XVIII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 31 luglio 2016
Rito Romano
Qo
1,2;2,21-23; Sal 89; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Rito
Ambrosiano
1Re
21,1-19; Sal 5; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
XI
Domenica dopo Pentecoste
1) Donare per
vivere.
Il brano del Vangelo
(Lc 12, 13-21), che la liturgia della Messa di questa 18ª
Domenica propone, fa parte di un discorso di Gesù sulla fiducia in
Dio che scaccia ogni timore (Id. 12, 6-7) e sull’abbandono
alla provvidenza di Dio (Id. 12, 22-32). Si tratta di un testo
che si integra perfettamente con la prima lettura della liturgia di
oggi e che è preso dal libro del Qoelet. In questo libro dell’Antico
Testamento si parla della vanità di ogni cosa umana e terrena, cioè
della precarietà dell'esistenza umana e dei beni materiali.
Gesù non disprezza i
beni della terra, non contesta le brevi gioie terrene. Non vuole
disamorarci di questa vita. Ci dice che essa è un cammino verso la
felicità e che è raggiungibile nella sua pienezza solamente con e
in Lui.
Cristo insegna che non
c’è domani per chi vive solo di cose materiali. Chi vive solo per
il corpo, non vive o, se vive, la sua vita è come un soffio, è
vanità, perché chi accumula solo per sé, disperde (Lc 11,
23). Non c'è domani duraturo per chi vive di cose, perché le cose
hanno un termine e il dramma delle cose è che la loro fine è
polvere.
“L’uomo che
accumula per sé” spegne da solo la propria vita e sostituisce il
desiderio di infinito con infinite cose vane. Chi dice a se stesso:
“Riposati, mangia, bevi, godi” vive senza mistero, “senza
sapere che l’essere cristiano è l’inquietudine più alta dello
spirito, è l’impazienza dell'eternità in un mondo perverso che
crocifigge l’amore» (Kierkegaard).
Allora la domanda
giusta è “come arricchirsi davanti a Dio?”: “donando!”.
Davanti a lui siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. “Alla
fine della vita saremo giudicati dall’Amore” (S. Giovanni della
Croce), un amore ricevuto, donato, condiviso. L'essere umano vive di
vita donata, di vita ricevuta e trasmessa. Quando smettiamo di
trasmettere vita attorno a noi, in quel momento la vita in noi
dissecca. L’uomo vive anche del lieto godimento del pane
quotidiano, ma di un pane che sia “nostro”, da chiedere e da
donare, e che ci faccia, insieme, quotidianamente dipendenti dal
cielo, dal Padre “nostro”, provvidente e misericordioso.
2) La vita non
dipende da quello che si ha.
La frase di Gesù:
«Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se
uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni»,
esprime la sostanza della parabola di oggi che parla del ricco
soddisfatto di avere tante cose e quindi pensa di avere la vita che
dura. Il Messia parla di uno stolto che crede di essere al sicuro per
molti anni, avendo accumulato molti beni e a cui la notte stessa
viene chiesto conto della vita. Quindi, insegna quanto sia stupido e
vano mettere la propria fiducia nel possesso. E' da stolti credere
che la salvezza, la vita redenta consista nel possedere sempre di
più. Per inciso va notato che non è condannato il semplice
possesso, ma l’illusione di trovare sicurezza nel possesso.
Credo che sia lecito
affermare che il Redentore ha trasformato in parabola un concetto
della tradizione sapienziale dell’Antico Testamento. E’ il
concetto di “vanità” che trova la sua espressione più acuta nel
libro di Qoelet: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Che
significa? Qoelet (Ecclesiastico) è un uomo disincantato che guarda
al fondo di tutte le esperienze dell'uomo: tutte le cose che l’uomo
cerca e realizza non mantengono quanto promettono: al fondo sono
inconsistenti. Qoelet individua, in particolare, tre forme di vanità:
la sterilità dello sforzo dell'uomo; la fragilità dei traguardi
raggiunti; le numerose anomalie e ingiustizie di cui è piena la
vita. Ma la parabola di Gesù non si limita a constatare la vanità e
non intende semplicemente disincantare l'uomo, liberandolo dal
fascino del possesso. Indica più profondamente la vera via della
liberazione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si
arricchisce davanti a Dio” (Lc 12, 21). Dunque, è il “per
sé” che è sbagliato e che deve essere sostituito
dall’orientamento di arricchirsi “davanti a Dio”.
