il dolore, la contrizione, la conversione del cuore, che presuppone il desiderio di cambiare, la decisione ferma di migliorare la nostra vita.
Ritorno alla casa del Padre per mezzo del sacramento del perdono, nel quale, confessando i nostri peccati, ci rivestiamo di Cristo e ridiventiamo suoi fratelli e membri della famiglia di Dio.
Questo Dio, Padre ricco di misericordia, non solo aspetta “con ansia” che noi torniamo a Lui, ma si muove –per primo- incontro a noi peccatori pentiti, ci raggiunge mentre ancora gli andiamo incontro, ci abbraccia con amore e, senza rinfacciarci le nostre mancanze, ci copre di grazie e di doni.
Non smettiamo di contemplare con stupore “il padre del figliol prodigo, che “è fedele alla sua paternità, fedele a quell’amore, che da sempre elargiva al proprio figlio” (San Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, IV, 6). Questa fedeltà è espressa dalla prontezza di un abbraccio e nella gioia della festa.
Nella sua e nostra casa Dio ci aspetta, come il padre della parabola, benché non lo meritiamo. Non gli importa la gravità del nostro peccato. L’importante che noi, figli prodighi, sentiamo la nostalgia della casa paterna, apriamo il nostro cuore alla misericordia divina, stupiti del fedele amore del Padre e rallegrarci di fronte al dono divino di poterci chiamare e di essere figlio suoi.


3) La verginità, tenerezza, misericordia.
Commentando questa parabola del figlio prodigo, soprattutto la frase “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”, Papa Francesco ha detto : “Quanta tenerezza!” ed ha aggiunto: “Lo vide da lontano, significa che lo aspettava continuamente, dall’alto. Lo aspettava, è una cosa bella la tenerezza”. Con il termine “tenerezza”, il Santo Padre non intende un’azione basata solamente sull’emozione o il sentimento. Tenerezza vuol dire accogliere l’altro nella totalità di quello che è. Una mamma è tenera non tanto perché accarezza o bacia con dolcezza il suo bambino, ma quando lo cura occupandosi di lui con la tenerezza, la sollecitudine e la dolcezza della bontà di Dio. Già i profeti dell’Antico Testamento hanno usato per Dio un linguaggio che richiama la tenerezza, l’intensità e la totalità dell’amore di Dio, che si manifesta nella creazione e in tutta la storia della salvezza e ha il culmine nell’Incarnazione del Figlio. Dio, però, supera sempre ogni amore umano, come dice il profeta Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is. 49, 15).
Le Vergini consacrate nel mondo sono fedeli alla loro vocazione quando praticano la castità come amore a Dio. In questo amore è incluso l’amore al prossimo che attende gesti di misericordia e di tenerezza. Con una vita umile vanno al di là delle apparenze e, discretamente, mostrano la tenerezza di Dio che ciascuna porta in sé stessa. In questo mondo seguono l’invito “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, 30). Con questa tenerezza forte irradiano la dignità dell’essere spose di Cristo misericordioso e testimoniano che chi si abbandona all’amore tenero di Dio è nella gioia e nella pace. Facendosi vicine con tenerezza e amore alle situazioni di sofferenza e di debolezza, queste donne consacrate “illuminano con l’esempio sul valore della vita consacrata così da farne risplendere la bellezza e la santità nella Chiesa” (Papa Francesco).

1  La dramma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro, ossia la paga giornaliera che -duemila anni fa- si dava a un contadino.

Lettura Patristica
Clemente di Alessandria,
Quis dives, 39 s.
Vera penitenza è non tornare a peccare

       Se uno che è fuori dello scoglio della troppa ricchezza o troppa povertà ed è sul facile sentiero dei beni eterni, tuttavia, dopo la liberazione dal peccato, ricade e si seppellisce in esso, questo deve essere ritenuto rigettato da Dio. Chiunque, infatti, si rivolge a Dio con tutto il cuore, gli si aprono le porte, e il Padre accoglie con tutto l’affetto il figlio veramente pentito. Ma la vera penitenza consiste nel non ricadere e nello sradicare i peccati riconosciuti come causa di morte. Se ne levi questi, Dio abiterà di nuovo in te. È una gioia immensa e incomparabile in cielo per il Padre e per gli angeli la conversione di un peccatore (Lc 15,2). Perciò è detto anche: "Voglio misericordia e non sacrificio. Non voglio la morte del peccatore, ma che si penta. Se i vostri peccati saranno come la porpora, li farò bianchi come la neve; e se saranno neri come il carbone li ridurrò come neve" (Os 6,6 Mt 9,13 Ez 18,23 Is 1,18 Lc 5,21). Solo il Signore può perdonare i peccati e non imputare i delitti e ci comanda di perdonare i fratelli pentiti (Mt 6,14). Che se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone, quanto più il Padre della misericordia, quel Padre di ogni consolazione, pieno di misericordia, avrà lunga pazienza e aspetterà la nostra conversione? (Lc 11,13). Ma convertirsi dal peccato, significa finirla col peccato e non tornare indietro.

