venerdì 29 aprile 2016

Obbedire è amare

Rito Romano
VI Domenica di Pasqua – Anno C – 1° maggio 2016
At 15,1-2.22-29; Sal 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

 

Rito Ambrosiano
At 21,40b-22,22; Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22

1) Il cammino delle sei Domeniche di Pasqua.
Nel periodo di Pasqua, la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare (nel senso biblico del termine: rendere presente) Cristo risorto concretamente presente e veramente vivente. Per questo durante le Messe delle prime tre Domeniche di Pasqua ci sono stati proposti i brani del Vangelo in cui sono raccontati gli incontri del Risorto con Maria Maddalena, con i discepoli di Emmaus, con gli Apostoli e con San Tommaso e alla fine con Pietro, che viene confermato nell’amore perché ha presentato a Cristo il suo dolore.
Nella IV domenica ci è stato ricordato che Cristo è il buon Pastore ed è presente come guida attraverso i sacerdoti e i vescovi. Nella V Domenica ci è stato ricordato che Gesù risorto è presente nell'amore concretamente vissuto e reciprocamente donato nella comunità dei cristiani, che hanno “come” esempio il Cristo stesso.
Oggi, l’insegnamento delle Domeniche precedenti arriva al culmine. Nella VI Domenica di Pasqua, infatti, il Vangelo ci fa ascoltare Gesù non si accontenta di abitare in mezzo a noi, ma chiede di essere ascoltato (di osservare la sua parola) per potere “dimorare” in noi. Cristo dunque non è più semplicemente uno con noi, uno tra di noi, anche se è il migliore: Lui ora è in noi con il suo Spirito.
In noi credenti che ascoltiamo la sua parola e ai quali dona lo Spirito Santo perché ci dia la pace e “richiami al nostro cuore tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato e ci renda capaci di testimoniarlo con le parole e con le opere” (cfr. la Colletta della VI Domenica di Pasqua).
Sapere e fare esperienza dell’amore di Dio in noi e per noi è pace confortante e gioiosa, ma è anche responsabilità grande e quotidiana.

 
2) Osservare la Parola, che è dono dell’amore.
Dalla meditazione del passo odierno del Vangelo di Giovanni (14,23-29) emergono due temi: l’amore obbediente per Gesù e il dono dello Spirito.
In effetti, in questo brano evangelico, il Figlio di Dio presenta il legame indissolubile tra l’amore a Lui e l’osservanza della Sua Parola. A questo riguardo, va tenuto presente che il termine greco usato da San Giovanni: “Logos” secondo i vari contesti può significare: la “Parola” che è Cristo, il Verbo di Dio, la “parola” che Cristo rivolge ai suoi interlocutori, e il “comandamento” dato per amore e da osservare con amore. Questo terzo significato non è poi così strano perché se uno ama prende così sul serio la “parola” dell’amato da portarla nel cuore, da custodirla osservandola. Cioè se amiamo il Signore, vuol dire che Lo portiamo nel cuore, custodendo (osservando) le sue parole, perché vogliamo vivere come Lui, vogliamo che Lui diventi la nostra vita. In effetti, se si ama una persona, quella persona diventa la nostra vita e l’ascoltiamo mettendo in pratica quello che dice.
Dunque la prova che si ama veramente il Signore è l’obbedienza. E’ vero che il verbo “amare” dice anche desiderio, affetto, amicizia, appartenenza, ma qui si sottolinea che non si può parlare di vero amore se manca l’osservanza dei comandamenti: “Se uno mi ama osserverà la mia parola” (Gv 14, 23). E, subito, sempre nello stesso v. 23, Gesù aggiunge e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Id 14, 23). In questo modo, il Figlio di Dio sottolinea un’altra caratteristica dell’amore: quella di essere il luogo dell'incontro con l’amore del Padre. Anzi è il luogo in cui il Padre e Gesù pongono la loro dimora.
L’icona, cioè l’immagine più bella di questa dimora “costruita” dall’obbedienza amorosa è Maria, Vergine e Madre. La Madonna accolse nella fede e nella carne Gesù, il Figlio di Dio, in piena obbedienza alla Parola di Dio.
L’obbedienza a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio chi - come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come il profeta Simeone disse a Maria, quando insieme con Giuseppe presentò Gesù al Tempio (cfr Lc 2,35).
Il cammino di fede implica la gioia di ricevere il dono di amore, ma anche il momento dell’oscurità, dovuta alle sofferenze della vita, alle croci delle vita. Così fu per Maria, la cui fede le fece vivere la gioia dell’Annunciazione, ma anche passare senza cedere attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione.
Per gli Apostoli, allora, e per ciascuno di noi, oggi, il cammino di obbedienza nella fede non è diverso: incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche tempi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio, osservata con amore, sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.
Come ha potuto la Madre di Dio vivere il suo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione della Provvidenza? E questa domanda vale anche per gli Apostoli: “Come hanno potuto perseverare nel cammino con Cristo e dare la vita per il Suo vangelo, cioè per la sua Parola buona e lieta che porta alla gioia della vita vera attraverso la croce.
Maria e gli apostoli hanno obbedito all’amore, hanno osservato la parola che era donata a loro, che stava davanti a loro. Hanno “dialogato” con Cristo, custodendo, osservando la Sua parola. Maria e gli Apostoli hanno riflettuto sul significato della parola di Cristo e ne hanno concluso che non potevano lasciarlo, perché solo Lui ha parola di vita eterna. Il termine greco usato nel Vangelo, per definire questo “riflettere”, “dielogizeto”, richiama la radice della parola “dialogo”. Questo significa che noi credenti, osservanti “uditori della Parola”, dobbiamo perseverare nel dialogo con la Parola di Dio che ci è detta, lasciandola penetrare nella mente e nel cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da ciascuno di noi.

3) Il dono dello Spirito.
Nel Vangelo di oggi ascoltiamo pure: “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 25-26).
Che cosa vuol dire Gesù in questi due versetti? Il Risorto vuol dire ai suoi discepoli di ieri e di oggi, di sempre che Lui non ci lascia soli, ci manda il Consolatore, lo Spirito Santo, lo Spirito della verità che dà la vita di Dio e la vita di Dio è l’amore. E’ questo amore che ci farà conoscere ciò che Gesù ha detto, progressivamente e più lo conosciamo più lo ami; più lo amiamo più lo conosciamo e avanti all’infinito e per sempre.
L'insegnamento dello Spirito è ancora l’insegnamento di Gesù. Non c’è contrasto tra i due. Compito dello Spirito è insegnare e ricordare. Si tratta sempre dell'insegnamento di Gesù, ma colto e compreso nella sua pienezza: “Vi insegnerà ogni cosa”. Non si tratta di aggiungere qualcosa all'insegnamento di Gesù, quasi fosse incompleto. “Ogni cosa” significa la pienezza, la sua radice, la sua ragione profonda. E anche la memoria, dono dello Spirito, non è ricordo ripetitivo, ma ricordo che attualizza. Lo Spirito mantiene aperta la storia di Gesù, rendendola perennemente attuale e salvifica. Quindi il dono dello Spirito che Gesù ci fa sulla croce e che fa nella storia è la sua presenza costante nella storia, è lo Spirito d’amore che ci fa capire e ci fa fare ciò che lui ha detto ed ha fatto. Lo Spirito non ci insegna o ispira cose strane, ci fa capire quello che Cristo ha detto e fatto, dandoci la forza di viverlo perché è solo l’amore che ci fa capire e ci fa fare.
Naturalmente tutti riceviamo il dono dello Spirito, la cui azione in noi ci fa “ricordare” (cioè ridare al cuore) e "rende presente" sempre di nuovo il Cristo. Ma in modo particolare va invocato sulle Vergini consacrate nel mondo, le quali sono, nella Chiesa, il segno visibile del mistero della Chiesa stessa, che è insieme vergine e sposa (cfr. 2 Cor 11,2; Ef 5, 25 – 27). Se da una parte la verginità annuncia fin da ora ciò che sarà la vita futura (cfr. Mt 22,30): la vita simile a quella degli angeli, essa (la verginità) ha anche un significato nuziale come nel Rituale di consacrazione è indicato mediante la consegna delle insegne della consacrazione, cioè il velo e l’anello, accompagnata da questa preghiera: “Ricevete il velo e l’anello, segno della vostra consacrazione nuziale. Sempre fedeli a Cristo, vostro Sposo, non dimenticate mai che vi siete donate totalmente lui e al suo corpo che è la Chiesa” (REV, n 19 e n. 88).

