XII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 19 giugno 2016
Rito
Romano
Zc
12,10-11;13,1; Sal 62; Gal 3,26-29; Lc 9,18-24
Rito
Ambrosiano
Gen
18,1-2a.16-33; Sal 27; Rm 4,16-25; Lc 13,23-29
V
Domenica dopo Pentecoste
1)
Un evento
accaduto in
un “luogo”
spirituale: la
preghiera.
Nel
Vangelo di oggi Gesù chiede ai suoi discepoli cosa la gente pensi di
Lui e poi, rivolgendosi direttamente a loro domanda: “Ma voi, chi
dite che io sia?”. A nome suo e degli altri amici, Pietro risponde:
“Il Cristo di Dio” (Lc 9,20), perché ha intuito che Gesù il
Figlio dell’uomo, il Servo del Signore, che vince il male perché
non lo fa e ha la forza di portarlo su di sé, senza scaricarlo sugli
altri. Lui è il Redentore, in cui Dio che è amore si è fatto uomo
e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù
del male donandole una speranza ragionevole.
Qual
è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sapere che
cosa pensano di lui i suoi discepoli? Il Redentore vuole che i
discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle loro menti e
nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo stesso
tempo, Lui sa che il giudizio che manifesteranno non sarà soltanto
loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori
con la grazia della fede.
In
questo dialogo si vede il mistero dell’inizio e della maturazione
della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: Dio amore si
concede all’uomo e lo chiama all’amicizia con Lui. Poi, c’è la
richiesta di dare una risposta a questa vocazione. Infine, c’è la
risposta dell’uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare
senso e forma a tutta la sua vita. Ecco che cosa è la fede! È la
risposta dell'uomo ragionevole e libero alla parola del Dio vivente.
Le
domande che Cristo pone, le risposte che sono date dagli apostoli e,
infine, da Simon Pietro, costituiscono una verifica della maturità
della fede di coloro che sono più vicini a Cristo. Si tratta di una
vicinanza non solo fisica, ma spirituale. Infatti, va notato che
mentre San Marco e San Matteo collocano questo dialogo a Cesarea di
Filippo che è il punto più lontano che Gesù ha raggiunto nel suo
cammino, lontano da Gerusalemme, San Luca non indica nessun luogo. O
meglio, non indica un luogo materiale ma spirituale: la preghiera.
Infatti, questo Evangelista scrive: “E avvenne: mentre Cristo era
in preghiera, erano con lui i discepoli da soli; e li interrogò
dicendo: Chi dicono le folle che io sia” (Lc 13, 18).
E’
come se San Luca volesse insegnarci che la preghiera è il “luogo”
dove cominciamo a capire qualcosa di chi è il Signore. E’ il luogo
dove siamo noi stessi, ed è il luogo dove noi cominciamo a capire
qualcosa della verità. Preghiera è non tanto l’ambito in cui si
capisce qualcosa d’intellettuale, ma è l’ambito dell’esperienza
e della comunione con il Signore, del Signore con noi. Nella
preghiera noi torniamo nel nostro luogo naturale, perché la
preghiera è stare davanti a Dio. Noi siamo a immagine e somiglianza
di Dio: se stiamo davanti a Lui troviamo noi stessi. Quindi la
preghiera è il luogo della verità nostra e di Dio. La preghiera sia
qualcosa di estraneo alla vita, la preghiera è la vita, è vivere
davanti a Dio con semplicità e pietà, attenzione e devozione.
2)
La nostra
risposta.
Oggi,
duemila anni dopo, questa domanda “Ma, voi chi dite che io sia?”
è rivolta a ciascuno di noi e da ciascuno di noi il Cristo pretende
una risposta vissuta. “Una risposta che non si trova nei libri come
una formula ma nell’esperienza di chi segue davvero Gesù, con
l’aiuto di un «grande lavoratore», lo Spirito Santo” (Papa
Francesco, 20 febbraio 2014).
Per
poter dare “la stessa risposta di Pietro, quella che abbiamo
imparato nel catechismo: tu sei il Figlio di Dio vivo, tu sei il
Redentore, tu sei il Signore!” (Ibid.), dobbiamo avere in
noi la stessa ragione di San Pietro, che in un’altra occasione
esplicitò dicendo: “Maestro, da chi andremo, solo tu hai parole di
vita eterna” (Gv 6,68), cioè parole vere che spiegano e
danno la vita ora e per l’eternità. La risposta del Primo degli
Apostoli: “Tu sei il Cristo di Dio”, cioè il senso vero e pieno
della storia personale e dell’umanità, coincise con il riconoscere
Cristo come unica e possibile risposta all’umano cammino, all’umana
avventura su questa Terra.
La
domanda di Cristo non è per conoscere l’opinione della gente e dei
suoi discepoli su di Lui, ma per insegnare che la vita è una
risposta a Dio: una risposta personale. E Pietro risponde: «Tu sei
il Cristo!». È la risposta giusta, ma non è una risposta facile.
