venerdì 10 giugno 2016

La logica del perdono

XI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 12 giugno 2016
Rito Romano
2Sam 12,7-10.13; Sal 31; Gal 2,16.19-21; Lc 7,36-8,3




Rito Ambrosiano
Gen 4,1-16; Sal 49; Eb 11,1-6; Mt 5,21-24
IV Domenica dopo Pentecoste



         1) Un incontro sconvolgente.
Nel Vangelo di questa XI Domenica è raccontato l’episodio dell’invito fatto da un fariseo a Gesù per averlo a pranzo in casa sua, dove arriva non invitata una nota peccatrice che “osa” lavare i piedi a Gesù con lacrime e profumo. Per capire bene l’episodio occorre ricordare certe usanze della “buona società” di allora. Quando un ricco accoglieva un ospite alla propria mensa, anzitutto chiamava un servo a lavargli i piedi, che i sandali non riparavano dalla polvere della strada, poi lo baciava, e gli versava sul capo qualche goccia di olio profumato. Inoltre è utile sapere che il banchetto era pubblico: chiunque poteva entrare ad osservarlo.
Immedesimiamoci in uno di curiosi che entrarono in quel giorno nella casa del fariseo Simone, che aveva invitato l’ormai famoso Gesù. Forse, come Simone il fariseo, siamo stati mossi non dall’ammirazione verso il Messia, ma dal desiderio di “studiare” da vicino quell’uomo da molti considerato un profeta, cioè un inviato da Dio. Ma durante il banchetto, inaspettatamente, entra nella sala una donna (questi tipi di pranzi erano a quel tempo solo per gli uomini) che per di più era nota “peccatrice” (così la chiama l’Evangelista Luca). Questa donna si getta, versando lacrime e profumo, sui piedi di Cristo. Gesù la lascia fare; poi si rivolge al padrone di casa, del quale aveva letto il pensiero (“Se costui fosse un profeta, saprebbe che genere di donna è questa e non le permetterebbe di toccarlo”), dicendogli: “Un creditore aveva due debitori, uno di cinquecento e l’altro di cinquanta denari; non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro lo amerà di più?”. Il fariseo rispose correttamente: “Suppongo il primo” (Lc 7, 40-43).
Simone seppe dare la risposta giusta a Cristo, ma in ultima analisi non era attirato da Cristo se non per curiosità. La peccatrice, senza nome perché ci rappresenta tutti, era attirata dallo sguardo e delle parole di misericordia che sgorgavano dal cuore di Gesù e che illuminavano la sua mente e riscaldavano il suo cuore. Il Redentore le dava la Pace, il Bene e la Gioia che cercava e pianse prima per il dolore dei suoi peccati e poi per la gioia del perdono.
Le lacrime di questa donna furono come l’acqua del battesimo, nella quale morì la peccatrice e nacque la creatura nuova. Lei presentò a Cristo il suo dolore e Lui la confermò nel suo amore. L’amore nasce dal perdono e il perdono fa crescere l’amore.
L’incontro con Cristo sconvolse positivamente la vita di quella peccatrice e ciò può accadere anche a noi se a Gesù presentiamo il nostro dolore.

2) Un incontro sconcertante, ma salvifico
Credo che se anche noi vogliamo essere sconvolti dal perdono di Cristo, dobbiamo prima lasciarci sconcertare da questo episodio, sul quale stiamo riflettendo. Lo abbiamo ascoltato tante volte e tutto ci sembra evidente e normale. In effetti il modo in cui questa donna manifestò il suo dolore ed amore è sconcertante. Se il solo fatto di sciogliere i capelli dinanzi a uomini sarebbe stata un’indecenza tale da meritare l’atto di divorzio, secondo alcuni testi rabbinici, riusciamo a capire quanto per i presenti fu sconcertante è il fatto che Gesù si lasciasse lavare i piedi da una donna che per di più era una nota peccatrice. Lui tranquillamente accettò questi gesti, dinanzi a un pubblico impacciato e scandalizzato. Ciò che il fariseo e i gli altri invitati consideravano gesto di impurità legale, analoga a quello del toccare un maiale o un cadavere, per Gesù significava invece accoglienza, comunione con l’umanità peccatrice: salvezza concessa come dono di grazia.
Certo questo dono inesauribile esige una risposta. Ma la risposta, appunto, viene dopo, non è la prima parola, è soltanto la seconda.
In effetti la salvezza viene dall’amore che Gesù nutre per noi e che lo spinge a dare la sua vita per noi. La salvezza non può venire da un dovere, perché semmai i doveri sono l'espressione, la risposta, al fatto che noi nella vita abbiamo fatto un incontro, che è nata una relazione tra noi e Gesù, e che da quel momento è cambiato il nostro modo di comportarci. Le parole di Gesù a Simone, il suo ospite fariseo che in realtà non lo ha mai accolto veramente anche se lo ha fatto entrare in casa sua, è appunto un richiamo al primato della relazione.
E che cosa passa per quella relazione creata dall’amore? Gesù lo dice con chiarezza: il perdono.