       Dio concede il perdono del passato; il non ricadere dipende da noi. E questo è pentirsi: aver dolore del passato e pregare il Padre che lo cancelli, poiché lui solo con la sua misericordia può ritenere non fatto il male che abbiamo fatto e lavare con la rugiada dello Spirito i peccati passati. È detto, infatti: "Vi giudicherò, come vi troverò (In Evang. apocr.)", in modo che se uno ha menato una vita ottima, ma poi si è rivolto al male, non avrà alcun vantaggio del bene precedente; invece, chi è vissuto male, se si pente, col buon proposito può redimere la vita passata. Ma ci vuole una gran diligenza, come una lunga malattia vuole una dieta più rigorosa e più accortezza. Vuoi, o ladro, che il peccato ti sia perdonato? Finisci di rubare. L’adultero spenga le fiamme della libidine. Il dissoluto sia casto. Se hai rubato, restituisci un po’ di più di quanto hai preso. Hai testimoniato il falso? Impara a dir la verità. Se hai spergiurato, astieniti dai giuramenti, taglia i vizi, l’ira, la cupidigia, la paura. Forse è difficile portar via a un tratto dei vizi inveterati; ma puoi conseguirlo per la potenza di Dio, con la preghiera dei fratelli, con una vera penitenza e assidua meditazione.

Gregorio Nazianzeno, Sermo 38, 13 s.

Proprio l’umiliazione di Dio ci salva

       Per peccati più gravi ci voleva una più potente medicina: i peccati erano stragi scambievoli, adulteri, spergiuri, furiosa sodomia e idolatria, che rivolge alle creature il culto del Creatore. E poiché queste piaghe avevano bisogno d’un aiuto più energico, tale esso venne. E questo fu lo stesso Figlio di Dio, più antico del tempo, invisibile, incomprensibile, incorporeo, principio dal principio, luce da luce, fonte d’immortalità, espressione della prima Idea, sigillo intatto, immagine perfetta del Padre e questo prende carne e per la mia anima si unisce all’anima umana, per purificare il simile col simile. E prende tutte le debolezze umane, eccetto il peccato (He 4,15), concepito da una vergine nell’anima e nel corpo già purificata dallo Spirito... O meraviglia di fusione! Colui che è, vien fatto, l’increato viene creato; colui che non può essere contenuto, è contenuto tra la divinità e lo spessore della carne. Colui che fa tutti ricchi, è povero; abbraccia la povertà della mia carne, perché io acquisti la ricchezza della sua divinità. Lui che è la pienezza, si svuota; si svuota della sua gloria, perché io diventi partecipe della sua pienezza. Che ricchezza di bontà! Quale mistero mi circonda? Ho ricevuto l’immagine di Dio, non l’ho custodita; lui si fa partecipe della mia carne, per portare la salvezza all’immagine e l’immortalità alla carne. Stabilisce un nuovo consorzio e di gran lunga più meraviglioso del primo; allora diede a noi ciò ch’era più eccellente; ma ora lui stesso s’è fatto partecipe di ciò che è più deteriore. Questo consorzio è più divino del primo; questo per chi ha cuore è molto più sublime... E tu osi rinfacciare a Dio il suo beneficio? È forse piccolo, perché per te s’è fatto umile, perché quel buon Pastore, che diede la sua anima per le sue pecore (Jn 10,11), cerca la smarrita tra i monti e i colli, sui quali sacrificavi, la trova e se la pone su quelle stesse spalle, sulle quali prese il legno della croce, e la riporta alla vita soprannaturale, e ricondottala nell’ovile, dov’erano quelle che non ne uscirono mai, la tiene nello stesso luogo e numero di quelle? O è piccolo perché accende la lucerna, cioè la sua carne, e spazza la casa, purgando cioè il mondo dal peccato e cerca la dramma, cioè la regale immagine coperta di sporcizia viziosa, e, trovatala, chiama gli angeli suoi amici e li fa partecipi della sua gioia, dal momento che li aveva messi a conoscenza della sua economia?


venerdì 2 settembre 2016

Il cammino con Cristo è cammino di misericordia.

XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 4 settembre 2016
Rito Romano
Sap 9,13-18; Sal 89; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33


Rito Ambrosiano
Is 30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17
I Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1) Esigenze paradossali per un cammino paradossale.
Lasciato il banchetto, dove aveva detto che occorre vivere nell’umiltà e nella gratuità (cfr. il Vangelo di domenica scorsa), Gesù riprende la sua strada verso Gerusalemme. Il suo, più che un cammino “geografico”, é un cammino del cuore, che lo condurrà ad aprire le mani e lasciarsele inchiodare.
Su questa strada, che sale verso Gerusalemme, il Redentore è accompagnato da “una folla numerosa andava con Lui” (cfr. Lc 14,25). Questo “andare” è il cammino della vita. L’andare con Lui è il senso della nostra vita, perché tra numerosa gente, che va con Lui, ci siamo anche noi. Anche noi, come i primi discepoli e la folla, che lo seguiva, siamo chiamati a deciderci, a fare il passo decisivo, a diventare Suoi discepoli, seguendoLo.
Spesso nel Vangelo, non solo nel brano di oggi, Cristo chiama ad andare con Lui, invitando a seguirlo nel percorso del suo cuore, che è un cuore, che salva, guarisce e perdona: è un cuore di misericordia. Tuttavia nessuno dei suoi insegnamenti sembra così duro, per non dire sconcertante, come quelli che riascoltiamo oggi: “Egli si voltò e disse loro: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14 25-27). Per tre volte Cristo afferma decisamente che si può essere suoi discepoli, solo 1) se odiamo1 le persone care e perfino la propria vita, 2) portiamo la croce, 3) rinunziamo a tutti i nostri averi.
Viene spontaneo chiedersi: com’è possibile che Gesù, modello di mitezza, abbia pronunciato parole così dure, che sembrano in contraddizione con altre raccomandazioni da Lui stesso più volte ripetute, per esempio: quelle che indicano di onorare i genitori e di amare non solo il prossimo, ma anche i nemici?
Non si tratta di contraddizioni ma di paradossi2. In effetti, anche in vari altri passi di tutti e quattro i Vangeli ci sono insegnamenti paradossali: “Beati voi, poveri … …”; “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti”; “Chi vuole salvare la propria vita la perderà”, ecc. Sono queste espressioni paradossali come le tre richieste-indicazioni oggi ricordate dal Messia quali condizioni necessarie per seguirLo. Sono indicazioni sconcertanti, che esprimono la necessità di un comportamento, che va ben al di là di quello che è chiamato buon senso. Tuttavia, questi paradossi evangelici non sono irragionevoli, ma hanno una logica vera e profonda.

2) Il paradosso cristiano.
Per capire la verità e la ragionevolezza dei “paradossi” di Cristo per seguirLo è importante ricordare che, per andare dietro a Lui, c’è bisogno di un amore superiore, di “un di più”, che non può venire da noi, ma assume sempre lo spessore della Croce. Per seguire Gesù bisogna avere per Lui un amore superiore a quello verso i nostri famigliari, un amore più grande di quello che ognuno di noi ha per la sua propria vita. E bisogna portare la propria croce.
Ma chi è capace di questo? Gesù ci invita a far bene i conti. Ma sono conti strani. Meno uno ha, più è sicuro di riuscire. Più uno conta su Gesù in totale abbandono e amorosa fiducia, è allora che è forte della forza del Signore (cfr. 2 Cor 12,10). Più si è poveri di sé stessi, più si è ricchi di Cristo e pieni della sua forza, che sostiene e perdona. Per seguire Gesù occorre quindi “rinunziare a tutti i nostri averi”.
Più che una contraddizione, questa chiamata di Cristo sembra una follia. La chiamata di Cristo non è folle, irragionevole. E’ logica. In effetti, il Salvatore chiede di “rinunciare a tutto”, perché non si possono fare compromessi, non si può avere il cuore strabico e diviso, altrimenti si morirebbe dilaniati. E’ necessario “rinunciare a tutto”, perché per essere suoi “discepoli” e salvare il mondo dobbiamo avere unicamente “tutto” il suo amore e “tutta” la sua Grazia. Mischiare queste con le risorse infette della nostra fragilità carnale significherebbe rendere tutto inservibile. Siamo chiamati a “rinunciare a tutti gli averi”, dal denaro e dai beni sino alla propria volontà, per lasciare campo libero all’amore ed alla grazia di Dio.

