venerdì 3 luglio 2015

Abitudine e pietà.

Domenica XIV del Tempo Ordinario – Anno B – 5 luglio 2015
Rito Romano
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

Rito Ambrosiano
Es 3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
VI Domenica dopo Pentecoste.

1) Il quotidiano e l’eroico.
Il Vangelo di questa domenica ci mostra il conflitto perenne tra il quotidiano e l’eroico. All’inizio le notizie che arrivavano a Nazareth circa le parole e i prodigi del “compaesano” Gesù stupirono i nazaretani, immettendo un “di più” dentro la normalità della loro vita. Poi l’ordinario, il quotidiano impose di nuovo la dittatura della banalità.
Infatti, un giorno, che avrebbe potuto essere un bel giorno, Gesù ritornò a Nazareth. Vi tornò non da solo, ma con i suoi discepoli e preceduto dalla fama dei suoi miracoli e dei suoi insegnamenti. Vi tornò quindi come maestro e profeta, che dice parole che portano la buona novella della libertà. E i suoi compaesani che lo avevano visto tutti i giorni camminare per le vie del paese, quel sabato lo videro entrare in sinagoga e lo ascoltarono predicare. Diceva parole nuove, che riscuotevano interesse e muovevano l’attenzione, che risvegliavano i desideri e rispondeva alle attese. Parole che destavano stupore e che invitavano a lasciare il vecchio modo di pensare e di agire: lo stupore è la risposta “normale” alla parola di Gesù, sempre, anche quando questa Parola la conosciamo, l’abbiamo meditata, la evochiamo tra le cose familiari della memoria. Stupore che nasce spontaneamente quando si è aperti all’ascolto. Purtroppo gli ascoltatori di allora (ma anche quelli di oggi) soffocarono lo stupore con i pregiudizi di chi si era abituato a vedere la “normalità” di Cristo nei 30 anni di vita privata.
Quel giorno a Nazareth la liberazione era ad un passo, la libertà non era mai stata così vicina, aveva il volto di quel loro amico, e il desiderio stringente di una vita nuova, dell’avvento del Messia liberatore, di quella novità di vita tante volte sfuggita ma sempre di nuovo promessa dal Cielo, quel desiderio inesausto aveva acceso lo stupore e la gioia, e il cuore stava acconsentendo, affermando che sì, era Lui, era il Messia, quell’oggi era la svolta, il compimento d'ogni speranza.
E così, quel sabato a Nazareth invece di essere un sabato bellissimo, di gioia e di stupore per le parole di pace, verità e perdono di Gesù, divenne il giorno del rifiuto. E non ci fu nessun miracolo.
C’è una prima importante lezione in questo breve passo del Vangelo: Dio non si impone con forza, ma si propone con delicatezza. Non fa violenza alla nostra mente e al nostro cuore, che devono restare aperti e accogliere Cristo e la sua parola “liberante”, senza lasciarsi vincere dalla noia del quotidiano. Quindi, dobbiamo essere vigilanti, attenti, tesi alla novità di Dio che viene a noi con delicatezza e che con discrezione bussa alla porta del nostro vivere quotidiano.
Il Vangelo di oggi ci insegna che occorre non soffocare la capacità di stupore della nostra mente e del nostro cuore davanti a un Dio che è l’Emmanuele, quindi il Dio sempre con noi tutti i giorni. Non dobbiamo cedere all’abitudinarietà, alla routine, all’accecamento che viene dal quotidiano banale. Dobbiamo tener vivo lo stupore che è un giudizio, che ci fa dire: “Gesù è Dio e vale la pena di seguirLo” e che diventa un attaccamento ad una Presenza la quale, essa sola, ha parole di vita eterna.