          3) Relazione con Cristo.
Il perdono permette di avere una relazione di comunione con Cristo. In effetti, a che cosa serve pregare (il verbo greco che è tradotto con “invitare” alla lettera vuol dire pregare) Gesù di voler condividere la nostra tavola, se il cuore è lontano come lo era quello di Simone?
Questo fariseo si ferma sulla soglia di un vero rapporto di comunione e resta imprigionato nella sua pretesa giustizia di uomo che si considera una persona per bene. Si ritiene senza peccato, quindi nessuna lacrima solca il suo viso. Giudica, appoggiandosi sulla propria conoscenza delle Scritture, guidato solo dai propri criteri, quelli fondati su regole e “precetti di uomini” che hanno la pretese di correggere quelli di Dio. Simone ha il dono di essere a tavola con Gesù, ma è presenza in modo formale con un atteggiamento di superiorità e sufficienza che gli fa dimenticare anche le regole elementari dell'accoglienza. Crede di compiere la Legge e i precetti, ma tralascia l'essenziale che è l'accoglienza di un ospite, con i riti che qualunque ebreo era solito compiere; neanche questa semplice attenzione aveva, neanche il minimo.
Ben diverso e più vero è l’atteggiamento della “peccatrice di quella città”, che nonostante sapesse di non potersi accostare a Gesù, “si avvicinò dunque non al capo, ma ai piedi del Signore; lei che aveva a lungo battuto la strada del vizio, cercava di seguire le orme segnate dai piedi santi del Signore. Cominciò a versare lacrime, che sono come il sangue del cuore, quindi lavò i piedi del Signore con l'umile confessione dei propri peccati” (S. Agostino). E dal fondo del dolore e del pentimento, la "fede" - ovvero il cammino che l'aveva condotta sino a quel pezzo di terra ai piedi di Gesù come al fonte battesimale, con la speranza che l'impossibile di una vita nuova potesse divenire possibile - la spinge ad inginocchiarsi dinanzi a Lui. Gesù sa perfettamente “chi e che specie di donna è quella che lo sta toccando”: è “una peccatrice”, come Simone, ma, a differenza di questi, lo “tocca” per amore: lo “tocca” per consegnargli il suo peccato. Lei lo sa, conosce la propria assoluta indegnità, i peccati sono lì, tra le sue mani, evidenti. E un dolore acuto a percuoterle il petto, un'angoscia mortale. Questa donna ha toccato la morte, ora tocca la Vita.

4) Ospitalità del cuore.
L’ospitalità vera non fu quella offerta da Simone a Gesù ma dalla peccatrice a Gesù e, quindi, da tutti noi. Fu ed è l’ospitalità del cuore. Essa nacque e nasce dall’amore. Non è un fatto esterno, di comportamenti, ma di scelte interiori, dettate dall’amore. Le parole di Simeone aprirono solo formalmente, esteriormente la porta della sua casa al Salvatore, mentre le lacrime di questa donna peccatrice aprirono la porta del cuore.
Ma anche questa volta è Gesù che prende l’iniziativa, perché l’amore di chi è perdonato viene dopo, è la riconoscente risposta, è il frutto di quel perdono offerto in modo preveniente. Gesù ci perdona, e quando noi ce ne accorgiamo impariamo ad amarlo, attraverso le nostre lacrime di pentimento. “Colui al quale si perdona poco, ama poco”, dice Gesù, indicando bene l’ordine: prima il perdono, e poi la risposta di amore.
Ricordarci di quanto siamo stati perdonati, ci aiuta ad amare molto Gesù, e a seguirlo tra le lacrime del nostro pentimento e la gioia del cuore.

5) Un insegnamento per e dalle Vergini Consacrate nel mondo.
La vita di questa donna pubblica peccatrice cambiò perché si mise in ginocchio ai piedi di Gesù, sperimentandone il perdono e “la pace” nella quale “camminare” nella vita nuova. Questo cammino di liberazione non deve essere fatto solo per passare dal male al bene, ma per perseverare fino ai piedi di Cristo in Croce e nel giardino dove era situato il sepolcro e dove prima fra i credenti la Maddalena (nulla vieta di pensare che questa donna innominata sia Maria Maddalena) incontrò il Signore Risorto, che la chiamò per nome.
Un modo importante di perseverare ai piedi di Cristo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. La loro castità permette a queste donne di baciare i piedi di Cristo santamente. Il verbo greco corrispondente a questo baciare (katafileo) ci dice che non si tratta del bacio cortese di saluto, né di quello appassionato degli innamorati e neppure quello del padre spinto dal sangue comune con il figlio. Il verbo greco katafileo (baciare) denota devozione sincera o genuina (7,38.45; 15,20; At 20,37). Questo verbo greco è usato nella parabola del padre misericordioso che perdona il figlio perduto. E' un bacio tenero di perdono. E’ un bacio di un amore che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta: di un amore che non passa perché è una amore eterno e divino. E’ l’amore di Dio che ci cerca, ci perdona e ci ricolma di grazia e gioia.
La vita delle vergini testimonia che, dando completamente se stesse a Dio, si può amare il prossimo in modo sincero e genuino comunicandogli il perdono divino con la pratica costante delle opere di misericordia.
 Così anche noi oggi possiamo versare le lacrime su Gesù supplicando la carità che può trasformare il nostro amore limitato al pentimento in dono e perdono che oltrepassa la soglia della morte e del peccato. Lacrime nostre sui piedi del fratello e della sorelle, perché in ciascuno è vivo Cristo.
La verginità ci fa liberi per amare d'amor puro che non cerca contraccambio, e ci fa consegnare all'altro gratuitamente e senza misura.

