venerdì 17 giugno 2016

Pregare per capire

XII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 19 giugno 2016
Rito Romano
Zc 12,10-11;13,1; Sal 62; Gal 3,26-29; Lc 9,18-24



Rito Ambrosiano
Gen 18,1-2a.16-33; Sal 27; Rm 4,16-25; Lc 13,23-29
V Domenica dopo Pentecoste



1) Un evento accaduto in unluogospirituale: la preghiera.
Nel Vangelo di oggi Gesù chiede ai suoi discepoli cosa la gente pensi di Lui e poi, rivolgendosi direttamente a loro domanda: “Ma voi, chi dite che io sia?”. A nome suo e degli altri amici, Pietro risponde: “Il Cristo di Dio” (Lc 9,20), perché ha intuito che Gesù il Figlio dell’uomo, il Servo del Signore, che vince il male perché non lo fa e ha la forza di portarlo su di sé, senza scaricarlo sugli altri. Lui è il Redentore, in cui Dio che è amore si è fatto uomo e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza ragionevole.
Qual è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sapere che cosa pensano di lui i suoi discepoli? Il Redentore vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo stesso tempo, Lui sa che il giudizio che manifesteranno non sarà soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori con la grazia della fede.
In questo dialogo si vede il mistero dell’inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: Dio amore si concede all’uomo e lo chiama all’amicizia con Lui. Poi, c’è la richiesta di dare una risposta a questa vocazione. Infine, c’è la risposta dell’uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita. Ecco che cosa è la fede! È la risposta dell'uomo ragionevole e libero alla parola del Dio vivente.
Le domande che Cristo pone, le risposte che sono date dagli apostoli e, infine, da Simon Pietro, costituiscono una verifica della maturità della fede di coloro che sono più vicini a Cristo. Si tratta di una vicinanza non solo fisica, ma spirituale. Infatti, va notato che mentre San Marco e San Matteo collocano questo dialogo a Cesarea di Filippo che è il punto più lontano che Gesù ha raggiunto nel suo cammino, lontano da Gerusalemme, San Luca non indica nessun luogo. O meglio, non indica un luogo materiale ma spirituale: la preghiera. Infatti, questo Evangelista scrive: “E avvenne: mentre Cristo era in preghiera, erano con lui i discepoli da soli; e li interrogò dicendo: Chi dicono le folle che io sia” (Lc 13, 18).
E’ come se San Luca volesse insegnarci che la preghiera è il “luogo” dove cominciamo a capire qualcosa di chi è il Signore. E’ il luogo dove siamo noi stessi, ed è il luogo dove noi cominciamo a capire qualcosa della verità. Preghiera è non tanto l’ambito in cui si capisce qualcosa d’intellettuale, ma è l’ambito dell’esperienza e della comunione con il Signore, del Signore con noi. Nella preghiera noi torniamo nel nostro luogo naturale, perché la preghiera è stare davanti a Dio. Noi siamo a immagine e somiglianza di Dio: se stiamo davanti a Lui troviamo noi stessi. Quindi la preghiera è il luogo della verità nostra e di Dio. La preghiera sia qualcosa di estraneo alla vita, la preghiera è la vita, è vivere davanti a Dio con semplicità e pietà, attenzione e devozione.