Lettura Patristica
Bernardo di Chiaravalle
In Cant. Cant., Sermo 74, 6


Gli effetti della presenza di Cristo in me


       Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito la sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.

venerdì 22 aprile 2016

Un comandamento antico e nuovo: Amare.

Rito Romano
V Domenica di Pasqua – Anno C – 24 aprile 2016
At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35
 

Rito Ambrosiano
At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35


1) Un comando nuovo ed antico.
Nella Liturgia della Parola di questa V Domenica di Pasqua c’è un aggettivo che vi ricorre più volte: “nuovo, nuova”. Nelle prime due letture della Messa si parla di “un nuovo cielo e una nuova terra”, della “nuova Gerusalemme”, di Dio che fa “nuove tutte le cose” e, nel Vangelo, del “comandamento nuovo”: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34).
In che senso il comandamento dell’amore è nuovo? Sant’Agostino come risposta afferma che Gesù definisce “nuovo” il comando dell’amore fraterno e reciproco perché rinnova, ci fa nuovi, trasforma tutto e tutti. In effetti “l’amore di Cristo ci rinnova, rendendoci uomini nuovi, eredi del Testamento nuovo, cantori del cantico nuovo” (Sant’Agostino). Se dovessimo mettere delle parole in bocca all’amore, potremmo usare le parole che Dio pronuncia nella seconda lettura di oggi: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5). Dunque il comando dell’amore è nuovo in senso attivo, dinamico. È fonte di novità.
Ma in che cosa consiste la novità di questa volontà di Cristo? Di per sé il comando dell’amore è antico1, come dice San Giovanni nella sua prima lettera (cfr. 1Gv 1, 7 – 10). E’ un comando “antico” come Dio. E già l’Antico Testamento (cfr. Dt 6) invitava ad amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi.
Dunque, la novità di cui Gesù parla non è legata al tempo ma alla modalità: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 35). E il “come” non indica la quantità dell’amore (chi potrebbe amare come il Figlio di Dio) ma la modalità. Cristo non dice amatevi “quanto” io vi ho amati, ma “come” io vi ho amati. Per noi, poveri esseri limitati la sua misura senza limiti è impossibile. E' possibile seguirlo, imitarlo nella sua modalità di amare. Per esempio lavare i piedi come a fatto Lui, partendo da chi è più povero. Lavando i piedi agli Apostoli, Cristo indicò come sia importante praticare la carità come amore umile che sta con gli amici, che serve gli amici. Si tratta di un modo di vivere, di un dono di sé che non può essere oscurato da quel desiderio di impossessarsi di tutto, anche dei poveri, per accomodarci nella retorica di un aiuto caritatevole.
L’amore fraterno e vicendevole è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l’anticipo della vita futura a cui aspiriamo e garanzia di quella presente perché “abbiamo tutti bisogno di molto amore per vivere bene” (Jacques Maritain).
L’amore tra i discepoli, fratelli di Cristo e tra di loro, è un amore che tende alla reciprocità: “amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 35) è ripetuto più volte. Ma se vogliamo che il nostro amore reciproco sia come quello di Cristo, questo amore deve nascere dalla gratuità ed aprirsi a tutti i fratelli in umanità. Deve quindi essere una carità reciproca e aperta. “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli”(Id.). L'amore cristiano – proprio quando se ne sottolinea la reciprocità – non cessa di essere aperto, anzi si apre a tutti: è universale. L'amore scambievole è per l'uomo movimento, vita, uscire dal chiuso, dall'odio, dall'egoismo e dall'indifferenza per respirare a pieni polmoni. San Giovanni, il discepolo prediletto, scrive: “Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli, chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14). “Amarsi reciprocamente” non è un’ imposizione, ma una direttiva amorosa che salvaguarda e promuove la vita umana. In questa volontà d’amore dove sono riassunti il destino del mondo e la sorte di ognuno di noi.

2) Amare: un comando che è un dono.
L’Apostolo che Cristo prediligeva scrive ancora: “In questo consiste l’amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi, anzi sono leggeri e fonte di gioia: sono un dono” (1 Gv 5,3). Il comandamento dell'amore è chiamato da San Giovanni un dono (il verbo dare è troppo debole, meglio tradurre donare). Può sembrare assurdo affermare che un comandamento sia un dono, può sembrare paradossale, ma è conforme a tutto l’insegnamento biblico. La legge di Dio è un dono, perché quello che dice indica la natura di Dio e il nostro futuro, la nostra vocazione più profonda. Per esempio, il comandamento: “Non uccidere” vuol dire che la natura di Dio è vita e che noi siamo chiamati alla vita.
Quando Dio “comanda” di amare vuol dire che Lui è Amore e che siamo chiamati all’Amore.
Ma che cos’è l’Amore? Uno esiste in quanto amato, se no, non esiste. Sappiamo anche che Dio è amore, ma come si fa a conoscere che Dio è amore? Ecco, Gesù l’ha manifestato: l’amore è lavare i piedi a Pietro che lo rinnega, l’amore è dare se stesso a Giuda che lo consegna e lo tradisce, è sapere amare in un modo assoluto e incondizionato l’altro come altro, prescindendo anche dai suoi meriti. Come il genitore ama il figlio non per i meriti che ha, perché se uno facesse nascere un figlio in base ai meriti che il figlio ha questo figlio non nascerebbe mai e se lo facesse crescere in base ai meriti che ha non crescerebbe mai. L’essere amati é la condizione per vivere e per condividere l’amore ricevuto.
Nel solco del suo predecessore, Benedetto XVI, che ha spiegato teologicamente l’amore nella sua Enciclica “Deus caritas est”, Papa Francesco da pastore autentico dice: “Che cos’è l’amore? E’ la telenovela? Quello che vediamo nei teleromanzi?” Alcuni pensano che sia quello l’amore. Parlare dell’amore è tanto bello, si possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una persona, un giovane non ha questi due assi, queste due dimensioni dell’amore, non è amore. Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto … Non è amore soltanto dire: “Io ti amo, io amo tutta la gente”. No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensate che Dio ha incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha perdonato tante volte – tanta pazienza ha Dio! –: ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere di amore. E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dialogo, nella comunione: si comunica”.

