Domenica
XIV del Tempo Ordinario – Anno B – 5 luglio 2015
Rito
Romano
Ez
2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
Rito Ambrosiano
Es
3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
VI
Domenica dopo Pentecoste.
1)
Il quotidiano e l’eroico.
Il
Vangelo di questa domenica ci mostra il conflitto perenne tra il
quotidiano e l’eroico. All’inizio le notizie che arrivavano a
Nazareth circa le parole e i prodigi del “compaesano” Gesù
stupirono i nazaretani, immettendo un “di più” dentro la
normalità della loro vita. Poi l’ordinario, il quotidiano impose
di nuovo la dittatura della banalità.
Infatti,
un giorno, che avrebbe potuto essere un bel giorno, Gesù ritornò a
Nazareth. Vi tornò non da solo, ma con i suoi discepoli e preceduto
dalla fama dei suoi miracoli e dei suoi insegnamenti. Vi tornò
quindi come maestro e profeta, che dice parole che portano la buona
novella della libertà. E i suoi compaesani che lo avevano visto
tutti i giorni camminare per le vie del paese, quel sabato lo videro
entrare in sinagoga e lo ascoltarono predicare. Diceva parole nuove,
che riscuotevano interesse e muovevano l’attenzione, che
risvegliavano i desideri e rispondeva alle attese. Parole che
destavano stupore e che invitavano a lasciare il vecchio modo di
pensare e di agire: lo stupore è la risposta “normale” alla
parola di Gesù, sempre, anche quando questa Parola la conosciamo,
l’abbiamo meditata, la evochiamo tra le cose familiari della
memoria. Stupore che nasce spontaneamente quando si è aperti
all’ascolto. Purtroppo gli ascoltatori di allora (ma anche quelli
di oggi) soffocarono lo stupore con i pregiudizi di chi si era
abituato a vedere la “normalità” di Cristo nei 30 anni di vita
privata.
Quel
giorno a Nazareth la liberazione era ad un passo, la libertà non era
mai stata così vicina, aveva il volto di quel loro amico, e il
desiderio stringente di una vita nuova, dell’avvento del Messia
liberatore, di quella novità di vita tante volte sfuggita ma sempre
di nuovo promessa dal Cielo, quel desiderio inesausto aveva acceso lo
stupore e la gioia, e il cuore stava acconsentendo,
affermando che sì, era Lui, era il Messia, quell’oggi
era la svolta, il compimento d'ogni speranza.
E
così, quel sabato a Nazareth invece di essere un
sabato bellissimo, di gioia e di stupore per le parole di pace,
verità e perdono di Gesù, divenne il giorno del rifiuto. E non ci
fu nessun miracolo.
C’è
una prima importante lezione in questo breve passo del Vangelo: Dio
non si impone con forza, ma si propone con delicatezza. Non fa
violenza alla nostra mente e al nostro cuore, che devono restare
aperti e accogliere Cristo e la sua parola “liberante”, senza
lasciarsi vincere dalla noia del quotidiano. Quindi, dobbiamo essere
vigilanti, attenti, tesi alla novità di Dio che viene a noi con
delicatezza e che con discrezione bussa alla porta del nostro vivere
quotidiano.
Il
Vangelo di oggi ci insegna che occorre non soffocare la capacità di
stupore della nostra mente e del nostro cuore davanti a un Dio che è
l’Emmanuele, quindi il Dio sempre con noi tutti i giorni. Non
dobbiamo cedere all’abitudinarietà, alla routine, all’accecamento
che viene dal quotidiano banale. Dobbiamo tener vivo lo stupore che è
un giudizio, che ci fa dire: “Gesù è Dio e vale la pena di
seguirLo” e che diventa un attaccamento ad una Presenza la
quale, essa sola, ha parole di vita eterna.
2)
L’incredulità è sconfitta dallo stupore e dalla pietà1
Per
indicare il luogo della visita di Gesù a Nazareth San Marco non
scrisse “paese”, ma “patria”
2
(Mc
6,1),
parola più ricca di evocazioni affettive e più ampia di
significato. Purtroppo Gesù non fu riconosciuto come Messia proprio
nella sua patria, non fu riconosciuto da chi pensava di conoscerlo da
sempre. Cristo Gesù, Figlio dell’uomo, vera e piena rivelazione
del Padre, non fu riconosciuto, e seguì il destino di tanti altri
profeti: “Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero…” (Gv
1,11). Non riconobbero la sua eccezionalità, si fermarono a quei
pochi e modesti dati anagrafici che da decenni conoscevano: era il
figlio di Maria e dell’artigiano Giuseppe e anche lui artigiano,
cugino di Giacomo, Ioses, Simone. Gesù arrivò a Nazareth, la sua
patria, tra la gente che lo aveva visto crescere, giocare e lavorare.
