Inviati a
condividere la misericordia.
Rito Romano
II Domenica di Pasqua o
della divina Misericordia – Anno C - 3 aprile 2016
At 5,12-16; Sal 117;Ap
1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31
Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col
2,8-15; Gv 20,19-31
1) Il perché
del dubbio degli Apostoli.
Contemplando il
mistero della Risurrezione di Cristo, Sant’Agostino scrisse: “Noi
non avevamo nulla di nostro da cui ricevere la vita. Come Lui non
aveva nulla da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio:
fece sua la nostra morte e nostra la sua vita”. La Liturgia di
questa II Domenica di Pasqua trasforma in preghiera l’intuizione di
questo Santo così: “Dio di eterna misericordia, che nella
ricorrenza della festa pasquale infiammi la fede del popolo a te
consacrato, aumenta in lui la grazia che gli hai donato, perché
tutti, con un’intelligenza giusta, comprendano da quale Battesimo
sono stati purificati, da quale Spirito sono stati rigenerati, da
quale Sangue sono stati redenti” (Colletta della Messa).
Poi, la liturgia
della Parola di questa Domenica ci propone il
bel vangelo dell’apparizione di Cristo risorto agli Apostoli e poi
anche a San Tommaso, l’incredulo. Se Dio ha permesso che questo
Apostolo dubitasse ancora, è per confermare la nostra fede nel
mistero fondamentale della Risurrezione di Cristo. A questo riguardo
San Leone Magno affermò: “Lo Spirito di verità non avrebbe
permesso queste esitazioni nei cuori dei suoi predicatori se questa
diffidenza questi tentennamenti pieni di curiosità non avesse
affermato i fondamenti della nostra fede, se questi “disturbi”
non fossero stati guariti nella persona degli apostoli. In loro siamo
stati premuniti contro le calunnie degli empi e contro gli argomenti
della sapienza terrena. Ciò che loro hanno visto ci illumina, ciò
che hanno ascoltato ci dà indicazioni, ciò che hanno toccato ci
rende più fermi, più saldi. Loro hanno dubitato perché il nostro
dubbio non fosse più possibile”.
La
fragile, debole fede di San Tommaso fu rafforzata dalla
misericordia di Cristo risorto che apparve una seconda volta nel
Cenacolo principalmente per lui, non solo mostrando le sue piaghe
“gloriose” ma chiedendo a questo apostolo di metterci il dito
dentro. Ciò implicò un atto di fede immediato: “Signor Mio e Dio
mio”. Nell’oscurità e nonostante tutte le difficoltà e gli
ostacoli, anche ciascuno di noi è chiamato a toccare con il dito
della fede le sante stigmate di Cristo e a proclamare la sua
risurrezione e la sua divinità. E questo può essere fatto in modo
tutto particolare ricevendo la comunione eucaristica grazie alla
quale, sotto il velo del sacramento, possiamo –per così dire-
toccare la sostanza del Risorto.
Nella
prima apparizione agli Apostoli Gesù
mostrò le mani trafitte dai chiodi e il fianco trapassato dalla
lancia, per “di-mostrare” che Lui è davvero il Crocifisso morto
e risorto. Praticamente, in questo mostrare le mani e il fianco, Lui
presenta la sua carta d’identità, la quale certifica che il
Risorto che sta in mezzo a loro è quell’uomo che hanno visto
morire in croce. Mostrando questo documento di identità, Gesù ci
insegna anche che le sue mani che hanno lavato i piedi, sono le mani
che sono state inchiodate in Croce, perché Lui sempre è a servizio
dell’uomo. Il “potere” delle mani di Cristo Signore è di
lavare i piedi e di lasciarsele inchiodare perché la nostra angoscia
trovi rifugio in quelle mani “bucate” dall’amore: in croce
Cristo si lascia inchiodare per servire e salvare l’uomo con il suo
amore. “Le mani trafitte sono necessarie per sciogliere le mani
misericordiose del Padre” (Jacques
Maritain).
Ed è lì che conosciamo il Signore e vediamo la sua misericordia in
azione. E’ in queste mani che vediamo tutta la vita di Gesù, tutto
ciò che Lui ha fatto. Contempliamo il segno del suo amore estremo in
quelle mani inchiodate al servizio d’amore. Esse
ci accolgono ogni volta che l’abisso del peccato ci minaccia: sono
un’altissima manifestazione della misericordia di
Dio. Le
ferite gloriose di Cristo aperte anche in Paradiso sono un mistero
profondo.