3) Il Pellicano come immagine di Cristo-Amore.
Dalla tradizione medievale ci viene un’immagine che può essere utile a capire che cos’è l’amore: è l’immagine di Gesù Cristo rappresentato come un Pellicano, che si apre il petto con il becco e prende il suo cuore per dare da magiare ai suoi piccoli, poiché non ha trovato pesci da dare loro da mangiare. L’origine di questa immagine eucaristica viene da un’antica leggenda, ma rappresenta bene l’amore concreto del Figlio di Dio che si comunica dando la vita per dare il cibo di Vita.
Tutti i cristiani devono avere un rapporto profondo con Cristo-Eucaristia, ma va tenuto presente che il mistero eucaristico dell’amore manifesta un rapporto intrinseco con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo. Infatti la vergini consacrate accolgono Cristo-Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia le vergini consacrate nel mondo trovano ispirazione e alimento per la loro piena dedizione a Cristo (cfr Sacramentum caritatis, n 81) .
Le vergini consacrate sono appassionate nel loro amore per l’Eucaristia, accogliendo Cristo come loro ispirazione e loro cibo da condividere. La loro consacrazione verginale non è una rinuncia all’amore, anzi le rende sempre pronte a ricevere l’amore intimo del Signore e a ricambiarlo con la preghiera e il servizio al prossimo amato d’amore verginale come quello di Cristo. Queste donne consacrate seguono, cioè imitano l’Agnello nello splendore della verginità. “Voi dunque - dice loro S. Agostino - seguite l'Agnello conservando con perseveranza ciò che avete consacrato a Lui con ardore (S. Virg. 29,29) .
La verginità impreziosita dalla consacrazione verginale, è quotidianamente rivitalizzata dalla sponsalità eucaristica dove si respira l’amicizia di Gesù: amicizia di similitudine,: “Come il Padre ha amato me, io amo voi” (Gv 15,9). Il precetto “amatevi come io vi ho amati, nel mio amore” (Gv 13,34; 15,9 ss.) è chiave interpretativa della donazione mediante il sacramento della presenza amica del Signore risorto.

1  Si tratta di un comandamento “antico” e “nuovo”. Antico perché risale a Dio stesso che è Amore dall'eternità e nell'amore conferma tutti i suoi figli; nuovo per il fatto che il criterio di comportamento, l’attitudine e l’attendibilità di chi dice di dimorare in Cristo dovrà configurarsi nell'amore verso i fratelli scongiurando ogni sorta di odio, di ritrosia e di sospetto: il distintivo del cristiano deve essere la capacità di amare anche al di sopra delle proprie forze e fino a negare se stesso.

Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)
Comment. in Ioann., 65, 1-3


Uomini nuovi in virtù del comandamento nuovo

       Cristo ci ha dunque dato un nuovo comandamento, nel senso che ha detto di amarci l’un l’altro, così come egli ci ha amati. È questo amore che ci rinnova, affinché diveniamo uomini nuovi, eredi del Nuovo Testamento, cantori di un nuovo cantico. Questo amore, fratelli, ha rinnovato anche i giusti dei tempi antichi, i patriarchi e i profeti, come più tardi ha rinnovato i beati apostoli. Esso ora rinnova tutte le genti, e, di tutto il genere umano che è diffuso ovunque sulla terra, fa, riunendolo, un sol popolo nuovo, il corpo della nuova sposa del Figlio unigenito di Dio, della quale il Cantico dei Cantici dice: "Chi è colei che si alza splendente di candore?" (Ct 8,5 , secondo i LXX). Essa è splendente di candore perché è rinnovata: da che cosa, se non dal nuovo comandamento? Ecco perché i suoi membri sono solleciti l’uno per l’altro e se uno soffre, soffrono con lui tutti; se uno è glorificato, gioiscono con lui tutti gli altri (1Co 12,25-26). Essi ascoltano e praticano quanto dice il Signore: «Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri», ma non come si amano quelli che cercano la corruzione, né come si amano gli uomini in quanto hanno la stessa natura umana, ma come si amano coloro che sono dèi e figli dell’Altissimo, e che mirano a divenire fratelli dell’unico Figlio suo, che si amano a vicenda dell’amore del quale egli li ha amati, che li porterà a giungere a quella meta dove egli sazierà tutti i loro desideri, nell’abbondanza di tutte le delizie (Ps 102,5). Allora, ogni desiderio sarà soddisfatto, quando Dio sarà tutto in tutti (1Co 15,28). Una tale meta non conoscerà fine. Nessuno muore là dove nessuno può giungere se prima non è morto per questo mondo, e non della comune morte nella quale il corpo è abbandonato dall’anima, ma della morte degli eletti. Quella morte che, mentre ancora siamo in questa carne mortale, eleva il cuore in alto nei cieli. È di questa morte che l’Apostolo dice: "Perché voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,3). Forse per la stessa ragione sta scritto: "L’amore è forte come la morte" (Ct 8,6).

       È grazie a questo amore che, pur restando ancora prigionieri di questo corpo corruttibile, noi moriamo per questo mondo, e la nostra vita si nasconde con Cristo in Dio; o, meglio, questo stesso amore è la nostra morte per il mondo, ed è vita con Dio. Se infatti parliamo di morte quando l’anima esce dal corpo, perché non dobbiamo parlare di morte quando il nostro amore esce da questo mondo? L’amore è quindi davvero forte come la morte. Che cosa è più forte di questo amore che vince il mondo?

       Ma non crediate, fratelli, che il Signore dicendo: «Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri», abbia dimenticato quell’altro comandamento che ci è stato dato, che amiamo il Signore Dio nostro con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il nostro spirito. Può sembrare che egli lo abbia dimenticato, in quanto dice soltanto: «che vi amiate gli uni gli altri», come se il primo comandamento non avesse rapporti con quello che ordina di amare "il prossimo tuo come te stesso" (Mt 12,37-40).

       A "questi due comandamenti" - disse il Signore, come narra Matteo - "si riduce tutta la legge e i profeti (Mt 22,40)". Ma per chi bene li intende, ciascuno dei due comandamenti si ritrova nell’altro. Infatti, chi ama Dio non può disprezzare Dio stesso quando egli ordina di amare il prossimo; e colui che ama il prossimo di un amore spirituale, chi ama in lui se non Dio? Questo è quell’amore liberato da ogni affetto terreno, che il Signore caratterizza aggiungendo le parole: «come io ho amato voi». Che cosa, se non Dio, il Signore amò in noi? Non perché già lo possedessimo, ma perché lo potessimo possedere; per condurci, come poco prima ho detto, là dove Dio sarà tutto in tutti. È in questo senso che, giustamente, si dice che il medico ama i suoi malati: e cosa ama in essi, se non quella salute che desidera ripristinare, e non certo la malattia che si sforza di scacciare?

       Amiamoci dunque l’un l’altro, e, per quanto possiamo, a vicenda aiutiamoci a possedere Dio nei nostri cuori. Questo amore ci dona colui che ci dice: “Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (Jn 13,34). Egli ci ha amati per renderci capaci di amarci a vicenda; questo ci ha concesso amandoci, che ci stringiamo con mutuo amore e, uniti quali membra da un sì dolce vincolo, siamo il corpo di un tanto augusto capo.

       "In questo appunto tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Jn 13,35). È come se avesse detto: Coloro che non sono miei discepoli, hanno in comune con voi altri doni, oltre la natura umana, la vita, i sensi, la ragione e tutti quei beni che sono propri anche degli animali; essi hanno anche il dono della conoscenza delle lingue, il potere di dare i sacramenti, quello di fare profezie; il dono della scienza o quello della fede, la capacità di distribuire ai poveri tutti i loro beni, e quella di sacrificare il loro corpo nelle fiamme. Ma se essi non hanno la carità, sono soltanto dei cembali squillanti: non sono niente, e tutti questi doni a loro niente giovano (1Co 13,1-3). Non è dunque in queste grazie, sia pure eccellenti, e che possono esser date anche a chi non è mio discepolo, ma è «in questo che tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».


venerdì 15 aprile 2016

Il Pastore della vita e i mercenari della morte.

