venerdì 24 aprile 2015

Il Pastore vero che dà la vita

IV Domenica di Pasqua - Anno B – 26 aprile 2015
 
Rito Romano
At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

Rito Ambrosiano
At 20,7-12; Sal 29; 1Tim 4,22-16; Gv 10,27-30


1) Cristo, Pastore buono1 e Uomo nuovo.
In ogni persona umana c’è il desiderio di sconfiggere la morte e di vivere per sempre. Il Cristo risorto si pone come risposta vera e concreta a questo desiderio e il brano del Vangelo Gv 10, 11 – 18) di oggi ci insegna che se vogliamo la vita dobbiamo seguire il Pastore buono, che è Vita e che la dona incessantemente.
Infatti in questo brano, Gesù stesso non solo spiega il significato dell’immagine del buon pastore, descrivendone l’identità (vv. 11-13) e la conoscenza esistente tra il pastore e il suo gregge (vv. 13-16), ma soprattutto sottolineando il gesto più bello: il dono della vita. Per cinque volte (Gv 10, 11.15.17.18) Gesù rivela di essere il Pastore per eccellenza mediante il dono della vita, che è offerta completamente .
Con l’espressione “donare la vita” Gesù non intende solamente la sua morte in Croce per noi, anche perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita va inteso, in primo luogo, nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del grembo di donna che dà vita al bambino; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Un dono di vita per noi, che Cristo ama al punto tale da sacrificare la vita sulla croce.
Dunque quando Cristo afferma: “Offro la vita” significa: “Vi do il mio modo di essere e di amare”. Quindi ci propone un modello di “uomo nuovo” che non è frutto di un’astrazione: è lui stesso, il Figlio che si sa amato dal Padre, che ama i fratelli e propone questa libertà di amare e di servire. Gli altri – dice Gesù - sono semplicemente ladri e briganti, prendono la vita delle pecore, non la danno a loro.
Il pastore buono è il pastore che ama. L’uomo buono è l’uomo che ama, imitando il buon Pastore.
Definendo se stesso come “buon pastore” e chiedendo di seguirlo, Gesù indica un modello di uomo nuovo che, da una parte, è disarmante e disarmato, dall’altro è pieno di coraggio perché affronta i lupi e la croce. Gesù è il pastore bello (che in greco si dice “kalòs” e che è stato tradotto con “buono”), perché la bellezza di Lui pastore è il fascino che hanno la sua bontà e il suo coraggio.
Con quale bellezza Cristo ci attrae? Con che cosa ci avvince il pastore bello, come ci fa suoi? Con un verbo ripetuto cinque volte: io dono la mia vita. Gesù ci offre questo scambio: “la mia vita per la tua”. Il Dio incarnato è attraente e Sant’Agostino spiega “Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo”. Sempre Sant’’Agostino riguardo alla bellezza di Gesù Cristo scrive: “Perché anche nella croce aveva bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini; e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (Cor 1,23-25) […] Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello il Verbo nato fanciullo […]. È bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita e bello nel riprenderla, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo […]. Suprema e vera bellezza è la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto, ovunque è bello. Venga a noi per farsi contemplare dagli occhi dello spirito”. 