2) La nostra risposta.
Oggi, duemila anni dopo, questa domanda “Ma, voi chi dite che io sia?” è rivolta a ciascuno di noi e da ciascuno di noi il Cristo pretende una risposta vissuta. “Una risposta che non si trova nei libri come una formula ma nell’esperienza di chi segue davvero Gesù, con l’aiuto di un «grande lavoratore», lo Spirito Santo” (Papa Francesco, 20 febbraio 2014).
Per poter dare “la stessa risposta di Pietro, quella che abbiamo imparato nel catechismo: tu sei il Figlio di Dio vivo, tu sei il Redentore, tu sei il Signore!” (Ibid.), dobbiamo avere in noi la stessa ragione di San Pietro, che in un’altra occasione esplicitò dicendo: “Maestro, da chi andremo, solo tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68), cioè parole vere che spiegano e danno la vita ora e per l’eternità. La risposta del Primo degli Apostoli: “Tu sei il Cristo di Dio”, cioè il senso vero e pieno della storia personale e dell’umanità, coincise con il riconoscere Cristo come unica e possibile risposta all’umano cammino, all’umana avventura su questa Terra.
La domanda di Cristo non è per conoscere l’opinione della gente e dei suoi discepoli su di Lui, ma per insegnare che la vita è una risposta a Dio: una risposta personale. E Pietro risponde: «Tu sei il Cristo!». È la risposta giusta, ma non è una risposta facile. La risposta alla domanda: “Chi è Gesù ora per voi?” non è una risposta ovvia e scontata e neppure la manifestazione di una nostra opinione su Cristo.
Oggi Gesù ci domanda come l’incontro con lui modifica la nostra vita, come agisce nella nostra vita. Questo “sì” a Lui vuol dire qualcosa di importante e che cambia la vita. Lo riconosciamo come il Vivente, come l’Amore che si dona.
Per poter dire: “Tu sei il Cristo” è necessario aver sentito la falsità o l’insufficienza delle soluzioni terrene. E’ necessario essere semplici, puri di cuore e poveri, tanto poveri fino a soffrire per la nostalgia di Dio, ricco di misericordia.
La nostra risposta, come quella di San Pietro è una professione di fede non in uno dei profeti della storia, ma nel Redentore centro del mondo e della storia.
Con questa professione di fede San Pietro “ha abbracciato insieme tutte le cose, perché ha espresso la natura e il nome del Messia” (Sant’Ambrogio). E, davanti a questa professione di fede Gesù rinnova a San Pietro e agli altri discepoli l’invito a seguirlo sulla strada impegnativa dell’amore fino alla Croce.
Il Primo degli Apostoli si oppone a che Cristo vada in Croce. Ovviamente, non vuole che Gesù muoia, perché gli vuole bene e dice: “Che Dio te ne scampi! Questo non ti accadrà mai!” . E’ sincero, perché vuole davvero bene a Gesù, ma è un voler bene sbagliato. Però gliene vuole e lo dice a Cristo. E Gesù che cosa gli risponde? Non gli dice “vai lontano da me” ma “vienimi dietro” (questa è la traduzione secondo me corrette della frase del Messia), cioè “seguimi”.
L’avventura cristiana è questo andare dietro a Lui. Dietro a Lui che è il Messia e realizza i desideri dell’uomo. E' il Cristo che vince il male non facendo il male (il dominio sugli altri, il potere, il prestigio) ma lo vince col bene, con l’amore.
L’importante è capire e fare esperienza della bellezza di seguire il Signore della vita, perché la nostra vita è Lui: “Lui è la mia vita, perché mi ha conquistato col suo amore” (Fil. 3). Lui è il Pastore della vita.
Anche a noi, che riconosciamo il Redentore come il Cristo di Dio, Gesù rivolge la proposta di seguirlo ogni giorno e anche a noi ricorda che per essere suoi discepoli è necessario appropriarci del potere della sua Croce, bene e sostanza della nostra speranza.
Certo non è facile accettare la croce che Gesù ha portato sulle sue spalle come segno del suo potere di amore. E, in un certo senso, ci fa paura accogliere l’invito di Cristo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.
Prendere la croce significa impegnarsi per sconfiggere il peccato che intralcia il cammino verso Dio, accogliere quotidianamente la volontà del Signore, accrescere la fede soprattutto dinanzi ai problemi, alle difficoltà, alla sofferenza.
La santa carmelitana Sr. Benedetta della Croce (Edith Stein) ce lo ha testimoniato in un tempo di persecuzione. dal Carmelo di Colonia nel 1938 lei scriveva così: “Oggi capisco... che cosa voglia dire essere sposa del Signore nel segno della croce, benché per intero non lo si comprenderà mai, giacché è un mistero... Più si fa buio intorno a noi e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene dall’alto”.
Al giorno d’oggi, in un modo “apparentemente” meno drammatico di Edith Stein le Vergini consacrate nel mondo ci testimoniano la vita che sgorga dalla Croce, perché l’amore per donarsi “si perde”, si offre.
Il loro seguire Cristo, accogliendo il Suo invito a rinnegare se stesse, mostra che è possibile smettere di pensare a se stesse. Testimonia che l’amore non è mettere il proprio io al centro, ma porre l’Altro al centro. L’amore non è statico, è estatico. Tira fuori da se stessi, mette in relazione e fa in modo che ci si accorga dell’altro com’è. Questa è la vita e l’amore. Lo Spirito Santo, l’amore fra Padre e Figlio che regna anche tra noi. Questo amore è la vita di Dio. In caso contrario regna la morte, ci si ammazza a vicenda.
La verginità è il nostro corpo e il nostro cuore crocifissi dal e per l’amore, cioè donati a Dio senza riserve. Vivere verginalmente vuol dire che portando la propria croce ogni giorno nell’offerta di sé a Cristo si muore per rinascere in Lui, nel quale ci si è totalmente abbandonati. Ognuno di noi ha la sua croce da portare ogni giorno: significa che ogni giorno si muore per rinascere. Vuol dire che in Croce ci va l’uomo vecchio, egoista e ci muore, mentre vi nasce la persona nuova, la cui vita è amore. Una vita data (crocifissa) per amore è pienamente realizzata. Come ha fatto Gesù.
Facendosi portatrici della Croce, queste donne si sono impegnate a diventare portatrici dello Spirito, donne autenticamente spirituali, capaci di fecondare nell’umiltà e nel nascondimento la vita quotidiana con la preghiera di lode e di intercessione continua, e le opere di misericordia spirituale e materiale.