Rito Romano
IV Domenica di Pasqua o della divina Misericordia – Anno C – 17 aprile 2016
At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10, 27-30

Rito Ambrosiano
At 21,8b-14; Sal 15; Fil 1,8-14; Gv 15, 9-17.


Premessa.
Nel Vangelo di San Giovanni Cristo parla di se stesso come Pane di vita (cap. 6), Luce del mondo (cap. 8) e nel breve brano di oggi (cap. 10) come buon Pastore.
Per capire quest’immagine chiara nel passato e per gli appartenenti al mondo rurale, ma non così evidente per chi vive oggi in aeree urbane, è utile ricordare che ai tempi della vita terrena di Cristo, al calare della sera, i pastori conducevano i loro greggi in un grande recinto comune per passarvi la notte. Al mattino ogni pastore gridava il suo particolare richiamo e le pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano fiduciosamente fuori dal recinto senza affatto sbagliare.

1) Il Pastore vero dà la vita.
La figura del pastore e del gregge a cui Gesù si ispira, si trova già nell’Antico Testamento. Jahvé è il pastore che fa pascolare il suo gregge (Is 40,11) e nel corso della storia lo affida successivamente ai suoi servi Abramo, Mosè, Giosuè, i Giudici e i re di Israele. Questi ultimi però spesso e volentieri non hanno ottemperato al loro compito e allora Ezechiele, in un testo che si leggeva durante la Festa della Dedicazione, pronuncia il famoso oracolo: Guai ai pastori di Israele, che pascolano se stessi! … Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura ... Ricondurrò all’ovile la pecora smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata … Susciterò per loro un pastore che le pascerà”(Ez 34, 1, 11, 16, 23).
Ed ecco la realizzazione di questa profezia: secoli dopo, durante la Festa della Dedicazione, Gesù definisce se stesso come il vero Pastore buono, che finalmente si prende cura con amore del gregge di Israele. A differenza del mercenario, cui non importa nulla delle pecore, Lui, il Pastore vero, conosce bene quelle che gli appartengono, se ne prende cura con amore e loro ascoltano la sua voce.
Conoscere e ascoltare sono verbi che indicano un dialogo profondo, una comunione nell'esistenza, non soltanto nelle idee. Dunque, tra Gesù, Pastore, e i suoi discepoli, le pecore che il Padre gli ha dato, c’è una profonda comunione. Gesù è il Pastore perché dà (=offre) la vita per le sue pecore, per dare loro la vita eterna e nessuno può strappargliele.
Nessuno, né angeli né uomini, né vita né morte, né presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall'amore di Cristo, ci ripete l'apostolo Paolo (cfr. Rm 8, 38). La forza e la consolazione di questa parola assoluta, “nessuno”, è subito raddoppiata: “le strapperà”. Verbo, questo, che non è al presente, ma al futuro per indicare un’intera storia, lunga quanto il “tempo” di Dio. L’uomo, ogni “umana pecorella” è, per Cristo, una passione eterna.
Per tutte e per ciascuna ha “pagato” con la sua vita e le tiene con il suo amore che la condotto come agnello al macello. Il Buon Pastore è nello stesso tempo l’Agnello. Così leggiamo in Gv 2,36: “Ecco l’agnello di Dio!”; e così ci rivela l’Apocalisse: “L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita”(Ap 7,17). Gesù svolge la sua vocazione di pastore che guida e custodisce le sue pecore, non dal di fuori, ma dall'interno della condizione umana di debolezza e di prova, simboleggiata dall’agnello: lui stesso l’ha condivisa fino in fondo, fino alla morte di croce. Vivendola con amore, ne ha fatto scaturire una possibilità di vita, e di vita piena ed eterna.
Il fatto che l’Agnello Gesù si identifichi con il Pastore è perché nessuno può guidare alla fonti della vita se non facendosi modello del gregge. Questa Guida, che conduce le pecore a pascoli di vita, è l’Agnello che si è immolato perché le sue pecore che ama singolarmente (di ciascuna conosce il nome e di ciascuna ha cura) esprime la comunione fra Gesù e i suoi discepoli, le cui persone sono coinvolte nella loro integralità: intelligenza, cuore, modo di essere e di agire.

2) Ascoltare e seguire chi ci conosce.
Nel breve brano evangelico di oggi Gesù, Agnello-buon Pastore indica due caratteristiche delle sue pecore: l’ascolto e la sequela. Dunque, se vogliamo essere sale e luce anche in un mondo che cambia, come oggi si è abituati dire, non dobbiamo principalmente affannarci in ricerche e progetti diversi: la voce di Gesù è già risuonata e la direzione del suo cammino è già tracciata. A noi singolarmente e in comunione tra noi è richiesta anzitutto la fedeltà alla sua presenza da portare nel mondo.
Noi pecorelle di Cristo lo ascoltiamo perché solo Lui ha parola di vita eterna, di vita piena, di vita che non muore e umilmente lo seguiamo perché sappiamo che siamo da lui amati. Lui ancora oggi e fino alla fine dei tempi, presenta se stesso come offerta inesauribile di vita: “Io do loro la vita eterna”. Entrare in rapporto con Lui significa gustare la vita nella sua pienezza: pur nella fragilità, nel peccato, nel dolore, nella violenza subita, Lui è offerta di Amore. Lui per primo, nella sua condizione umana ha sperimentato che persino nella morte è presente un Amore che ridona la Vita. Ed è Lui solo il dono di Amore che non abbandona nessuno, il dono di vita che non muore, il dono di Amore più forte di tutto perfino della morte.
Questo Amore per essere conosciuto ci chiede che il nostro cuore si impegni. Non si conosce veramente se non Chi si ama. E’ l’amore che è capace di andare oltre ad ogni evidenza. E’ un conoscere dal di dentro, dall'intimo. E' un conoscere l'Essere. E' una conoscenza nell'Amore. Ma il buon Pastore chiede pure di essere ascoltato. Nell’ascoltare è impegnata la mente, l’intelligenza, la virtù dell’obbedienza. Il vero ascolto si fa obbedienza che implica il seguire.
Nel seguire è impegnata la volontà, capace di far muovere i nostri passi dietro Colui che ascoltiamo e amiamo. SeguendoLo i nostri passi non vacillano, Lui ci porterà ai verdi pascoli, anche se dovessimo attraversare una valle oscura... non temeremo perché lui è con noi (cfr. Sal 23).
Questo andare dietro a Cristo buon Pastore ha una dimensione sponsale. Il tema dell’alleanza nuziale arricchisce quello del Pastore buono da seguire vivendo con Lui un’unità profonda.
Nell’Antico Testamento (cfr. Osea 1-3; Is 54 e 62; Ger 2 e 3; Ez 16 e 23; Mal 2, 13-17; Rut, Tobia, Cantico dei Cantici), per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo si trova spesso l’immagine dell’alleanza nuziale.
Anche nel Nuovo Testamento, si parla di questa alleanza nuziale e il tema di Cristo sposo emerge soprattutto nelle parabole del Regno (cfr. Mt 22, 2; 25, 1; Lc 12, 38). Nessuna meraviglia, dunque, che anche Paolo ricorra all’immagine sponsale per illustrare il rapporto tra Cristo e la comunità cristiana: “Provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11, 2).
Di questa alleanza San Paolo ha messo in evidenza la fedeltà assoluta di Dio: “Anche se noi manchiamo di fedeltà, egli però rimane fedele” (2Tim 2, 13); “Senza pentimenti sono i doni e la chiamata di Dio” (Rm 11, 29; 1,9)
Un modo specifico e speciale di seguire Cristo Pastore e Sposo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne testimoniano con il dono totale di sé e con l’accoglienza totale di Cristo che l’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa è riconoscibile da ciò che l’Uno compie per l’Altra. Cristo dona tutto se stesso per lei - sua carne -, purificandola e santificandola con il lavacro battesimale e la Parola, amandola come il proprio corpo, da lui nutrito (Eucaristia, banchetto nuziale) e curata (sotto la guida del Buon Pastore).
A questo riguardo sono illuminanti le parole che il Papa emerito ha rivolto a loro in occasione del congresso del 2008. Benedetto XVI, alludendo al tema “Un dono nella Chiesa e per la Chiesa”, disse: “In questa luce desidero confermarvi nella vostra vocazione e invitarvi a crescere di giorno in giorno nella comprensione di un carisma tanto luminoso e fecondo agli occhi della fede, quanto oscuro e inutile a quelli del mondo”. E aggiunse: “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro (cfr. Rito della consacrazione delle Vergini, 30). Fate in modo che la vostra persona irradi sempre la dignità dell'essere sposa di Cristo, esprima la novità dell'esistenza cristiana e l'attesa serena della vita futura. Così, con la vostra vita retta, voi potrete essere stelle che orientano il cammino del mondo”.
Le Vergini consacrate testimoniano che non ci sono due amori, quello divino e quello umano, ma solo due aspetti dello stesso amore. Dunque, è giusto affermare che amore sponsale e amore verginale sono due volti dell’unico amore di Gesù Cristo.
       Queste donne sono spose per appartenere unicamente nel puro ed esclusivo amore nuziale a Cristo-Sposo (castità), per essere guidate da Cristo-buon Pastore (obbedienza) e per fare affidamento solamente in Cristo Signore (povertà).

Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 -430)
Comment. in Ioan., 48, 4-6


La vita eterna

       I Giudei attribuivano una grande importanza a quanto avevano domandato a Cristo. Se infatti egli avesse detto: Io sono Cristo, dato che essi ritenevano che Cristo fosse soltanto figlio di David, lo avrebbero accusato di volersi arrogare il potere regale. Ma più importante è quanto egli rispose loro: a quelli che volevano far passare come delitto il dichiararsi figlio di David, egli dichiarò di essere Figlio di Dio. In qual modo? Ascoltate: "Rispose loro Gesù: «Già ve l’ho detto e non credete; le opere che io faccio in nome del Padre mio, rendono testimonianza in mio favore. Ma voi non credete perché non siete delle mie pecore»" (Jn 10,25-26).

       Già avete appreso chi siano le pecore: siate nel numero delle sue pecore! Le pecore sono tali in quanto credono, in quanto seguono il loro pastore, non disprezzano colui che le redime, entrano per la porta, ne escono e trovano i pascoli: e sono pecore perché godono della vita eterna. E perché allora disse a costoro: «Non siete delle mie pecore»? Perché egli li vedeva predestinati alla morte eterna, e non riacquistati alla vita eterna col prezzo del suo sangue.

       "Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna" (Jn 10,27-28).

       Ecco quali sono i pascoli. Se ben ricordate, egli aveva detto prima: «Ed entrerà e uscirà e troverà i pascoli». Siamo entrati credendo, usciamo morendo. Ma nello stesso modo in cui siamo entrati per la porta della fede, da fedeli anche usciamo dal corpo: usciamo per la stessa porta per poter trovare i pascoli. Questi eccellenti pascoli sono la vita eterna: qui l’erba non si inaridisce, sempre verdeggia, sempre è piena di vigore. Si dice di una certa erba che è sempre viva: essa si trova solo in quei pascoli. «La vita eterna - dice - do loro», cioè alle mie pecore. Voi cercate motivi per accusarmi, perché non pensate che alla vita presente.

       "E non periranno in eterno" (Jn 10,27-28); sottintende: voi invece andrete nella morte eterna, perché non siete mie pecore. "Nessuno le rapirà di mano a me ()". Raddoppiate ora la vostra attenzione: "Il Padre mio che me le ha date, è più potente di tutti" (Jn 10,29).


       Che può fare il lupo? Che possono fare il ladro e il brigante? Essi non possono perdere che quelli che sono predestinati alla rovina. Ma quelle pecore di cui l’Apostolo dice: "Il Signore conosce i suoi" (2Tm 2,19), e ancora: "Quelli che ha conosciuti nella sua prescienza, quelli ha predestinati, e coloro che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati" (Rm 8,29-30), queste pecore, dicevo, non potranno né essere rapite dal lupo, né asportate dal ladro, né uccise dal brigante. Colui che sa cosa ha pagato per esse, è sicuro delle sue pecore. È questo il senso delle parole: «Nessuno le rapisce di mano a me».

venerdì 8 aprile 2016

L’autorità dell’amore e della misericordia.

Rito Romano
III Domenica di Pasqua  – Anno C - 10 aprile 2016
At 5,27-32.40-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19

Rito Ambrosiano
At 28, 16-28; Sal 96; Rm 1,1-16b; Gv 8, 12-19

  1. L’apparizione è una manifestazione, come un incontro d’amore.
La liturgia della Messa di oggi ci guida nella comprensione e nella riflessione della risurrezione di Cristo proponendoci la terza apparizione di Gesù risorto agli apostoli.
Per la precisione, va ricordato che nel linguaggio evangelico il termine “apparizione” ha un significato più profondo di quello che oggi è comunemente inteso, che spesso si riferisce alla visione di un fantasma o di qualcosa di evanescente. Quando l’evangelista Giovanni parla di “apparizione” intende riferire del farsi vedere di Cristo, dell’incontro reale col Risorto: un incontro tra persone, un incontro dal quale nasce un riconoscimento, un dialogo, un impegno. In effetti, il Vangelo del discepolo prediletto, ci parla di Gesù che si manifesta, cioè si fa vedere, alle pie donne, alla Maddalena, ai discepoli di Emmaus, agli Apostoli nel Cenacolo. Infine, a questi incontri, che la liturgia ci ha fatto riascoltare nelle domeniche precedenti, oggi il Vangelo di Giovanni aggiunge l’apparizione del Risorto sulle rive del lago di Tiberiade a Pietro e ad altri 6 discepoli, che erano tornati al loro precedente lavoro di pescatori. Era quasi l’alba e, seduto sulla riva del lago, c’era Gesù, ma essi non lo riconobbero e ciò non solo a causa dell’oscurità materiale.
Fu lui, il Risorto, ad illuminare la loro mente con i segni che richiamarono alla memoria esperienze già vissute col loro Maestro, quello stesso Gesù che ora si faceva loro incontro, dopo aver vinto la morte.
Fu l’amore del discepolo prediletto a riconoscere per primo Cristo.
Fu Pietro a prendere l’iniziativa di buttarsi dalla barca per raggiungere per primo Cristo. Vediamo cosi che due sono le caratteristiche di ogni discepolo di Gesù: l’intuizione dell’amore e la prontezza nel nuotare subito verso Cristo e nell’obbedire gettando le reti per la pesca, che allude alla missione di essere pescatori di uomini.