Questo orientamento
implica tre cose concrete.
La prima è che
arricchirsi davanti a Dio vuol dire non cadere nella tentazione
dell’affanno, dell'ansia, come se tutto dipendesse da noi e
solamente da noi.
La seconda è che
questo evangelico arricchirsi verso Dio significa subordinare tutto –
quello che siamo e abbiamo: lavoro, beni, affetti e la vita stessa –
a Dio ed al suo amore.
La terza è che
l’arricchirsi davanti a Dio implica– come ho scritto più sopra –
donare, soprattutto “dare in elemosina”, praticando quindi la
misericordia. Questo implica vivere la vita come “elemosina”
(=misericordia) e come dono di sé, nella condivisione dei beni e del
bene: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei
cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma” (Lc
12,33).
L’arricchirsi
“davanti a Dio” si concretizza nel vivere “per gli altri”
(Ibid. 12,33). La ricchezza davanti a Dio cresce nella
condivisione. Invece l’arricchirsi “per noi stessi” ci mette
nelle mani della vanità, che ci lascia con un pugno di polvere.
Se c’è qualcosa
che possiamo portare con noi sempre - e, quindi, anche oltre la morte
- è il bene fatto e condiviso e non i beni accumulati, che essendo
terreni restano sulla terra.
Questo non vuol dire
che noi cristiani disprezziamo le cose create. Anzi, quando smettiamo
di volere possedere o consumare le creature, queste sono valorizzate
veramente e ne vediamo la bellezza vera e non fugace. Quando usiamo i
beni per il bene, già sulla terra la nostra vita è lieta. Ciò che
Dio ha creato, non ce l’ha dato perché noi lo accumulassimo, ma
per servircene nel cammino verso il nostro destino eterno. Per questo
preghiamo: “Insegnaci, Signore, a usare saggiamente i beni della
terra, sempre orientati ai beni eterni” (Liturgia delle Ore,
Orazione delle Lodi – Domenica, I Settimana ).
3) Esempio delle
Vergini consacrate nel mondo.
Un esempio di come
vivere questo orientamento ai beni eterni è quello offerto dalle
Vergini consacrate nel mondo. Il tesoro di queste donne non consiste
nei beni che hanno e che –pochi o tanti che siano- loro si
impegnano ad usare con spirito di povertà. La loro vera ricchezza è
l’amore di Dio.
Vivendo con fedeltà
la consacrazione a Dio, testimoniano con tutta la loro esistenza la
verità del Salmo 15 (16): “Proteggimi, o Dio: in te mi
rifugio.
Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu,
solo in te
è il mio bene...
Il Signore è mia parte di eredità e mio
calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è
caduta su luoghi deliziosi:
la mia eredità è stupenda” (vv
1-2.5-6).
Queste donne con la
vita si arricchiscono verso Dio e con l’aiuto del Salmo si
rivolgono a Dio con pace perché hanno scelto il Signore quale loro
rifugio. Non mancano a loro le difficoltà, che la vita quotidiana
porta, ma sono “ricche” di Dio e si mettono a costante servizio
dei fratelli in Cristo.
Con la preghiera di
questo salmo, che si concretizza nella loro vita, le vergini
consacrate ripetono spesso a Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in
te è il mio bene”.
Queste donne in
preghiera sono certe che la loro vera sorte, la loro vera sicurezza e
forza è proprio il Signore, che dà loro pace e letizia: “Signore
è mia parte di eredità e mio calice”. Questa certa e vera
ricchezza non è avaramente tenuta per se, ma lo partecipa ai
fratelli per un nutrirsi reciproco di luce.
Da questo salmo
imparano - e lo insegnano a noi - a percorrere giorno dopo giorno “il
sentiero della vita” (Ibid. v. 11), che porta all’eterna
dolcezza del cielo, alla destra di Dio.