:
sono
sempre aperte! “Perché da lì (da quelle piaghe) esce Dio verso
l’uomo e da lì l’uomo entra in Dio. Sono il luogo di comunione
tra l’uomo e Dio. Lì noi scrutiamo il mistero di Dio e da lì il
mistero di Dio, nel suo amore, esce verso di noi” (P.
Silvano Fausti, SI).
Sarà la
contemplazione di queste mani che ci farà capire - sempre di più e
sempre meglio - chi è il Signore per noi: il vero Dio e il Vero uomo
che si è lasciato trafiggere a morte per amore nostro. Contempliamo
stupiti le ferite d’amore di Dio che ci crea e ricrea e da cui
fluiscono la pace e la gioia.
La gioia è il segno
della presenza di Dio, che condivide con noi la
sua pace. La gioia e la pace non solo sono il segno della presenza
del Risorto, ma sono il segno che ciascuno di noi è partecipe già
da ora della Risurrezione di Cristo.
La
gioia di essere amati e perdonati diventa missione in obbedienza
amorosa alla Parola di Gesù che dice: “Come il Padre ha mandato
me, anch’io mando voi. Andate nel mondo e portate a tutti il
perdono di Dio” (cfr Gv
20, 21-23). Oggi, Gesù il risorto, l’inviato dal Padre a rivelare
il suo amore verso gli uomini, manda noi, figli nel Figlio, a portare
l’annuncio dell’amore del Padre ai fratelli. La nostra missione è
la stessa di Gesù. L’amore è sempre missione e ci manda verso il
prossimo. In questo esodo pasquale siamo mandati verso l’altro
per portargli con la misericordia l’amore di cui ha bisogno per
ricominciare ad amare. A questo riguardo Papa Francesco insegna:
“Bisogna uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per
scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo
di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati,
schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando
queste piaghe, accarezzandole, è possibile adorare il Dio vivo in
mezzo a noi” (3 luglio 2013).
2)
Il dubbio di San Tommaso.
L’informazione
dell’assenza di San Tommaso alla prima apparizione di Gesù agli
Apostoli, introduce la seconda parte del brano del vangelo di oggi,
la quale porta a termine il cammino di fede richiesto a noi che
leggiamo il racconto fatto da San Giovanni. Ognuno di noi è invitato
a mettersi nei panni di Tommaso, anche noi non c’eravamo quando
Gesù è apparso ai discepoli, anche noi dobbiamo fondare la nostra
fede sulla testimonianza degli apostoli. E’ questo il senso della
frase finale: “Tu (Tommaso) hai creduto perché hai visto. Beati
coloro che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29).
A
questo punto, penso sia importante proporre un’interpretazione
circa San Tommaso, che ha lottato con il dubbio. Prima di tutto è da
tenere presente che c’è dubbio e dubbio. C’è il dubbio di chi
si allontana dalla verità, di chi cerca il pretesto o il diversivo
per non credere, per lasciar l’interrogativo della mente e del
cuore in sospeso, una domanda a cui non si vuole dare risposta per
non cambiare vita. E’ il dubbio scettico, relativistico che dilaga
in modo particolare oggi e che è caratteristico dei periodi di
decadenza. E’ il frutto della sazietà materiale e della debolezza
spirituale e morale, che mal sopporta o non sopporta più del tutto
la tensione all’assoluto e la spinta dell’amore incondizionato di
Dio.
Non
fu questo il dubbio di San Tommaso. Lui aveva sofferto come gli altri
Apostoli per la perdita del Maestro. Cercava sinceramente la verità,
ma la voleva definitiva e di uno spessore che resistesse all’attacco
di qualsiasi dubbio. In un certo senso, Tommaso voleva “verificare”
la sua fede, rendendola salda. Per questo voleva vedere e toccare il
suo Gesù nel “segno” dei buchi lasciati dai chiodi e mettere la
mano nel costato aperto dalla lancia. Fu l’amore esasperato dal
dolore, e non lo scetticismo che gli fece dire degli “spropositi”.
Se Gesù era risorto scoperchiando il masso del sepolcro, se era
entrato a porte chiuse superando la barriera fisica delle porte
chiuse, perché doveva avere ancora le mani e i piedi e il costato
piagati? E’ tipico dell’amore sragionare, e sono gli “spropositi”
dell’amore che tengono in piedi questo mondo malato, consunto dai
dubbi della ragione che vuol essere una misura e non una finestra
aperta sulla realtà.