2) La pesca e il pasto.
La fatica notturna dei pescatori è stata inutile perché Gesù aveva detto “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Ma con Lui tutto cambia: rigettano la rete e questa volta la ritirano piena di centocinquantatrè grossi pesci.
E’ la Presenza del Signore che riempie le reti, e sarà sempre la sua Parola che renderà efficace in ogni tempo la missione dei discepoli. Questa missione sarà sempre vuota senza Cristo e sempre fruttuosa con lui.
Ma il Risorto si manifesta, cioè viene alla luce degli occhi dei discepoli non solo con la pesca ma con l’invito: “Venite a mangiare” .
C’è stretta connessione tra la pesca e il pasto. I discepoli tutti riconoscono il Signore quando Lui dice loro: “Venite a mangiare”. Riconoscono il Risorto quando, nel primo chiaro del giorno Gesù distribuisce loro del pesce arrostito sulla brace insieme con del pane. Il Risorto ripete uno dei gesti più simbolici di tutta la sua vita terrena: il servizio di misericordia della mensa. Gesù distribuisce il pane e i pesci (Gv 21,13),
In riva al lago, quel gesto di distribuire il pesce arrostito sulla brace assieme al pane, diventa silenziosa, viva memoria della moltiplicazione dei pani, memoriale dell’ultima cena in cui il Figlio di Dio, ormai prossimo alla morte, compì quel gesto di amore estremo, segno della sua totale dedizione che è la sua vera identità, l’identità di un Dio che è Dono, e si fa uomo per salvarci con il dono totale di se stesse. Il Risorto si fa riconoscere nel gesto della dedizione, che è stata la verità del suo intero cammino. La nota della dedizione appartiene al Gesù terreno e al Signore risorto. E’ l’identità che lo accompagna in ogni sua condizione di vita, che rivela chi egli è veramente e che chiede di essere seguito in questa offerta di sé.
3) Un vero dialogo d’amore.
Il Vangelo di oggi termina con un testo molto noto: il dialogo fra Gesù e Pietro (Gv 21,15-19). Per affidare a Pietro l’incarico di pascere il suo gregge, il Messia risorto chiede l’amore, non altro.
Se la Chiesa è la comunità dell’amore, il suo Capo deve avere il primato dell’amore perché ama Cristo più di tutti gli altri. Certo Pietro deve amare anche il gregge che è chiamato a condurre alla santità, ammaestrandolo e servendolo. Ma la condizione per svolgere questo “ufficio”, questo incarico è anzitutto quella di amare Gesù. Per servire gli uomini non basta guardare gli uomini e i loro bisogni, ma amare Gesù Cristo più di tutti gli altri.
Rileggiamo questo dialogo: “Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola le mie pecore”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: “Seguimi’” (Gv 21, 15-19).
Perché Cristo ha chiesto a Pietro quello che Lui già sapeva? A questa domanda San Agostino rispose così: “Alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d'amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all'amore meno di quanto ha servito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu di fronte alla minaccia della morte. Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore, come fu indice di timore negare il pastore. Coloro che pascono le pecore di Cristo con l'intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l’obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l'Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cfr. Fil 2, 21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo” (Discorsi sul Vangelo di san Giovanni, 123, 4-5)
Anche a noi, oggi, Gesù fa questa domanda: “Mi ami tu?” e la fa conoscendo la nostra debolezza. “Rispondiamo come San Pietro che ci mostra la strada: quella di seguire Cristo fidandosi di Lui, che conosce tutto di noi, confidando non sulla nostra capacità di essergli fedeli, quanto sulla sua incrollabile fedeltà” (Papa Francesco).

3) Una domanda ripetuta?
L’amore non si ripete, contempla. Chiedere più volte a chi si ama: “Mi ami?”. Non è una ripetizione, è la verifica (nel senso etimologico di “fare vero) un rapporto d’amore, è un invito alla contemplazione che rende più salda una appartenenza. Nel caso di San Pietro, Gesù “interrogò” il primo degli apostoli per rinnovare, nel perdono, il rapporto tra loro e Dio. San Pietro più che ripetere tre volte la stessa risposta, ribadì tre volte il riconoscimento di una appartenenza, che durante la passione dell’Amato aveva negato tre volte. All’inizio di quel giorno, che divenne un bel giorno, Pietro vide Cristo Risorto sulla riva del lago di Tiberiade, si buttò dalla barca per essere il primo a raggiungere a nuoto l’Amico che lo attendeva. Arrivato a riva, si mise in ginocchio e lo contemplò, cioè la sua preghiera divenne gesto e sguardo verso il mistero dell’amore che gli stava davanti in piedi. Pietro non aveva che il suo dolore grande di amico debole e traditore. Cristo lo confermò nel suo amore e lo rimise in piedi, chiedendogli di seguirLo guidando la comunità dell’amore: la Chiesa.
Oggi, l’amico e fratello Gesù si rivolge a noi, viene incontro a noi e ci domanda: “Mi ami?”, non “che cosa hai fatto?”
A un mondo che deturpa l’amore, confondendolo con il piacere, Cristo proclama la legge dell’amore che “misericordiando” (Papa Francesco) purifica, eleva e santifica.
La santità, che consiste nel vivere la pienezza della carità verso Dio e verso il prossimo, è unica ma può assumere forme diverse. Fra queste sottolineo quella delle Vergini consacrate nel mondo. Con la loro dedizione piena a Cristo, con una vita in cui niente è anteposto a Cristo, queste donne mostrano che la santità non consiste nel non avere mai tradito, ma ribadire ogni giorno l’amicizia sponsale con Cristo. “Consapevoli che l’amore di Dio è soprattutto un amore di misericordia e che le donne hanno questo tratto” (Papa Francesco), le vergini consacrate sono coscienti di essere chiamate al compito speciale di essere nel mondo il riflesso particolare della misericordia e di quella tenerezza. Con la loro vita, dedicando a Lui e al suo Regno tutte le proprie forze di amore, testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di Dio e risposta a Lui nel servizio degli altri. La loro totale donazione a Cristo le consacra in un compito speciale, quello di essere nel mondo il riflesso particolare della misericordia e della tenerezza di Dio.

Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo ( ca 344/354407)
In Matth., 77, 6


La prova dell’amore

       Vi sia un uomo che digiuna, che vive castamente, e che soffre infine il martirio, consumato dalle fiamme, e vi sia un altro che rinvia il martirio per l’edificazione del prossimo e, non solo lo rinvia ma se ne parte da questo mondo senza averlo subito. Quale di questi due uomini otterrà maggior gloria, dopo aver lasciato questa vita? Non c’è bisogno qui di discutere a lungo né di parlare eloquentemente per decidere, dato che il beato Paolo dà il suo giudizio dicendo: "Morire ed essere con Cristo è la cosa migliore, ma rimanere nella carne è più necessario per causa vostra" (Ph 1,23-24). Vedi come l’Apostolo antepone l’edificazione del prossimo al morire per raggiungere Cristo? Non vi è infatti mezzo migliore per essere unito a Cristo che il compiere la sua volontà, e la sua volontà non consiste in nessun’altra cosa come nel bene del prossimo... "Pietro" - dice il Signore -, "mi ami tu? Pasci le mie pecore" (Jn 21,15), e, con la triplice domanda che gli rivolge, Cristo manifesta chiaramente che il pascere le pecore è la prova dell’amore. E questo non è detto solo ai sacerdoti, ma a ognuno di noi, per piccolo che sia il gregge affidatoci. Difatti, anche se è piccolo, non si deve trascurarlo poiché il "Padre mio" - dice il Signore - "si compiace in loro" (Lc 12,32). Ognuno di noi ha una pecora. Badiamo di portarla a pascoli convenienti. L’uomo, appena si leva dal suo letto, non ricerchi altra cosa, sia con le parole sia con le opere, che di render la sua casa e la sua famiglia più pia. La donna, da parte sua, si dimostri buona padrona di casa, ma prima ancora di questo abbia un’altra preoccupazione assai più necessaria, quella cioè che tutta la sua famiglia lavori e compia quelle opere che riguardano il regno dei cieli. Se infatti negli affari terreni, prima ancora degli interessi familiari, ci preoccupiamo di pagare i debiti pubblici perché, trascurando quelli, non ci capiti di essere arrestati, tradotti in tribunale e svergognati obbrobriosamente, a maggior ragione, nelle cose spirituali, facciamo in modo di pagare anzitutto ciò che dobbiamo a Dio, re dell’universo, in modo da non essere gettati là dov’è stridore di denti.