2) La vocazione è dono per condividere.
Gesù Cristo ha ricevuto dal Padre questo comando di “donare”, che fa la vita bella e lieta: il dono fa la vita lieta perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” e perché con il dono non si è mai soli, si vive nell’esperienza gioiosa della condivisione e della comunione.
Ma il buon Pastore, che è bello e coraggioso, non ha semplicemente un ordine da eseguire ha un movente: l’amore del Padre e per noi. Questa carità è ciò che lo muove. Per Lui ogni essere umano è importante e per ciò dà la sua vita. Agli apostoli che sulla barca sballottata dal mare in tempesta Gli gridano: “Signore, non ti importa che moriamo?” il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: “Sì, mi importa di voi, mi importa la vostra vita, voi siete importanti per me”. In un certo senso, ripete a ciascuno noi: “Mi importano i passeri del cielo, ma tu vali più di molti passeri. Mi importano i gigli del campo, ma tu sei molto di più. Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti in cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l'assenza di Dio, turbati per il suo silenzio. Questo comandamento ho appreso dal Padre: la vita è dono. Per stare bene l’uomo deve dare. Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora.
La vocazione è a vivere Cristo e diventare come Lui dono. Per salvare gli uomini e per insegnare loro il vero amore, il Figlio Dio si è “abbassato” fino a loro, e proprio in questo “abbassamento” ha offerto l'agape, cioè l'amore non possessivo ma “donativo”.
E’ bello dire di sì a Dio che chiama. E' vero che da una parte occorre rinunciare a se stesi e darGli tutto, ma se ne riceve in cambio la vita eterna e cento volte tanto di tutto quello che si è lasciato per seguire Lui, il Signore.
La vocazione è un esodo, come ha recentemente ricordato Papa Francesco, da se stessi verso Dio in compagnia dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Alla radice di ogni vocazione cristiana – spiega il Papa – c’è proprio l’uscita “dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo”. Un’uscita che non rappresenta però “un disprezzo della propria vita del proprio sentire e della propria umanità”, anzi. La vocazione – spiega Papa Francesco citando l’enciclica “Deus Caritas est” di Benedetto XVI – è una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, innescando “un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé”.
Con l’offerta totale di se stesse, le Vergini consacrate nel mondo si abbandonano totalmente nel cuore di Cristo, loro Sposo, e questo amore “oblativo” testimoniano. Esse mostrano in modo particolare che il dono ricevuto diventa un dono offerto per la lode a Dio e la salvezza del mondo. Come lo ricorda il RCV: “La verginità consacrata manifesta più compiutamente l’amore verginale di Cristo per la Chiesa sua Sposa e la fecondità soprannaturale di questo spirituale unione”. Perché una vita non donata è arida, una vita donata è feconda di bene.
Infine è importante ricordare che questo vita donata nella spiritualità delle vergini consacrate nell’Ordo Virginum ha tratti caratteristici specifici. Questi tratti sono collegati almeno a tre immagini che la tradizione ha utilizzato per delineare la figura spirituale delle vergini consacrate e che il Rito di consacrazione tratteggia sul modello della Chiesa sposa, sorella e madre.
La figura della sposa rappresenta l’esperienza dell’unione intima e indissolubile con Cristo. La figura della sorella raccomanda l’impegno della condivisione con cui le vergini consacrate si pongono all’interno del contesto ecclesiale e sociale; la figura della madre allude alla fecondità della consacrazione che trova in Maria un’icona splendida e illuminante.

1 Nel Vangelo di oggi, Gesù si definisce per la prima volta in modo esplicito come il “buon pastore”. Il termine «buono» (così è tradotto l’aggettivo greco kalos, che vuol dire bello) è inteso nel senso di “generoso, ideale, genuino, vero”: egli è il pastore ideale annunziato nelle Scritture. Questo appellativo gli compete perché egli “(de)pone la vita per le sue pecore”. L’espressione viene ripetuta con qualche variazione ben cinque volte nel brano (Gv 10, 11.15.17.18). Il verbo “(de)porre” (tithêmi) è usato nel senso di offrire in modo consapevole e libero. Gesù (de)pone/(es)pone la vita ‘per’ (hyper) le sue pecore. Questa frase richiama dove si dice che Gesù dà “la sua vita come riscatto ‘per’ (anti) molti”. Ma, mentre la preposizione hyper, usata da Giovanni, significa espressamente «in favore di», in Marco l’uso di anti (al posto di) dà adito all’idea di sostituzione, anche se nel greco ellenistico una distinzione netta tra preposizioni simili era scomparsa: in pratica le due espressioni si equivalgono. Inoltre il testo greco usa la parola “psyche”, che è tradotta con “vita”, ma letteralmente vuol dire “anima”. L’espressione “dare l’anima” esiste anche nelle lingue moderne. Quindi si può legittimamente intendere l’espressione: “dare la vita” : 1°) come offerta di sé, 2°) come mettere al mondo, e 3°) come dare la vita eterna, perché spirituale e non solo materiale.


Lettura Patristica
Clemente di Alessandria,
da il Paedagogus, 83, 2 - 84, 3


Gesù, il Logos salvatore, pastore, pedagogo

       Le persone in buona salute non hanno bisogno del medico (Mt 9,12e parall.), almeno finché stanno bene; i malati al contrario richiedono la sua arte. Allo stesso modo, noi che in questa vita siamo malati di desideri riprovevoli, di intemperanze biasimevoli, di tutte le altre infiammazioni delle nostre passioni, abbiamo bisogno del Salvatore. Egli ci applica dolci medicamenti, ma del pari amari rimedi: le radici amare del timore bloccano le ulcere dei peccati. Ecco perché il timore, anche se amaro, è salutare.

       Dunque noi, i malati, abbiamo bisogno del Salvatore; gli smarriti, di colui che ci guiderà; i ciechi, di colui che ci darà la vista; gli assetati, della sorgente di acqua viva, e coloro che ne berranno non avranno più sete (cf. - Jn 4,14); i morti, abbiamo bisogno della vita; il gregge, del pastore; i bambini, del pedagogo; e tutta l’umanità ha bisogno di Gesù: per paura che, senza educazione, peccatori, cadiamo nella condanna finale; è necessario, al contrario, che siamo separati dalla paglia ed ammassati "nel granaio" del Padre. "Il ventilabro è nella mano" del Signore e con esso separa il grano dalla pula destinata al fuoco (Mt 3,12).