3) Madre Teresa di Calcutta: un esempio attuale di sequela.
Un esempio recente e attualissimo di come è possibile seguire Cristo, prendendo sul serio le tre esigenze logiche, ragionevoli, espresse nel vangelo di oggi: 1) “odiare” le persone care e perfino la propria vita, 2) portare la croce, 3) rinunziare a tutti i propri averi, ci è offerto da M. Teresa di Calcutta, che oggi -4 settembre 2016- Papa Francesco proclama Santa.
Questa Santa ha fatto una fortissima esperienza dell’amore di Dio, che la chiamava, amandola. Per lei, nel quotidiano di una vita, su cui pesava la coscienza della propria debolezza e dell’aridità spirituale, l’esperienza dell’amore di Dio ha sempre avuto il sopravvento. Aveva capito che la sua vita era lo stare con Cristo, che ha sete della nostra sete.
Santa Teresa di Calcutta rispose con totale abbandono, amorosa fiducia e gioia alla vocazione che il Signore le fece direttamente. In questo modo è diventata testimone esemplare a cristiani e non cristiani di queste parole del Discepolo prediletto: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1 Gv 4, 11-12)”. Questo Amore continui a ispirarci per essere come Missionari e Missionarie della Carità a donarci con tutto il cuore a Gesù, da servire nei poveri, nei malati, nelle persone sole e abbandonate.
La sete che Cristo ha di noi in Croce fece comprendere a Madre Teresa di Calcutta che l’umanità di Gesù è il segno supremo della rivelazione di Dio all’uomo, è il portale attraverso cui è necessario passare per comprendere cosa sia la carità, cosa sia la vita divina. La carità è Dio che scende tra noi, che si curva su di noi ed estingue la nostra sete di amore e di senso della vita. Al tempo stesso, da parte nostra, la carità è abbracciare l’umanità di Gesù. Accogliendo i poveri, i fratelli accogliamo Gesù. Noi siamo Gesù gli uni per gli altri.  
Dio, che è l’acqua viva, ha bisogno della nostra povera acqua, ha bisogno del nostro sì a lui per donarci la sua vita. In questo modo, il Redentore ci introduce in un cammino di progressiva immedesimazione con Lui. Attraverso la sua sete ci rende coscienti della nostra sete, dei nostri veri bisogni.
Con l’acqua della sua misericordia Lui ci disseta. Da parte nostra, sull’esempio e per l’intercessione di Madre Teresa, anche noi dobbiamo rispondere al grido di Cristo in Croce: “Ho sete”. Se ascoltiamo con il cuore, sentiremo, capiremo, sperimenteremo in profondità che Gesù ha sete di noi, di ciascuno di noi e accogliamo l’invito della nuova Santa: "Segui le Sue orme in cerca di anime. Porta Lui e la Sua luce nelle case dei poveri, specialmente alle anime più bisognose. Diffondi la carità del Suo Cuore ovunque vai, così da saziare la Sua sete di anime”. E la Madre dei poveri dei più poveri aggiunge: “Vi rendete conto?! Dio ha sete che tu e io ci offriamo per saziare la Sua sete”.
Come rispondono le Vergini consacrate nel mondo e nella Chiesa a questa sete? La forma specifica di consacrazione nell’Ordo Virginum, con la quale queste donne vergini rispondono alla sete di Cristo, è caratterizzata dall’impegno a condurre una vita di fede e di radicalità evangelica, nelle condizioni ordinarie dell’esistenza. Le vergini consacrate nel mondo e totalmente donate a Cristo si conformano a Cristo vivendo radicalmente il vangelo e, in tal modo, rispondo alla Sua sete di noi.
Con i loro “proposita” si impegnano per sempre a “seguire Cristo più da vicino... unite in mistiche nozze al Figlio di Dio” (can 604, § 1) a servizio della Chiesa nel mondo. In questo mondo, queste vergini consacrate pregano nel lavoro, “facendolo con Lui, facendolo per Lui, facendolo a Lui. E ciò facendo, Lo amano. E amandoLo, diventano sempre più una sola cosa con Lui, e Gli consentono di vivere in loro la Sua Vita. E questo vivere di Cristo in noi è la santità”(cfr. S. Teresa di Calcutta).
1  Naturalmente, San Luca non intende il verbo “odiare” nel vero senso della parola. Lui sa bene che i genitori devono essere amati e rispettati. Si tratta, anche per lui, non di odio, ma di distacco, di preferenza del Regno: tuttavia egli ha conservato il verbo “misein” che indica, senza dubbio, un distacco particolarmente radicale. Non si tratta, soltanto, di rompere i legami con la famiglia, né basta un generico distacco da se stessi: l’esempio di Gesù è molto concreto e preciso: occorre essere disposti a portare la croce (Lc 14, 27), cioè all'effettivo e totale sacrificio di sé.