       Ricerchiamo, inoltre, quelle virtù che da una parte procurano a noi la salvezza e dall’altra sono utilissime al prossimo. Tali sono l’elemosina, le orazioni; anzi, l’orazione riceve dall’elemosina forza e ali. "Le tue orazioni" - dice la Scrittura - "e le tue elemosine sono servite per essere ricordato al cospetto di Dio" (Ac 10,4). Ma non solo l’orazione, bensì anche il digiuno riceve dall’elemosina efficacia. Se tu digiuni senza fare elemosina, la tua azione non può essere digiuno e diventi peggiore di un ghiottone e di un ubriaco, tanto peggiore quanto la crudeltà è più grave peccato della gola. Ma perché parlo del digiuno? Anche se tu vivi castamente, anche se tu conservi la verginità, ma non l’accompagni con l’elemosina, tu rimani fuori della sala nuziale. Che cosa è paragonabile alla verginità che, per la sua stessa eccellenza, non fu posta per legge neppure nel Nuovo Testamento? Tuttavia, anch’essa viene respinta se non è congiunta all’elemosina. Se, dunque, le vergini sono ricacciate perché non l’hanno praticata con generosità, chi mai potrà ottenere perdono se trascura di far elemosina? Nessuno, di certo. Chi non pratica l’elemosina, perirà dunque sicuramente. Infatti, se nelle cose di questo mondo nessuno vive per se stesso, ma l’artigiano, il soldato, l’agricoltore, il commerciante svolgono attività che contribuiscono al bene pubblico e alla comune utilità, molto di più ciò deve realizzarsi nelle cose spirituali. Vive veramente, soltanto chi vive per gli altri. Chi invece vive solo per sé, disprezza e non si cura degli altri, è un essere inutile, non è un uomo, non appartiene alla razza umana. Tu forse mi dirai a questo punto: Devo allora trascurare i miei affari per occuparmi di quelli altrui? No, non è possibile che colui che si prende cura degli affari del prossimo trascuri i propri. Chi cerca l’interesse del prossimo non danneggia nessuno, ha compassione di tutti e aiuta secondo le proprie possibilità, non commette frodi, né si appropria di quanto appartiene agli altri, non dice falsa testimonianza, si astiene dal vizio, abbraccia la virtù, prega per i suoi nemici, fa del bene a chi gli fa del male, non ingiuria nessuno, non maledice neppur quando in mille modi è maledetto, ma ripete piuttosto le parole dell’Apostolo: "Chi è infermo che anch’io non sia infermo? Chi subisce scandalo che io non ne arda?" (2Co 11,29). Al contrario, se noi ricerchiamo il nostro interesse non seguirà al nostro l’interesse degli altri.


       Convinti, dunque, da quanto è stato detto, che non è possibile salvarci se non ci interessiamo del bene comune, e considerando gli esempi del servo che fu separato e di colui che nascose il talento sotto terra, scegliamo quest’altra via, e conseguiremo anche la vita eterna, che io auguro a tutti noi di ottenere per la grazia e l’amore di Gesù Cristo, nostro Signore.

venerdì 1 aprile 2016

Inviati a condividere la misericordia.

Inviati a condividere la misericordia.

Rito Romano
II Domenica di Pasqua o della divina Misericordia – Anno C - 3 aprile 2016
At 5,12-16; Sal 117;Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31
 

Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31

1) Il perché del dubbio degli Apostoli.
Contemplando il mistero della Risurrezione di Cristo, Sant’Agostino scrisse: “Noi non avevamo nulla di nostro da cui ricevere la vita. Come Lui non aveva nulla da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita”. La Liturgia di questa II Domenica di Pasqua trasforma in preghiera l’intuizione di questo Santo così: “Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza della festa pasquale infiammi la fede del popolo a te consacrato, aumenta in lui la grazia che gli hai donato, perché tutti, con un’intelligenza giusta, comprendano da quale Battesimo sono stati purificati, da quale Spirito sono stati rigenerati, da quale Sangue sono stati redenti” (Colletta della Messa).
Poi, la liturgia della Parola di questa Domenica ci propone il bel vangelo dell’apparizione di Cristo risorto agli Apostoli e poi anche a San Tommaso, l’incredulo. Se Dio ha permesso che questo Apostolo dubitasse ancora, è per confermare la nostra fede nel mistero fondamentale della Risurrezione di Cristo. A questo riguardo San Leone Magno affermò: “Lo Spirito di verità non avrebbe permesso queste esitazioni nei cuori dei suoi predicatori se questa diffidenza questi tentennamenti pieni di curiosità non avesse affermato i fondamenti della nostra fede, se questi “disturbi” non fossero stati guariti nella persona degli apostoli. In loro siamo stati premuniti contro le calunnie degli empi e contro gli argomenti della sapienza terrena. Ciò che loro hanno visto ci illumina, ciò che hanno ascoltato ci dà indicazioni, ciò che hanno toccato ci rende più fermi, più saldi. Loro hanno dubitato perché il nostro dubbio non fosse più possibile”.
La fragile, debole fede di San Tommaso fu rafforzata dalla misericordia di Cristo risorto che apparve una seconda volta nel Cenacolo principalmente per lui, non solo mostrando le sue piaghe “gloriose” ma chiedendo a questo apostolo di metterci il dito dentro. Ciò implicò un atto di fede immediato: “Signor Mio e Dio mio”. Nell’oscurità e nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli, anche ciascuno di noi è chiamato a toccare con il dito della fede le sante stigmate di Cristo e a proclamare la sua risurrezione e la sua divinità. E questo può essere fatto in modo tutto particolare ricevendo la comunione eucaristica grazie alla quale, sotto il velo del sacramento, possiamo –per così dire- toccare la sostanza del Risorto.
Nella prima apparizione agli Apostoli Gesù mostrò le mani trafitte dai chiodi e il fianco trapassato dalla lancia, per “di-mostrare” che Lui è davvero il Crocifisso morto e risorto. Praticamente, in questo mostrare le mani e il fianco, Lui presenta la sua carta d’identità, la quale certifica che il Risorto che sta in mezzo a loro è quell’uomo che hanno visto morire in croce. Mostrando questo documento di identità, Gesù ci insegna anche che le sue mani che hanno lavato i piedi, sono le mani che sono state inchiodate in Croce, perché Lui sempre è a servizio dell’uomo. Il “potere” delle mani di Cristo Signore è di lavare i piedi e di lasciarsele inchiodare perché la nostra angoscia trovi rifugio in quelle mani “bucate” dall’amore: in croce Cristo si lascia inchiodare per servire e salvare l’uomo con il suo amore. “Le mani trafitte sono necessarie per sciogliere le mani misericordiose del Padre” (Jacques Maritain). Ed è lì che conosciamo il Signore e vediamo la sua misericordia in azione. E’ in queste mani che vediamo tutta la vita di Gesù, tutto ciò che Lui ha fatto. Contempliamo il segno del suo amore estremo in quelle mani inchiodate al servizio d’amore. Esse ci accolgono ogni volta che l’abisso del peccato ci minaccia: sono un’altissima manifestazione della misericordia di Dio. Le ferite gloriose di Cristo aperte anche in Paradiso sono un mistero profondo. : sono sempre aperte! “Perché da lì (da quelle piaghe) esce Dio verso l’uomo e da lì l’uomo entra in Dio. Sono il luogo di comunione tra l’uomo e Dio. Lì noi scrutiamo il mistero di Dio e da lì il mistero di Dio, nel suo amore, esce verso di noi” (P. Silvano Fausti, SI).
Sarà la contemplazione di queste mani che ci farà capire - sempre di più e sempre meglio - chi è il Signore per noi: il vero Dio e il Vero uomo che si è lasciato trafiggere a morte per amore nostro. Contempliamo stupiti le ferite d’amore di Dio che ci crea e ricrea e da cui fluiscono la pace e la gioia.
La gioia è il segno della presenza di Dio, che condivide con noi la sua pace. La gioia e la pace non solo sono il segno della presenza del Risorto, ma sono il segno che ciascuno di noi è partecipe già da ora della Risurrezione di Cristo.
La gioia di essere amati e perdonati diventa missione in obbedienza amorosa alla Parola di Gesù che dice: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Andate nel mondo e portate a tutti il perdono di Dio” (cfr Gv 20, 21-23). Oggi, Gesù il risorto, l’inviato dal Padre a rivelare il suo amore verso gli uomini, manda noi, figli nel Figlio, a portare l’annuncio dell’amore del Padre ai fratelli. La nostra missione è la stessa di Gesù. L’amore è sempre missione e ci manda verso il prossimo. In questo esodo pasquale siamo mandati verso l’altro per portargli con la misericordia l’amore di cui ha bisogno per ricominciare ad amare. A questo riguardo Papa Francesco insegna: “Bisogna uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati, schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando queste piaghe, accarezzandole, è possibile adorare il Dio vivo in mezzo a noi” (3 luglio 2013).