Lì dove c’erano sua madre, la sua casa, gli amici d’infanzia e
di gioventù, i parenti più stretti.
Per
il Vangelo l’incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non
è questo il caso dei nazaretani), ma l’incapacità di riconoscere
Dio nell’umiltà dell'uomo Gesù, il suo appello nella voce di un
uomo che sembra essere “troppo e solamente” uomo.
Il
Salvatore si propone con mitezza e umiltà tali da non imporsi. Il
Figlio di Dio si rivela nella semplicità e povertà del suo essere
uomo come tanti, e, tuttavia, è egli stesso Dio, la cui presenza
deve esser colta nelle situazioni esistenziali ordinarie, nella
quotidianità della vita, nel volto di ogni uomo o donna, per i quali
Lui si è incarnato.
Lui
è il solo modello da imitare. Da Lui dobbiamo imparare tutti la
mitezza e l’umiltà. Con la mitezza dichiariamo il nostro Dio
unico Giudice e Signore della nostra vita, ponendola interamente
nelle sue mani.
Con l’umiltà
accogliamo la sua volontà come unica e sola volontà che deve
guidare la nostra storia anche nei più piccoli ed insignificanti
dettagli. Imparando da Lui e prendendo su noi la sua Legge, il suo
giogo che è un giogo di carità e grande misericordia, pietà e
infinita compassione, perdono e pietà, la nostra anima trova
ristoro. Entra nella vera pace. Sente ritornare in lui tutta la
pienezza del suo essere.
La
seconda lezione di questo brano domenicale di San Marco è che per
credere ci vuole la pietà, intesa come consuetudine di amore a
Cristo.
Se
i presenti si fossero fermati a sentire la risposta del loro cuore
alle parole di Gesù che era arrivato di nuovo da loro per pietà,
avrebbero colto la straordinarietà della Sua presenza divina.
Avrebbero riconosciuto in Gesù il Messia, se avessero risposto alla
pietà di Cristo con una pratica di pietà. “La pietà –come ben
scriveva Giuseppe de Luca- altro non è che la consuetudine d’amore
con Dio… La pietà altro non è che la vita di preghiera (per
questo le preghiere sono chiamate anche pratiche di pietà, senza
dimenticare il primato della Liturgia) vale a dire il respiro di Dio
in noi”. Quindi, è l’amore che rende la consuetudine non una
sclerosi ma una forma stabile di novità.
Un
esempio di questa forma stabile di vita nuova, perché vita di
comunione in e con Cristo nella Chiesa, è dato dalle Vergini
consacrate nel mondo. Donandosi pienamente e unicamente a Cristo,
queste donne mostrano che è possibile avere i suoi stessi sentimenti
(cfr Fil 2, 5) e portare sulle strade del mondo il Cuore di
Gesù. “Queste nostre sorelle, che oggi ricevono la consacrazione
verginale dalla madre Chiesa, provengono dal popolo santo di Dio,
dalle vostre famiglie: sono figlie e sorelle, a noi congiunte da una
consuetudine di lavoro e di vita. Il Signore le ha chiamate per
unirle più intimamente a sé e metterle al servizio della Chiesa e
dell’umanità. La loro consacrazione infatti le sospinge a cercar
ardentemente, ciascuna secondo il proprio dono, l’espansione del
regno di Dio e il rinnovamento del mondo nello spirito del
Vangelo”(Progetto di omelia nel Rito di Consacrazione delle
Vergini, n 26).
La
vita nuova che ci è comunicata nel battesimo è vissuta dalle
Consacrate nel modo come l’amicizia di comunione verginale per una
vita nuova fondata non sul sangue e sulla carne, ma sulla grazia.
1
Nel
19° secolo il termine pietà non si identificò con devozione e
spiritualità. Un esteso movimento di fondazioni e di strutture
religiose, lo propose piuttosto con il significato di intensa unione
con Dio, dalla quale provenivano l’amore per il prossimo e tutte
le virtù cristiane. Le vie della pietà furono la preghiera, la
meditazione, la comunione frequente, la devozione eucaristica e
mariana, il sostegno dei deboli.
Nel
20° secolo il termine fu ripreso da don Giuseppe De Luca per
indicare la relazione d’amore che unisce gli uomini a Dio. In
periodi particolarmente tragici come quello della guerra, la pietà
ebbe accenti marcati dalle responsabilità verso i sofferenti.
Con
il Concilio Vaticano II (1962-1965), le pratiche e gli esercizi di
pietà furono riproposti alla luce della fede e della carità, nella
prospettiva dell’attività missionaria e dell’apostolato. In
particolare, la pietà popolare fu considerata un tesoro spirituale
prezioso e fu congiunta alla liturgia. Fu apprezzata come forma
genuina della ricerca di Dio.
2
“Gesù
partì
di là e venne nella sua patria
e i
suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare
nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano:
«Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli
è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non
è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo,
di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da
noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un
profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi
parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio,
ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava
della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno,
insegnando” (Mc
6,1-6) .