In
fondo, San Tommaso aveva ragione. Di fronte all’amore spropositato
di Cristo occorreva un’evidenza fisica, assoluta dell’identità
tra il Cristo morto in Croce e il Risorto. Ci voleva una prova che
attestasse ai sensi di San Tommaso l’effettiva continuità tra i
buchi dei chiodi, la ferita del costato e le loro impronte gloriose.
Queste sono le prove sensibili della morte: se Gesù era risorto, non
gli facevano più male ma dovevano splendere nell’evidenza della
nuova vita. Il Cristo esaudisce San Tommaso alla lettera e gli dice
di toccare il Suo corpo, di contemplare le Sua ferite, segni di
amore.
Ma
cosa ha contemplato San Tommaso? Ha visto ciò che è contrario alla
ragione: piaghe che non davano sangue ma luce e gioia, cioè un morto
tornato alla vita con un corpo glorioso. In questo senso la cosa non
avrebbe dovuto aiutarlo a credere: il che conferma che il dubbio di
San Tommaso non era il frutto di scetticismo, ma dell’attesa
accorata dell’amore tormentato. Il riconoscimento immediato di
Cristo da parte di questo Apostolo mostra le fede di San Tommaso. La
certezza dei sensi è un punto di partenza per affermare: “Signore
mio e Dio mio”, per riconoscere la vera umanità di Cristo dicendo
“Signore mio”, e aderendo alla divinità del Verbo incarnato,
morto e risorto, affermando: “Dio mio”.
Chiediamo
al Signore Gesù che confermi e accresca anche in noi una fede, che
non abbia più bisogno di miracoli, una fede che viva dell’amore.
Un
esempio contemporaneo di questa fede ci è testimoniata dalle Vergini
consacrate nel mondo. Queste donne dicono a Cristo: “Signore mio e
Dio mio”, offrendosi completamente, anima e corpo a Lui. Queste
vergini inoltre testimoniano a tutto il popolo di Dio che l’unione
con il Cristo-sposo, implica una profonda felicità della vita. San
Paolo accenna a questa felicità, quando dice che chi non è sposato
si preoccupa in tutto delle cose del Signore e non si trova disunito
tra il mondo e il Signore (cf. 1Cor 7,39-35). Ma si tratta di una
felicità che non esclude e che non dispensa affatto dal sacrificio,
poiché la castità consacrata comporta delle rinunce attraverso le
quali chiama a conformarsi maggiormente a Cristo crocifisso. San
Paolo ricorda espressamente che nel suo amore di sposo Gesù Cristo
ha offerto il suo sacrificio per la santità della Chiesa (cfr. Ef
5,25). Alla luce della croce comprendiamo che ogni unione al
Cristo-sposo è un impegno di amore al Crocifisso Risorto. In questo
modo chi professa la castità consacrata testimonia che è possibile
partecipare al sacrificio di Cristo per la redenzione del mondo. E
ciò va fatto con il lieto e completo dono di se stessi. Questa
offerta è resa permanente nella
consacrazione, così che il “pane” della loro vita e il “vino”
del loro amore unito alla carità di Cristo permette di vivere
l’alleanza con Cristo come spirituale e vero matrimonio d’amore .
Lettura
Patristica
Guerric
d’Igny (ca 1070/1080
- 1157)
Sermo
I, in Pascha, 4-5
Cristo e la vera
risurrezione e la vita
Come
sapete, quando egli "venne"
a loro "a
porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati
credevano di vedere un fantasma
(Jn
20,26
Lc
24,36-37);
ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete
lo Spirito Santo"
(Jn
20,22-23).
Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono.
Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova
della risurrezione e della vita.
È
lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei
santi, poi per bocca loro, che "Cristo
è la verità"
(1Jn
5,6),
la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano
rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo
redivivo, "resero
testimonianza con grande forza della sua risurrezione"
(Ac
4,33),
quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo
concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del
corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto
più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia
l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo
esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui
che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico
spirito? (1Jn
5,6-10).
Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e
un unico assenso...
Ora
perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è
testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che
penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo,
morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i
messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la
proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore
gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio,
Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito,
già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a
soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di
questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i
criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare
e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi,
avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere
che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può
dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».
Esprimendo
un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di
Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù
è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia
anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto
ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è
in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna
importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga
meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se
stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il
cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si
trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne
Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui.
Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la
povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si
ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e
reputa la morte un guadagno (Ph
1,21).
Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di
passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a
vederlo, prima di morire».
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