2) L’incredulità è sconfitta dallo stupore e dalla pietà1
Per indicare il luogo della visita di Gesù a Nazareth San Marco non scrisse “paese”, ma “patria” 2 (Mc 6,1), parola più ricca di evocazioni affettive e più ampia di significato. Purtroppo Gesù non fu riconosciuto come Messia proprio nella sua patria, non fu riconosciuto da chi pensava di conoscerlo da sempre. Cristo Gesù, Figlio dell’uomo, vera e piena rivelazione del Padre, non fu riconosciuto, e seguì il destino di tanti altri profeti: “Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero…” (Gv 1,11). Non riconobbero la sua eccezionalità, si fermarono a quei pochi e modesti dati anagrafici che da decenni conoscevano: era il figlio di Maria e dell’artigiano Giuseppe e anche lui artigiano, cugino di Giacomo, Ioses, Simone. Gesù arrivò a Nazareth, la sua patria, tra la gente che lo aveva visto crescere, giocare e lavorare. Lì dove c’erano sua madre, la sua casa, gli amici d’infanzia e di gioventù, i parenti più stretti.
Per il Vangelo l’incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l’incapacità di riconoscere Dio nell’umiltà dell'uomo Gesù, il suo appello nella voce di un uomo che sembra essere “troppo e solamente” uomo.
Il Salvatore si propone con mitezza e umiltà tali da non imporsi. Il Figlio di Dio si rivela nella semplicità e povertà del suo essere uomo come tanti, e, tuttavia, è egli stesso Dio, la cui presenza deve esser colta nelle situazioni esistenziali ordinarie, nella quotidianità della vita, nel volto di ogni uomo o donna, per i quali Lui si è incarnato.
Lui è il solo modello da imitare. Da Lui dobbiamo imparare tutti la mitezza e l’umiltà. Con la mitezza dichiariamo il nostro Dio unico Giudice e Signore della nostra vita, ponendola interamente nelle sue mani.
Con l’umiltà accogliamo la sua volontà come unica e sola volontà che deve guidare la nostra storia anche nei più piccoli ed insignificanti dettagli. Imparando da Lui e prendendo su noi la sua Legge, il suo giogo che è un giogo di carità e grande misericordia, pietà e infinita compassione, perdono e pietà, la nostra anima trova ristoro. Entra nella vera pace. Sente ritornare in lui tutta la pienezza del suo essere.
La seconda lezione di questo brano domenicale di San Marco è che per credere ci vuole la pietà, intesa come consuetudine di amore a Cristo.
Se i presenti si fossero fermati a sentire la risposta del loro cuore alle parole di Gesù che era arrivato di nuovo da loro per pietà, avrebbero colto la straordinarietà della Sua presenza divina. Avrebbero riconosciuto in Gesù il Messia, se avessero risposto alla pietà di Cristo con una pratica di pietà. “La pietà –come ben scriveva Giuseppe de Luca- altro non è che la consuetudine d’amore con Dio… La pietà altro non è che la vita di preghiera (per questo le preghiere sono chiamate anche pratiche di pietà, senza dimenticare il primato della Liturgia) vale a dire il respiro di Dio in noi”. Quindi, è l’amore che rende la consuetudine non una sclerosi ma una forma stabile di novità.
Un esempio di questa forma stabile di vita nuova, perché vita di comunione in e con Cristo nella Chiesa, è dato dalle Vergini consacrate nel mondo. Donandosi pienamente e unicamente a Cristo, queste donne mostrano che è possibile avere i suoi stessi sentimenti (cfr Fil 2, 5) e portare sulle strade del mondo il Cuore di Gesù. “Queste nostre sorelle, che oggi ricevono la consacrazione verginale dalla madre Chiesa, provengono dal popolo santo di Dio, dalle vostre famiglie: sono figlie e sorelle, a noi congiunte da una consuetudine di lavoro e di vita. Il Signore le ha chiamate per unirle più intimamente a sé e metterle al servizio della Chiesa e dell’umanità. La loro consacrazione infatti le sospinge a cercar ardentemente, ciascuna secondo il proprio dono, l’espansione del regno di Dio e il rinnovamento del mondo nello spirito del Vangelo”(Progetto di omelia nel Rito di Consacrazione delle Vergini, n 26).
La vita nuova che ci è comunicata nel battesimo è vissuta dalle Consacrate nel modo come l’amicizia di comunione verginale per una vita nuova fondata non sul sangue e sulla carne, ma sulla grazia.


1 Nel 19° secolo il termine pietà non si identificò con devozione e spiritualità. Un esteso movimento di fondazioni e di strutture religiose, lo propose piuttosto con il significato di intensa unione con Dio, dalla quale provenivano l’amore per il prossimo e tutte le virtù cristiane. Le vie della pietà furono la preghiera, la meditazione, la comunione frequente, la devozione eucaristica e mariana, il sostegno dei deboli.
Nel 20° secolo il termine fu ripreso da don Giuseppe De Luca per indicare la relazione d’amore che unisce gli uomini a Dio. In periodi particolarmente tragici come quello della guerra, la pietà ebbe accenti marcati dalle responsabilità verso i sofferenti.
Con il Concilio Vaticano II (1962-1965), le pratiche e gli esercizi di pietà furono riproposti alla luce della fede e della carità, nella prospettiva dell’attività missionaria e dell’apostolato. In particolare, la pietà popolare fu considerata un tesoro spirituale prezioso e fu congiunta alla liturgia. Fu apprezzata come forma genuina della ricerca di Dio.

