Domenica
XVIII del Tempo Ordinario – Anno B – 2 agosto 2015
Rito
Romano
Es
16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Rito
Ambrosiano
X
Domenica dopo Pentecoste
1) Pane offerto
per amore.
Il Vangelo di domenica
scorsa ci ha proposto il miracolo della moltiplicazione dei pani e
dei pesci. Contemplando Gesù che dà il pane a una moltitudine di
persone, abbiamo imparato da Lui a condividere il cibo con
compassione.
Il Vangelo di oggi ci
mostra Gesù non che dà il pane, ma che si dà come Pane.
Cristo è il Pane vero, che dà la vita per sempre e permette di
mettere in pratica la legge della vita, che è il dono di sé: “Se
il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia
la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv
12, 23-26). “Io sono il buon Pastore...; e offro la vita per le
pecore” (Gv 10,14s).
Oggi, Gesù ci ripete
l’espressione più alta della sua volontà di donazione: “Io sono
il pane di vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me
non avrà più sete... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue
ha la vita eterna... Perché la mia carne è vero cibo e il mio
sangue vera bevanda” (Gv 6, 32.35.54.55). E nella S. Messa
si ripetono le più grandi parole di Gesù: “Prendete e mangiatene
tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi” (cfr.
Mt 26,26; Lc 22,19). Dunque, la nostra esistenza
cristiana, come quella di Gesù, va vissuta come offerta d’amore,
che arriva fino al sacrificio completo di se stessi per servire il
mondo.
A questo riguardo San
Paolo scrive: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di
Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio1;
è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla
mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra
mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a
Lui gradito e perfetto” (Rm 12,18-21). Queste parole
possono sembrare paradossali, perché il sacrificio esige di norma la
morte della vittima. San Paolo, invece, afferma che chi si sacrifica
vive e che questo modo nuovo di vivere è “il vostro culto
spirituale”.
Inoltre definisce così
questo nuovo modo di vivere: Con questa espressione l’Apostolo non
indica sacrificio meno concreto dell’antico, anzi vuole parlare di
un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo
stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione e di cuore,
diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Con queste
parole l’Apostolo delle Genti ci aiuta a capire o ad approfondire
il significato e il valore dell’offerta della nostra vita a Dio,
che è la base della nostra esistenza cristiana. L’esortazione
a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti,
in Rm
6,
13
San Paolo invita a “presentare voi stessi”. Del resto,
l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano
coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1
Cor
6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza
quotidiana. In effetti, offrire noi
stessi come sacrificio
vivente, santo e gradito a Dio,
non vuol dire tanto soffrire o morire o fare qualcosa di particolare,
quanto donare se stessi alla carità di Dio, vivere come Dio vuole,
consacrare a Dio i nostri corpi, ma anche i nostri sentimenti, le
persone che amiamo e il lavoro che facciamo. Vuol dire lasciar
entrare Dio nella nostra vita e dare così un valore profondo a tutto
ciò che facciamo.
Se
vivere l’offerta vuol dire celebrare un culto spirituale, allora
non potremo più vivere l’Eucaristia come qualcosa di staccato
dalla nostra vita, da ciò che facciamo nella giornata. Al contrario,
la nostra giornata dovrebbe essere un prolungamento dell’Eucaristia,
vivendo eucaristicamente.
Come?
Dobbiamo
semplicemente imparare a fare nella nostra giornata gli stessi passi
che siamo chiamati a fare in ogni Eucaristia. Essa è sacrificio di
comunione che permette di fare la comunione, ricevendo la presenza di
Cristo in noi. Ciò implica che i nostri cuori siano aperti e che noi
portiamo all’altare il “sì” del nostro amore. E’ un “sì”
(= Fiat, Amen) che porta all’altare la nostra offerta e l’offerta
di noi stessi all’Amore. Questo aprirci per vivere un incontro
profondo, reale con Gesù nella Messa, ci permette di aprirci agli
altri, di incontrare gli altri in Dio.
Il
vivere il momento della consacrazione Eucaristica, ci insegna a
consacrare a Dio ogni nostro lavoro, ogni incontro, ogni pensiero o
progetto. Poi, il ricevere la benedizione di Dio deve risvegliare in
noi la chiamata ad essere benedizione. Ognuno di noi dovrebbe saper
trasmettere la benedizione alle persone, che incontriamo ogni
giorno. Se riusciremo a fare questi passi nella vita quotidiana,
allora sperimenteremo la bellezza dell’offrirci insieme con Gesù
nella Santa Messa, e sentiremo che realmente Gesù eleva al Padre
tutto quello che abbiamo vissuto e cercato di offrire nella nostra
giornata.
2) Imitare
l’Ostia, Pane di Vita e di Misericordia.