2) Il dubbio di San Tommaso.
L’informazione dell’assenza di San Tommaso alla prima apparizione di Gesù agli Apostoli, introduce la seconda parte del brano del vangelo di oggi, la quale porta a termine il cammino di fede richiesto a noi che leggiamo il racconto fatto da San Giovanni. Ognuno di noi è invitato a mettersi nei panni di Tommaso, anche noi non c’eravamo quando Gesù è apparso ai discepoli, anche noi dobbiamo fondare la nostra fede sulla testimonianza degli apostoli. E’ questo il senso della frase finale: “Tu (Tommaso) hai creduto perché hai visto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29).
A questo punto, penso sia importante proporre un’interpretazione circa San Tommaso, che ha lottato con il dubbio. Prima di tutto è da tenere presente che c’è dubbio e dubbio. C’è il dubbio di chi si allontana dalla verità, di chi cerca il pretesto o il diversivo per non credere, per lasciar l’interrogativo della mente e del cuore in sospeso, una domanda a cui non si vuole dare risposta per non cambiare vita. E’ il dubbio scettico, relativistico che dilaga in modo particolare oggi e che è caratteristico dei periodi di decadenza. E’ il frutto della sazietà materiale e della debolezza spirituale e morale, che mal sopporta o non sopporta più del tutto la tensione all’assoluto e la spinta dell’amore incondizionato di Dio.
Non fu questo il dubbio di San Tommaso. Lui aveva sofferto come gli altri Apostoli per la perdita del Maestro. Cercava sinceramente la verità, ma la voleva definitiva e di uno spessore che resistesse all’attacco di qualsiasi dubbio. In un certo senso, Tommaso voleva “verificare” la sua fede, rendendola salda. Per questo voleva vedere e toccare il suo Gesù nel “segno” dei buchi lasciati dai chiodi e mettere la mano nel costato aperto dalla lancia. Fu l’amore esasperato dal dolore, e non lo scetticismo che gli fece dire degli “spropositi”. Se Gesù era risorto scoperchiando il masso del sepolcro, se era entrato a porte chiuse superando la barriera fisica delle porte chiuse, perché doveva avere ancora le mani e i piedi e il costato piagati? E’ tipico dell’amore sragionare, e sono gli “spropositi” dell’amore che tengono in piedi questo mondo malato, consunto dai dubbi della ragione che vuol essere una misura e non una finestra aperta sulla realtà.
In fondo, San Tommaso aveva ragione. Di fronte all’amore spropositato di Cristo occorreva un’evidenza fisica, assoluta dell’identità tra il Cristo morto in Croce e il Risorto. Ci voleva una prova che attestasse ai sensi di San Tommaso l’effettiva continuità tra i buchi dei chiodi, la ferita del costato e le loro impronte gloriose. Queste sono le prove sensibili della morte: se Gesù era risorto, non gli facevano più male ma dovevano splendere nell’evidenza della nuova vita. Il Cristo esaudisce San Tommaso alla lettera e gli dice di toccare il Suo corpo, di contemplare le Sua ferite, segni di amore.
Ma cosa ha contemplato San Tommaso? Ha visto ciò che è contrario alla ragione: piaghe che non davano sangue ma luce e gioia, cioè un morto tornato alla vita con un corpo glorioso. In questo senso la cosa non avrebbe dovuto aiutarlo a credere: il che conferma che il dubbio di San Tommaso non era il frutto di scetticismo, ma dell’attesa accorata dell’amore tormentato. Il riconoscimento immediato di Cristo da parte di questo Apostolo mostra le fede di San Tommaso. La certezza dei sensi è un punto di partenza per affermare: “Signore mio e Dio mio”, per riconoscere la vera umanità di Cristo dicendo “Signore mio”, e aderendo alla divinità del Verbo incarnato, morto e risorto, affermando: “Dio mio”.
Chiediamo al Signore Gesù che confermi e accresca anche in noi una fede, che non abbia più bisogno di miracoli, una fede che viva dell’amore.
Un esempio contemporaneo di questa fede ci è testimoniata dalle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne dicono a Cristo: “Signore mio e Dio mio”, offrendosi completamente, anima e corpo a Lui. Queste vergini inoltre testimoniano a tutto il popolo di Dio che l’unione con il Cristo-sposo, implica una profonda felicità della vita. San Paolo accenna a questa felicità, quando dice che chi non è sposato si preoccupa in tutto delle cose del Signore e non si trova disunito tra il mondo e il Signore (cf. 1Cor 7,39-35). Ma si tratta di una felicità che non esclude e che non dispensa affatto dal sacrificio, poiché la castità consacrata comporta delle rinunce attraverso le quali chiama a conformarsi maggiormente a Cristo crocifisso. San Paolo ricorda espressamente che nel suo amore di sposo Gesù Cristo ha offerto il suo sacrificio per la santità della Chiesa (cfr. Ef 5,25). Alla luce della croce comprendiamo che ogni unione al Cristo-sposo è un impegno di amore al Crocifisso Risorto. In questo modo chi professa la castità consacrata testimonia che è possibile partecipare al sacrificio di Cristo per la redenzione del mondo. E ciò va fatto con il lieto e completo dono di se stessi. Questa offerta è resa permanente nella consacrazione, così che il “pane” della loro vita e il “vino” del loro amore unito alla carità di Cristo permette di vivere l’alleanza con Cristo come spirituale e vero matrimonio d’amore .




Lettura Patristica
Guerric d’Igny (ca 1070/1080 - 1157)
Sermo I, in Pascha, 4-5




Cristo e la vera risurrezione e la vita

       Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26 Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.

       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...

       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».


       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».