Lettura Patristica
San Gregorio Magno
Hom., 33, 1-8


       Perché vide le macchie della sua turpitudine corse a lavarsi alla fontana della misericordia, e non si vergognò dei convitati. Poiché si vergognava di se stessa dentro di sé, neanche pensò che ci fosse qualche cosa di cui si dovesse vergognare innanzi agli altri. Che cosa, allora, ci deve stupire: Maria che va dal Signore, il Signore che l’accoglie? Che l’accoglie o che la trascina? Dirò più esattamente che l’accoglie e la trascina, poiché la trascinò, nell’anima, con la sua misericordia e l’accolse esteriormente con la sua mansuetudine. Al vedere questo, il Fariseo disprezza non solo la peccatrice che si presenta, ma anche il Signore che l’accoglie, e dice tra sé: "Se fosse un profeta costui, saprebbe certamente che razza di donna è questa che lo tocca" (Lc 7,39). Ecco il Fariseo veramente superbo e falsamente giusto accusa la malata della sua malattia e il medico per il soccorso che le porta, lui che era malato di superbia, e non lo sapeva. Fra i due malati sta il medico. Ma un malato conserva nella febbre la sua capacità di sentire; l’altro, per la febbre della carne, aveva perduto la forza della mente. Infatti quella piangeva per ciò che aveva fatto; il Fariseo, invece, orgoglioso della sua falsa giustizia accresceva la forza della sua malattia. Nella malattia aveva proprio perduto i sensi, costui, se neanche capiva quanto fosse lontano dalla salvezza. Intanto un gemito ci obbliga a volgere lo sguardo ad alcuni del nostro grado, i quali, rivestiti della dignità sacerdotale, se hanno fatto un qualche bene esteriormente, subito disprezzano gli altri, disdegnano i peccatori e, se confessano i loro peccati, non mostrano loro alcuna comprensione, anzi, come il Fariseo, si guardano bene dal farsi toccare da una peccatrice. Se, infatti, quella donna si fosse gettata ai piedi del Fariseo, questi l’avrebbe cacciata a calci, avrebbe creduto di rimanere sporcato dai suoi peccati. Ma per il fatto che gli mancava la giustizia, il Fariseo s’ammalava per il peccato altrui. Perciò ogni volta che vediamo i peccati degli altri, dobbiamo prima piangere su noi stessi, perché forse siamo caduti negli stessi peccati, o possiamo cadervi. E anche se l’ufficio c’impone di censurare il vizio, dobbiamo tuttavia distinguere tra la severità contro il vizio e la compassione dovuta alla natura. Se il vizio, infatti, va colpito, il prossimo dev’essere sostenuto, poiché nel momento in cui detesta ciò che ha fatto, il prossimo non è più peccatore... Pertanto, fratelli, ponderate la grandezza della pietà del Signore. Eccolo che chiama, e coloro ch’egli ha denunziato come peccatori, li invita al suo abbraccio dopo che lo hanno abbandonato. Nessuno, allora, perda l’occasione d’una così grande misericordia, nessuno disprezzi la medicina offerta dalla divina bontà. Ecco, la divina misericordia ci richiama, dopo che abbiamo peccato, e ci apre, se torniamo, le braccia della sua clemenza. Rifletta bene ciascuno quanta pressione eserciti questo Signore che aspetta il peccatore e, disprezzato, non s’indigna. Perciò, chi s’è allontanato, ritorni; chi è caduto si rialzi... Ripensate, fratelli, a questa peccatrice penitente e imitatela. Detestate ciò che ricordate d’aver fatto nell’adolescenza o nella gioventù, lavate con le lacrime la sporcizia delle azioni. Amiamo le piaghe del nostro Redentore, piaghe che abbiamo disprezzato peccando. Ecco, si apre, per accoglierci, il seno della divina bontà; la nostra vita di peccato non viene respinta. Se detestiamo la nostra cattiveria, già questo ci ridona una purezza interiore. Il Signore ci abbraccia al nostro ritorno, perché per lui non può essere indegna la vita di un peccatore, se è lavata col pianto, in Gesù Cristo nostro Signore.


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