Se si vuole
approfondire ancora un po’ l’invito di San Paolo ad offrire i
nostri corpi in sacrificio gradito a Dio, possiamo meditare il
passaggio di San Gregorio Palamas, che alla domanda quando viviamo
questa offerta risponde: “Quando i nostri occhi hanno uno sguardo
mite, e ci attirano e ci trasmettono la misericordia dall’alto.
Quando le nostre orecchie sono attente agli insegnamenti divini, non
solo per ascoltarli, ma per ricordarli e metterli in pratica (cfr Sal
102,18). Quando la nostra lingua, le nostre mani e i nostri piedi
sono al servizio della volontà divina”.
Se poi attingiamo dal
patrimonio dei teologi latini, troviamo San Tommaso d’Aquino che ci
offre uno spunto molto bello per approfondire la nostra imitazione
dell’Ostia: “La piccolezza dell’Ostia significa umiltà, la sua
rotondità l’ubbidienza perfetta, la sua sottigliezza la sobrietà
virtuosa, il suo biancore la purezza, l’assenza di lievito la
benevolenza, la cottura la pazienza e la carità” (Sermone per
il Corpus Domini).
E’ evidente, che
quello che Gesù propone non è semplicemente una devozione al
Santissimo Sacramento. Propone la vita del Figlio, che è ciò che
celebriamo nel Santo Sacramento del Pane di vita. Questo Pane è
segno dell’amore del Padre per tutti i figli, è segno efficace del
corpo del Figlio donato a tutti i fratelli. E’ segno della nostra
vita condivisa con tutti, ed è lì che vivi il pane, ed è questo
il cibo che non perisce.
Per spiegare
l’importanza di mangiare questo Pane di misericordia, per diventare
ciò che mangiamo e per poterci offrire insieme con Gesù, è utile
prendere l’esempio di ciò che accade a un bambino che ha commesso
un errore e nei cui occhi domina non lui che ha rotto qualche cosa,
ma la madre che lo guarda sorridendo e il padre che lo prende in
braccio. Più che guardare a se stessi ed alla propria fragilità di
peccatori, è più giusto guardare a Cristo che si offre a noi come
Pane di Vita, ricco di misericordia. Più che guardare a noi stessi,
è più giusto voltarsi verso (=con-vertirsi) Cristo, che perdona e
nutre donandosi come Pane vero.
La grandezza
dell’uomo, immagine di chi lo ha creato, è di essere dono. La
legge dell’esistenza umana, come di quella divina, è l’amore
nella sua realtà dinamica che è l’offerta, il dono di sé. Come
Gesù aveva detto: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà,
ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,
24). Ci viene così sottolineata la paradossalità di questa legge:
la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno lo accetta,
tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza.
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate nel mondo. Queste
donne con l’offerta completa della loro vita mediante la verginità
consacrata annunciano al mondo intero che Cristo può davvero colmare
tutta la loro (e nostra) vita. Lui è il divino che fa fiorire
l'umano. Il Pane che contiene tutto ciò che serve a mantenere la
vita: amore, senso, libertà, coraggio, pace, bellezza, e a farla
durare per l’eternità. Per questo il Vescovo durante la preghiera
di consacrazione eleva questa invocazione: “O Dio, che ti compiaci
di abitare come in un tempio nel corpo delle persone caste e
prediligi le anime pure e incontaminate …Volgi lo sguardo, o
Signore, su queste figlie che nelle tue mani depongono il proposito
di verginità di cui sei l’ispiratore, per farne a te un’offerta
devota e pura” (Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 64).
Esse mostrano con la
vita che credere è come mangiare un pane, va gustato con bocca, va
custodito nell’intimo del cuore e assimilato perché si dirami per
tutto l’essere. Vivendo l’imitazione di Gesù come ostie vergini
mostrano che Gesù è un corpo che santifica e si trasforma in cuore,
calore, energia, pensieri, sentimenti, canto. Il cristianesimo non è
un corpo dottrinale, cui aggiungere sempre qualche nuova definizione
dogmatica o morale, ma è una vita divina da assimilare, l’Amore da
far entrare, perché giunga a maturazione l’uomo celeste che è in
noi, affinché sboccino amore e libertà, nel tempo e nell’eternità.
1
San Paolo
qualifica questo modo di vivere che è il sacrificio con questi tre
aggettivi. Il primo dei quali – vivente
– esprime una vitalità. Il secondo – santo
– ricorda l’idea di una santità legata non a luoghi o ad
oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – gradito
a Dio
– che richiama l’espressione biblica del sacrificio “in odore
di soavità” (cfr.
1,13.17;
; ; ecc.).
Lettura Patristica
Agostino (+ 430),
Comment. in Ioan.,
26, 2.4.10.13
Gli
dissero allora: Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Egli
li aveva esortati: Procuratevi il nutrimento che non perisce, ma che
dura per la vita eterna. Ed essi rispondono: Che cosa dobbiamo fare?,
cioè con quali opere possiamo adempiere a questo precetto? Rispose
loro Gesù: Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha
mandato (Jn
6,28).