La risposta alla domanda: “Chi è Gesù ora per voi?” non è una
risposta ovvia e scontata e neppure la manifestazione di una nostra
opinione su Cristo.
Oggi
Gesù ci domanda come l’incontro con lui modifica la nostra vita,
come agisce nella nostra vita. Questo “sì” a Lui vuol dire
qualcosa di importante e che cambia la vita. Lo riconosciamo come il
Vivente, come l’Amore che si dona.
Per
poter dire: “Tu sei il Cristo” è necessario aver sentito la
falsità o l’insufficienza delle soluzioni terrene. E’ necessario
essere semplici, puri di cuore e poveri, tanto poveri fino a soffrire
per la nostalgia di Dio, ricco di misericordia.
La
nostra risposta, come quella di San Pietro è una professione di fede
non in uno dei profeti della storia, ma nel Redentore centro del
mondo e della storia.
Con
questa professione di fede San Pietro “ha abbracciato insieme tutte
le cose, perché ha espresso la natura e il nome del Messia”
(Sant’Ambrogio). E, davanti a questa professione di fede Gesù
rinnova a San Pietro e agli altri discepoli l’invito a seguirlo
sulla strada impegnativa dell’amore fino alla Croce.
Il
Primo degli Apostoli si oppone a che Cristo vada in Croce.
Ovviamente, non vuole che Gesù muoia, perché gli vuole bene e dice:
“Che Dio te ne scampi! Questo non ti accadrà mai!” . E’
sincero, perché vuole davvero bene a Gesù, ma è un voler bene
sbagliato. Però gliene vuole e lo dice a Cristo. E Gesù che cosa
gli risponde? Non gli dice “vai lontano da me” ma “vienimi
dietro” (questa è la traduzione secondo me corrette della frase
del Messia), cioè “seguimi”.
L’avventura
cristiana è questo andare dietro a Lui. Dietro a Lui che è il
Messia e realizza i desideri dell’uomo. E' il Cristo che vince il
male non facendo il male (il dominio sugli altri, il potere, il
prestigio) ma lo vince col bene, con l’amore.
L’importante
è capire e fare esperienza della bellezza di seguire il Signore
della vita, perché la nostra vita è Lui: “Lui è la mia vita,
perché mi ha conquistato col suo amore” (Fil. 3). Lui è il
Pastore della vita.
Anche
a noi, che riconosciamo il Redentore come il Cristo di Dio, Gesù
rivolge la proposta di seguirlo ogni giorno e anche a noi ricorda che
per essere suoi discepoli è necessario appropriarci del potere della
sua Croce, bene e sostanza della nostra speranza.
Certo
non è facile accettare la croce che Gesù ha portato sulle sue
spalle come segno del suo potere di amore. E, in un certo senso, ci
fa paura accogliere l’invito di Cristo: “Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi
segua”.
Prendere
la croce significa impegnarsi per sconfiggere il peccato che
intralcia il cammino verso Dio, accogliere quotidianamente la volontà
del Signore, accrescere la fede soprattutto dinanzi ai problemi, alle
difficoltà, alla sofferenza.
La
santa carmelitana Sr. Benedetta della Croce (Edith Stein) ce lo ha
testimoniato in un tempo di persecuzione. dal Carmelo di Colonia nel
1938 lei scriveva così: “Oggi capisco... che cosa voglia dire
essere sposa del Signore nel segno della croce, benché per intero
non lo si comprenderà mai, giacché è un mistero... Più si fa buio
intorno a noi e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene
dall’alto”.
Al
giorno d’oggi, in un modo “apparentemente” meno drammatico di
Edith Stein le Vergini consacrate nel mondo ci testimoniano la vita
che sgorga dalla Croce, perché l’amore per donarsi “si perde”,
si offre.
Il
loro seguire Cristo, accogliendo il Suo invito a rinnegare se stesse,
mostra che è possibile smettere di pensare a se stesse. Testimonia
che l’amore non è mettere il proprio io al centro, ma porre
l’Altro al centro. L’amore non è statico, è estatico. Tira
fuori da se stessi, mette in relazione e fa in modo che ci si accorga
dell’altro com’è. Questa è la vita e l’amore. Lo Spirito
Santo, l’amore fra Padre e Figlio che regna anche tra noi. Questo
amore è la vita di Dio. In caso contrario regna la morte, ci si
ammazza a vicenda.
La
verginità è il nostro corpo e il nostro cuore crocifissi dal e per
l’amore, cioè donati a Dio senza riserve. Vivere verginalmente
vuol dire che portando la propria croce ogni giorno nell’offerta di
sé a Cristo si muore per rinascere in Lui, nel quale ci si è
totalmente abbandonati. Ognuno di noi ha la sua croce da portare ogni
giorno: significa che ogni giorno si muore per rinascere. Vuol dire
che in Croce ci va l’uomo vecchio, egoista e ci muore, mentre vi
nasce la persona nuova, la cui vita è amore. Una vita data
(crocifissa) per amore è pienamente realizzata. Come ha fatto Gesù.