2  L’etimologia della parola “paradosso” ci aiuta a capirne meglio il significato: si tratta di una parola di origine greca “para-doxos" (=contrario alla comune opinione e dunque inaspettato, stupefacente), che indica un’affermazione in palese contrasto con le aspettative e le esperienze più comuni e abituali, ma che - sottoposta ad esame critico e approfondito - si dimostra invece molto valida, anzi, manifesta una verità particolarmente ricca e profonda, e appunto “inaspettata”, stupefacente.


Per questa domenica, invece dalla lettura patristica si propone una bella preghiera composta dai Padri Missionari della Carità a partire dagli insegnamenti della nuova Santa.

PREGHIERA DI MADRE TERESA:
“HO SETE DI TE”
“E’ vero. Sto alla porta del tuo cuore, giorno e notte. Anche quando tu non stai ascoltando, anche quando tu dubiti che possa essere Io. Io sono lì. Aspetto anche il più piccolo segno di una tua risposta, anche l’invito sussurrato nel modo più lieve che Mi permetta di entrare.
E voglio che tu sappia che, ogni volta che Mi inviti, Io vengo – sempre, non c’è dubbio. Vengo in silenzio e senza essere visto, ma con potere e amore infinito, e portando i frutti abbondanti del Mio Spirito. Vengo con la Mia misericordia, con il Mio desiderio di perdonarti e guarirti, e con un amore per te oltre quello che puoi comprendere – un amore grande come quello che ho ricevuto dal Padre (“Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” – Gv 15,9).
Io vengo – con il desiderio ardente di consolarti e di darti forza, di risollevarti e di fasciare tutte le tue ferite. Ti porto la Mia luce, per dissolvere le tue tenebre e tutti i tuoi dubbi. Vengo con il Mio potere, così che Io possa portare te e ogni tuo fardello; vengo con la Mia grazia, per toccare il tuo cuore e trasformare la tua vita; ed offro la mia pace per pacificare la tua anima. Io ti conosco in pienezza – conosco tutto ciò che ti riguarda. Tutti i capelli del tuo capo ho contato.
Non importa quanto lontano tu sia andato vagando, non importa quante volte ti dimentichi di Me, non importa quante croci potrai portare in questa vita; c’è una cosa che voglio tu ricordi sempre, una cosa che non cambierà mai: HO SETE DI TE – così come tu sei. Non c’è bisogno che tu cambi per credere nel Mio amore, perché sarà la fiducia nel Mio amore che cambierà te. Tu ti dimentichi di Me, eppure Io ti cerco in ogni momento – sto alla porta del tuo cuore e busso. Lo trovi difficile da credere? Allora guarda la Croce, guarda al mio Cuore che è stato trafitto per te. Non hai capito la Mia Croce? Allora ascolta di nuovo le parole che ho detto da lì – ti dicono chiaramente perché ho sofferto tutto questo per te: “HO SETE!” (Gv 19,28).
Sì, ho sete di te – come dice di Me il resto del Salmo che stavo pregando: “Ho atteso compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati” (Sal 69,21) Per tutta la tua vita ho cercato il tuo amore – non ho smesso mai di cercare di amarti e di essere amato da te. Hai provato tante altre cose alla ricerca della felicità; perché non cerchi di aprirMi il tuo cuore, proprio adesso, più di quanto tu abbia mai fatto prima d’ora? Ogni volta che aprirai la porta del tuo cuore, ogni volta che sarai abbastanza vicino, Mi sentirai ripeterti senza posa, non in parole puramente umane, ma in spirito: “Non importa quello che hai fatto, Io ti amo per te stesso. Vieni a Me con la tua miseria ed i tuoi peccati, con le tue preoccupazioni e le tue necessità, e con tutto il tuo ardente desiderio di essere amato. Sto alla porta del tuo cuore e busso... ApriMi perché HO SETE DI TE .”