La vocazione delle
vergini consacrate è scelta d’amore e di vita e diventa un segno
di immortalità per tutti coloro che credono e amano Dio. La loro
testimonianza aiuta a dire la preghiera: “Nulla ti turbi, nulla ti
spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene
tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo
desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non
possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e
vivrai in una grande pace” (Santa Teresa d’Avila).
Lettura Patristica
San Basilio di Cesarea
(329 - 379)
In illud «Destruam»,
1
La tentazione è di due
specie. A volte le avversità provano il cuore come l’oro nella
fornace (Sg
3,6),
quando attraverso la pazienza ne mettono in luce tutta la bontà; a
volte, e non di rado, la prosperità della vita tiene per alcuni il
posto della tentazione. È ugualmente difficile, infatti, conservare
nelle avversità un animo nobile e guardarsi da un abuso nella
prosperità. Della prima tentazione è modello Giobbe, quel grande
atleta che sostenendo con animo indomito l’impeto scrosciante del
diavolo, fu tanto più grande della tentazione, quanto più grandi e
quasi inestricabili furono le prove a lui inflitte dal nemico.
Esempio della tentazione che nasce dalla prosperità è quel ricco
che, avendo già molte ricchezze, ne sognava ancora delle altre; ma
il buon Dio a principio non lo condannò per la sua ingratitudine,
anzi, lo favorì con sempre nuove ricchezze, in attesa che il suo
animo si volgesse una buona volta alla generosità e alla
mansuetudine. Ma: "Il
campo del ricco portò frutti abbondanti ed egli andava pensando: Che
farò? Demolirò i miei granai e ne farò di più grandi"
(Lc
12,16-18).
Perché
fu fertile il campo di quell’uomo, che non avrebbe fatto nulla di
buono con quella ricchezza? Certo perché risplendesse di più
l’indulgenza di Dio, la cui bontà si estende anche a costoro,
poiché: "fa
piovere sui giusti e sui malvagi e fa che il sole nasca per i buoni e
per i cattivi"
(Mt
5,45).
Ma questa bontà di Dio accresce poi la pena contro i malvagi. Dio
mandò la pioggia sulla terra coltivata con mani avare, diede il sole
per riscaldare i semi e moltiplicare i frutti. Da Dio viene la terra
buona, il clima temperato, la fecondità dei semi, l’opera dei buoi
che sono i mezzi della ricchezza dei campi. Ma qual è stata la
reazione dell’uomo? Modi amari, odio, scarsezza nel dare. Questo
era il ricambio a tanta magnificenza ricevuta. Non si ricordò dei
suoi simili, non pensò che il superfluo dovesse essere distribuito
agli indigenti, non fece nessun conto del comando: "Non
ti stancare di dare al bisognoso"
(Pr
3,27)
e: "Spezza
il tuo pane con chi ha fame"
(Pr
3,3).
Non sentiva la voce dei profeti, i suoi granai scoppiavano da ogni
parte, ma il suo cuore avaro non era sazio. Aggiungendosi sempre
nuovi prodotti ai vecchi, finì in questa inestricabile povertà di
mente, che l’avarizia non gli consentiva di sottrarre ciò che
superava e non aveva magazzini ove deporre la nuova ricchezza. Perciò
non trova una soluzione, è affannato. "Cosa
farò?"
È infelice per la fertilità dei suoi campi, per quello che ha, più
infelice per quello che aspetta. La terra a lui non produce dei beni,
gli porta sospiri; non gli accresce abbondanza di frutti, gli porta
preoccupazioni, pene, ansietà. Si lamenta come i poveri. Il suo
grido cosa farò? non è il medesimo che emette l’indigente? Dove
troverò il cibo, il vestito? Il ricco fa lo stesso lamento. È
afflitto. Ciò che porta gioia agli altri, uccide lui. Non si
rallegra, quando i granai son tutti pieni; le ricchezze
sovrabbondanti e incontenibili lo feriscono; ha paura che qualche
goccia, che n’esca, sia motivo di sollievo a un indigente.