Facendosi
portatrici della Croce, queste donne si sono impegnate a diventare
portatrici dello Spirito, donne autenticamente spirituali, capaci di
fecondare nell’umiltà e nel nascondimento la vita quotidiana con
la preghiera di lode e di intercessione continua, e le opere di
misericordia spirituale e materiale.
Lettura
Patristica
San
Gregorio Magno
Hom.,
32, 2
La
rinunzia a se stesso
Il
Signore
ci
dice
di
rinunziare
alle
cose
nostre,
se
vogliamo
andare
con
lui,
perché
quando
andiamo
alla
prova
della
fede,
dobbiamo
affrontare
gli
spiriti
maligni.
Ma
questi
spiriti
non
posseggono
niente
di
questo
mondo.
Dobbiamo
lottare,
perciò,
nudi
contro
nudi.
Perché
se
uno
combatte
vestito
contro
uno
che
è
nudo,
facilmente
viene
gettato
a
terra,
perché
ha
più
modo
di
essere
afferrato.
Che
cosa
sono,
infatti,
tutte
le
cose
terrene,
se
non
dei
vestiti
del
corpo?
E,
allora,
chi
va
a
combattere
col
diavolo,
si
spogli,
se
non
vuol
soccombere.
Non
possegga
nulla
in
questo
mondo,
o
non
sia
attaccato
a
nulla,
non
cerchi
piaceri
nelle
cose
periture,
perché
ciò
di
cui
si
copre,
non
diventi
strumento
della
sua
caduta.
E
neanche
basta
lasciar
le
cose
nostre;
bisogna
lasciar
noi
stessi.
Ma
che
vuol
dire
lasciar
noi
stessi?
Dove
andremo
fuori
di
noi,
se
lasciamo
noi
stessi?
O
chi
è
che
va,
se
uno
lascia
se
stesso?
Ma
una
cosa
siamo
nella
caduta
del
peccato
e
un’altra
nella
genuina
creazione,
una
cosa
è
ciò
che
abbiam
fatto
di
noi
stessi
e
altra
è
ciò
che
siamo
stati
fatti.
Sforziamoci,
allora,
di
lasciare
quello
che
abbiam
fatto
di
noi
stessi
col
peccato
e
di
restare
quello
che
siamo
stati
fatti
attraverso
la
grazia.
Ecco,
chi
è
stato
superbo,
se
convertendosi
a
Cristo
è
diventato
umile,
questo
ha
lasciato
se
stesso.
Se
un
lussurioso
s’è
ridotto
alla
continenza,
questi
ha
rinnegato
se
stesso.
Se
un
avaro
ha
smesso
di
agognar
ricchezze
e
lui,
che
rapiva
l’altrui,
ha
imparato
a
donare
il
suo,
senza
dubbio
questi
ha
lasciato
se
stesso.
È
ancora
lui,
quanto
a
natura,
ma
non
è
più
lui,
quanto
a
peccato.
Perciò
fu
scritto:
"Converti
gli
empi
e
non
saranno
più"
(Pr
12,7).
Gli
empi
convertiti
non
sono
più,
non
quanto
alla
loro
essenza,
ma
quanto
alla
colpa
di
empietà.
Allora,
dunque,
lasciamo
noi
stessi,
quando
evitiamo
ciò
che
era
il
nostro
uomo
vecchio
e
ci
sforziamo
d’essere
l’uomo
nuovo.
Riflettiamo
come
aveva
rinnegato
se
stesso
Paolo,
quando
diceva:
"Non
sono
più
io
che
vivo"
(Ga
2,20).
Era
finito
il
persecutore
ed
era
cominciato
a
vivere
il
pio
predicatore.
E
aggiunge
subito:
"Ma
vive
il
Cristo
in
me";
come
se
volesse
dire:
Io
sono
morto,
perché
non
vivo
secondo
la
carne,
ma
essenzialmente
non
sono
morto,
perché
spiritualmente
vivo
in
Cristo.
Dica,
dunque,
la
Verità:
"Se
uno
vuol
venire
dietro
di
me,
rinneghi
se
stesso"
(Lc
9,23).
Se
uno
non
rinunzia
a
se
stesso,
non
s’avvicina
a
chi
è
sopra
di
lui
e
non
prende
ciò
che
è
fuori
di
lui,
se
non
sacrifica
se
stesso.
I
broccoli
devono
essere
trapiantati,
per
sviluppare;
cioè,
sono
sradicati
per
crescere.
I
semi
marciscono
in
terra,
per
moltiplicarsi.
Mentre
sembra
che
perdano
ciò
che
erano,
ricevono
ciò
che
non
erano.
Nessun commento:
Posta un commento