2 “Gesù partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando” (Mc 6,1-6) .


Lettura Patristica
San Giovanni  Crisostomo
Comment. in Matth., 48, 1


1. Il profeta è disprezzato nella sua patria

       Venuto, dunque, nel suo paese, Gesù si astiene dai miracoli per non infiammare ulteriormente l’invidia dei suoi compaesani e non doverli condannare più duramente per la loro testarda incredulità; ma, in cambio, espone loro la sua dottrina, che, certo, non merita minor ammirazione dei miracoli. Tuttavia, costoro, completamente insensati, mentre dovrebbero ascoltare con intenso stupore e ammirare la forza delle sue parole, al contrario lo disprezzano per l’umile condizione di colui che ritengono suo padre. Eppure hanno molti esempi, verificatisi nei secoli precedenti, di figli illustri nati da padri oscuri. Così David era figlio di Jesse, umile agricoltore; Amos era figlio di un guardiano di capre e pastore lui stesso; Mosè, il legislatore, aveva un padre assai meno illustre di lui. Dovrebbero, quindi, onorare e ammirare Gesù proprio per questo fatto: che, pur sembrando loro di umile origine, insegna quella dottrina. È ben evidente così che la sua sapienza non deriva da studio, ma dalla grazia divina. Invece lo disprezzano per ciò che dovrebbero, al contrario, ammirare. D’altra parte Gesù frequenta le sinagoghe per evitare di essere accusato come solitario e nemico della convivenza umana, il che sarebbe accaduto se egli fosse vissuto sempre nel deserto. "Ed essi ne restavano stupiti e dicevano: Donde viene a costui questa sapienza e questa potenza?" (Mt 13,54), chiamando potenza la sua facoltà di operare miracoli o anche la sua stessa sapienza. "Non è questi il figlio del falegname?" (Mt 13,55). Quindi più grande il prodigio, e maggiore lo stupore. "Sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe Simone e Giuda? E le sorelle sue non sono tutte qui fra noi? Donde mai gli viene tutto questo? E si scandalizzavano di lui" (Mt 13,55-57). Vedete che Gesù parla proprio a Nazaret? Non sono suoi fratelli, dicono, il tale e il tal altro? E che importa? Questa dovrebbe essere la ragione più valida per credere in lui. Purtroppo l’invidia è una passione malvagia e spesso combatte e contraddice se stessa. Ciò che è straordinario, sorprendente e suscettibile di attirarli a Gesù, questo invece li scandalizza.

       Che risponde loro Cristo? «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e nella propria sua casa». "E non operò molti miracoli, a causa della loro incredulità" (Mt 13,57-58). Anche Luca da parte sua riferisce che non fece lì molti miracoli (Lc 4,16-30). Ma, mi direte voi, sarebbe stato naturale e logico farli. Se Gesù aveva la possibilità di suscitare ammirazione - come in realtà avvenne -, per qual motivo non operava miracoli? Sta di fatto che egli non aveva di mira la propria gloria, ma il loro bene. Tuttavia poiché questo bene non si realizzava, Cristo trascurò la propria manifestazione per non aumentare il castigo dei suoi compaesani. Osservate dopo quanto tempo e dopo quale dimostrazione di miracoli egli torna presso di loro: ma neppur così lo accolgono, anzi si accendono più vivamente di invidia. E perché allora, voi chiederete, Gesù ha operato qualche miracolo? L’ha fatto perché non gli dicessero: "Medico, cura te stesso" (Lc 4,23), e non affermassero che egli era avversario e nemico loro e disprezzava i suoi concittadini; non voleva infine sentir dire: Se avesse operato miracoli, noi pure avremmo creduto. Per questo egli opera qualche miracolo e in seguito si ritira, compiendo, da una parte, ciò che spetta a lui ed evitando dall’altra di condannarli più severamente. Ebbene, osservate ora la potenza delle parole di Cristo: malgrado fossero dominati dall’invidia, quelli tuttavia restano stupiti. E come nelle sue opere non biasimano l’atto in se stesso, ma immaginano cause inesistenti dicendo: «In virtù di Beelzebul caccia i demoni», così anche ora non condannano la sua dottrina, ma ricorrono, per disprezzarlo, all’umiltà della sua origine. Ammirate d’altra parte la moderazione del Maestro: egli non li biasima con violenza, ma dichiara con molta mitezza: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria», e non si ferma qui, ma aggiunge: «e nella sua stessa casa», alludendo, io credo, con queste ultime parole ai suoi parenti.


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