Lettura Patristica
San Gregorio Magno
Hom., 32, 2


La rinunzia a se stesso

       Il Signore ci dice di rinunziare alle cose nostre, se vogliamo andare con lui, perché quando andiamo alla prova della fede, dobbiamo affrontare gli spiriti maligni. Ma questi spiriti non posseggono niente di questo mondo. Dobbiamo lottare, perciò, nudi contro nudi. Perché se uno combatte vestito contro uno che è nudo, facilmente viene gettato a terra, perché ha più modo di essere afferrato. Che cosa sono, infatti, tutte le cose terrene, se non dei vestiti del corpo? E, allora, chi va a combattere col diavolo, si spogli, se non vuol soccombere. Non possegga nulla in questo mondo, o non sia attaccato a nulla, non cerchi piaceri nelle cose periture, perché ciò di cui si copre, non diventi strumento della sua caduta. E neanche basta lasciar le cose nostre; bisogna lasciar noi stessi. Ma che vuol dire lasciar noi stessi? Dove andremo fuori di noi, se lasciamo noi stessi? O chi è che va, se uno lascia se stesso? Ma una cosa siamo nella caduta del peccato e unaltra nella genuina creazione, una cosa è ciò che abbiam fatto di noi stessi e altra è ciò che siamo stati fatti. Sforziamoci, allora, di lasciare quello che abbiam fatto di noi stessi col peccato e di restare quello che siamo stati fatti attraverso la grazia. Ecco, chi è stato superbo, se convertendosi a Cristo è diventato umile, questo ha lasciato se stesso. Se un lussurioso sè ridotto alla continenza, questi ha rinnegato se stesso. Se un avaro ha smesso di agognar ricchezze e lui, che rapiva laltrui, ha imparato a donare il suo, senza dubbio questi ha lasciato se stesso. È ancora lui, quanto a natura, ma non è più lui, quanto a peccato. Perciò fu scritto: "Converti gli empi e non saranno più" (Pr 12,7). Gli empi convertiti non sono più, non quanto alla loro essenza, ma quanto alla colpa di empietà. Allora, dunque, lasciamo noi stessi, quando evitiamo ciò che era il nostro uomo vecchio e ci sforziamo dessere luomo nuovo. Riflettiamo come aveva rinnegato se stesso Paolo, quando diceva: "Non sono più io che vivo" (Ga 2,20). Era finito il persecutore ed era cominciato a vivere il pio predicatore. E aggiunge subito: "Ma vive il Cristo in me"; come se volesse dire: Io sono morto, perché non vivo secondo la carne, ma essenzialmente non sono morto, perché spiritualmente vivo in Cristo. Dica, dunque, la Verità: "Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso" (Lc 9,23). Se uno non rinunzia a se stesso, non savvicina a chi è sopra di lui e non prende ciò che è fuori di lui, se non sacrifica se stesso. I broccoli devono essere trapiantati, per sviluppare; cioè, sono sradicati per crescere. I semi marciscono in terra, per moltiplicarsi. Mentre sembra che perdano ciò che erano, ricevono ciò che non erano.



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