Questo, dunque, significa mangiare non il cibo che perisce, ma quello
che dura per la vita eterna. A che serve preparare i denti e lo
stomaco? Credi, e mangerai. La fede si distingue dalle opere, come
dice l'Apostolo: L'uomo viene giustificato dalla fede, senza le opere
(Rm
3,28-29).
Esistono opere prive della fede in Cristo, che apparentemente sono
buone: in realtà non lo sono perché non sono riferite a quel fine
che le rende buone: Il fine della legge è Cristo, per la giustizia
di ognuno che crede (Rm
10,4).
Il Signore non ha voluto distinguere la fede dalle opere, ma ha
definito la fede stessa un'opera. E' fede, infatti, quella che opera
mediante l'amore (Ga
5,6).
E non ha detto: Questa è l'opera vostra, ma ha detto: Questa è
l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato: in modo che
colui che si gloria si glori nel Signore (1Co
1,31).
Ora, siccome egli li invitava a credere, essi cercavano ancora dei
segni per credere. Guarda se non è vero che i Giudei cercano dei
segni. Gli dissero: Quale segno dunque fai tu perché vediamo e
possiamo crederti? Quale opera compi (Jn
6,30)?
Era dunque poco essere stati nutriti con cinque pani? Essi
apprezzavano questo, ma essi a quel nutrimento preferivano la manna
discesa dal cielo. Eppure il Signore si dichiarava apertamente
superiore a Mosè. Mosè non aveva mai osato promettere un nutrimento
che non perisce, ma che dura per la vita eterna. Il Signore promette
qualcosa di più di Mosè. Si, per mezzo di Mosè era stato promesso
un regno, una terra in cui scorreva latte e miele, una pace
temporale, abbondanza di figli, la salute del corpo e tutti gli altri
beni temporali. Ma tutti questi beni temporali erano figura dei beni
spirituali. Ed erano questi, in definitiva, i beni che il Vecchio
Testamento prometteva all'uomo vecchio. I Giudei dunque consideravano
le promesse di Mosè e quelle di Gesù. Mosè prometteva lo stomaco
pieno qui in terra, ma pieno di cibo che perisce; Cristo prometteva
il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna. Vedevano che
egli prometteva di più, ma erano tuttora incapaci di vedere che
stava compiendo opere maggiori. Pensavano alle opere che Mosè aveva
compiuto e pretendevano opere ancora maggiori da colui che faceva
delle promesse così grandiose. Che opere fai perché ti crediamo? Se
vuoi renderti conto che essi confrontavano i miracoli di Mosè con
quelli di Gesù, e, al confronto, consideravano inferiori le opere di
Gesù, ascolta che cosa gli dicono: I nostri padri nel deserto
mangiarono la manna. Ma che cos'è la manna? Forse non ne avete la
stima che merita: ... Come sta scritto: Ha dato loro da mangiare un
pane del cielo (Jn
6,31
Ps
77,24).
Per mezzo di Mosè i nostri padri hanno ricevuto un pane venuto dal
cielo, e Mosè non ha detto loro: Procuratevi un pane che non
perisce. Tu prometti un cibo che non perisce ma che dura per la vita
eterna, e non compi opere simili a quelle di Mosè. Egli non ha dato
pani di orzo, ma ha dato un pane venuto dal cielo.
13. Rispose loro Gesù:
In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal
cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo. Vero
pane, infatti, è quello che discende dal cielo e dà la vita al
mondo (Jn
6,32-33).
Vero pane è dunque quello che dà la vita al mondo; ed è quel cibo
di cui poco prima ho parlato: Procuratevi il cibo che non perisce, ma
che dura per la vita eterna. La manna era simbolo di questo cibo, e
tutte quelle cose erano segni che si riferivano a me. Vi siete
attaccati ai segni che si riferivano a me, e rifiutate me che quei
segni annunciavano? Non fu Mosè a dare il pane del cielo: è Dio che
lo dà. Ma quale pane? Forse la manna? No, ma il pane di cui la manna
era un segno, cioè lo stesso Signore Gesù. Il Padre mio vi dà il
vero pane, perché il pane di Dio è quello che discende dal cielo e
dà la vita al mondo. Allora gli dissero: Signore, donaci sempre di
questo pane (Jn
6,32-34).
Come la Samaritana, alla quale Gesù aveva detto: Chi beve di
quest'acqua, non avrà più sete, li per li aveva preso la frase in
senso materiale, ma desiderosa di soddisfare un bisogno, aveva
risposto: Dammi, o Signore, di quest'acqua (Jn
4,13-15),
così anche questi dicono: Donaci, o Signore, di questo pane che ci
ristori, e non ci manchi mai.