Lettura
Patristica
San Giovanni
Crisostomo
Comment. in Matth.,
48, 1
1. Il profeta è
disprezzato nella sua patria
Venuto,
dunque, nel suo paese, Gesù si astiene dai miracoli per non
infiammare ulteriormente l’invidia dei suoi compaesani e non
doverli condannare più duramente per la loro testarda incredulità;
ma, in cambio, espone loro la sua dottrina, che, certo, non merita
minor ammirazione dei miracoli. Tuttavia, costoro, completamente
insensati, mentre dovrebbero ascoltare con intenso stupore e ammirare
la forza delle sue parole, al contrario lo disprezzano per l’umile
condizione di colui che ritengono suo padre. Eppure hanno molti
esempi, verificatisi nei secoli precedenti, di figli illustri nati da
padri oscuri. Così David era figlio di Jesse, umile agricoltore;
Amos era figlio di un guardiano di capre e pastore lui stesso; Mosè,
il legislatore, aveva un padre assai meno illustre di lui.
Dovrebbero, quindi, onorare e ammirare Gesù proprio per questo
fatto: che, pur sembrando loro di umile origine, insegna quella
dottrina. È ben evidente così che la sua sapienza non deriva da
studio, ma dalla grazia divina. Invece lo disprezzano per ciò che
dovrebbero, al contrario, ammirare. D’altra parte Gesù frequenta
le sinagoghe per evitare di essere accusato come solitario e nemico
della convivenza umana, il che sarebbe accaduto se egli fosse vissuto
sempre nel deserto. "Ed
essi ne restavano stupiti e dicevano: Donde viene a costui questa
sapienza e questa potenza?"
(Mt
13,54),
chiamando potenza la sua facoltà di operare miracoli o anche la sua
stessa sapienza. "Non
è questi il figlio del falegname?"
(Mt
13,55).
Quindi più grande il prodigio, e maggiore lo stupore. "Sua
madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe Simone
e Giuda? E le sorelle sue non sono tutte qui fra noi? Donde mai gli
viene tutto questo? E si scandalizzavano di lui"
(Mt
13,55-57).
Vedete che Gesù parla proprio a Nazaret? Non sono suoi fratelli,
dicono, il tale e il tal altro? E che importa? Questa dovrebbe essere
la ragione più valida per credere in lui. Purtroppo l’invidia è
una passione malvagia e spesso combatte e contraddice se stessa. Ciò
che è straordinario, sorprendente e suscettibile di attirarli a
Gesù, questo invece li scandalizza.
Che
risponde loro Cristo? «Un
profeta non è disprezzato se non nella sua patria e nella propria
sua casa».
"E
non operò molti miracoli, a causa della loro incredulità"
(Mt
13,57-58).
Anche Luca da parte sua riferisce che non fece lì molti miracoli (Lc
4,16-30).
Ma, mi direte voi, sarebbe stato naturale e logico farli. Se Gesù
aveva la possibilità di suscitare ammirazione - come in realtà
avvenne -, per qual motivo non operava miracoli? Sta di fatto che
egli non aveva di mira la propria gloria, ma il loro bene. Tuttavia
poiché questo bene non si realizzava, Cristo trascurò la propria
manifestazione per non aumentare il castigo dei suoi compaesani.
Osservate dopo quanto tempo e dopo quale dimostrazione di miracoli
egli torna presso di loro: ma neppur così lo accolgono, anzi si
accendono più vivamente di invidia. E perché allora, voi
chiederete, Gesù ha operato qualche miracolo? L’ha fatto perché
non gli dicessero: "Medico,
cura te stesso"
(Lc
4,23),
e non affermassero che egli era avversario e nemico loro e
disprezzava i suoi concittadini; non voleva infine sentir dire: Se
avesse operato miracoli, noi pure avremmo creduto. Per questo egli
opera qualche miracolo e in seguito si ritira, compiendo, da una
parte, ciò che spetta a lui ed evitando dall’altra di condannarli
più severamente. Ebbene, osservate ora la potenza delle parole di
Cristo: malgrado fossero dominati dall’invidia, quelli tuttavia
restano stupiti. E come nelle sue opere non biasimano l’atto in se
stesso, ma immaginano cause inesistenti dicendo: «In virtù di
Beelzebul caccia i demoni», così anche ora non condannano la sua
dottrina, ma ricorrono, per disprezzarlo, all’umiltà della sua
origine. Ammirate d’altra parte la moderazione del Maestro: egli
non li biasima con violenza, ma dichiara con molta mitezza: «Un
profeta non è disprezzato se non nella sua patria», e non si ferma
qui, ma aggiunge: «e nella sua stessa casa», alludendo, io credo,
con queste ultime parole ai suoi parenti.
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