1) Se volete, Possiamo comprendere la suprema sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo, che è il Signore di tutto e il Logos del Padre, quando impiega un’allegoria e si dà il nome di pastore del gregge (cf. Jn 10,2s); ma è anche il Pedagogo dei piccolini.

2) È così che egli si rivolge diffusamente agli anziani, attraverso Ezechiele, e dà loro il salutare esempio di una sollecitudine quanto mai accorta: "Io medicherò colui che è zoppo e guarirò colui che è oppresso; ricondurrò lo smarrito (Ez 34,16) e lo farò pascolare sul mio monte santo" (Ez 34,14). Tale è la promessa di un buon pastore. Facci pascere, noi piccolini, come un gregge;

3) sì, o Signore, dacci con abbondanza il tuo pascolo, che è la giustizia; sì, Pedagogo, sii nostro pastore fino al tuo monte santo, fino alla Chiesa che si eleva, che domina le nubi, che tocca i cieli! (Ps 14,1 Ap 21,2). "E io sarò", egli dice, "loro pastore e starò loro vicino" (Ez 34,23), come tunica sulla loro pelle. Egli vuole salvare la mia carne, rivestendola con la tunica dell’incorruttibilità (1Co 15,53); ed ha unto la mia pelle.


venerdì 17 aprile 2015

Da Emmaus a Gerusalemme e al mondo intero.

III domenica di Pasqua – Anno B – 19 aprile 2015

Rito romano
At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1 Gv 2,1-5; Lc 24,35-48

Rito ambrosiano
At 16, 22-34; Col 1, 24-29; Gv 14, 1-11a.


1) Un cammino di misericordia: da Emmaus a Gerusalemme
Domenica scorsa abbiamo celebrato la divina Misericordia. E anche oggi la pagina del vangelo di Luca che la liturgia ci propone, sottolinea come essere testimoni della risurrezione del Signore voglia dire annunciare la conversione e il perdono. Viviamo la misericordia allora come riflesso della Risurrezione, e come occasione di conoscenza di Dio e del suo infinito amore, riconoscendoci deboli, fragili, miseri, ed è appunto nella nostra miseria che ci sentiamo accolti dal Dio misericordioso.
Domenica scorsa, abbiamo contemplato Gesù che guardava Tommaso con i suoi occhi pieni di misericordia. Le letture della Messa di oggi ci fanno contemplare un crescendo di misericordia: gli Atti degli Apostoli ci dicono come condizione necessaria per il perdono sia la conversione, Giovanni nella sua lettera ci dice come se qualcuno che ha peccato può trovare in Gesù un avvocato, qualcuno che invece di chiedere il resoconto del male fatto dall’uomo offre la vita per l’uomo, e la offre non soltanto per chi crede in lui, ma anche per il mondo, cioè per tutti gli uomini, anche i più distanti da lui. Il Vangelo lega in modo strettissimo l’essere testimoni del risorto con la predicazione della conversione ed il perdono.
La Chiesa è nata dal cuore trafitto di Cristo1 e San Tommaso, perdonato della sua incredulità, ebbe l’impegnativo dono di mettere la sua mano nel costato e di arrivare vicino al Cuore del Crocifisso risorto. Toccò l’uomo e riconobbe Dio, che gli manifestava ancora una volta la Sua misericordia.
La sua conversione non fu tanto un movimento esteriore, quanto un cammino interiore come aveva fatto la Maddalena, quando nel giardino dove c’era il sepolcro vuoto, si voltò indietro e vide Gesù che stava vicino a lei in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Alla domanda “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Lei, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Lei allora, voltatasi verso di lui, gli disse: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!
Questo episodio evangelico descrive in che cosa consiste la conversione. San Giovanni dice che Maria di Magdala si volta verso Gesù due volte... E’ già girata verso di lui, che senso ha allora il secondo voltarsi verso di lui? E’ un volgersi interiore, è quel cambiamento che avviene in noi e che rende gli occhi del cuore capaci di riconoscere la presenza nuova del Signore Risorto. Mi pare che sia questo il cammino di conversione: per poter ricevere il perdono è necessario orientare la propria vita a colui che ha annunciato, vissuto, dato il perdono. In fondo credo che proprio perché avvenga questo riconoscimento Gesù insiste così tanto nel dire: Sono proprio io!
Bellissimo che il riconoscimento avvenga ancora una volta attraverso la voce che chiama: “Maria”, la voce che spiega le Scritture lungo il cammino verso Emmaus, le mani che spezzano il pane, eucaristicamente. Grazie a questo incontro, i due discepoli che hanno ricevuto, accolto Cristo, che ha camminato e mangiato con loro, si affrettano a tornare a Gerusalemme. Vi tornano per annunciare il Vangelo di misericordia: Cristo è davvero risorto e si è fatto compagno della loro miseria.

2) Testimoni del Misericordioso.
Nel Vangelo di oggi, San Luca rivela un’evidente preoccupazione apologetica, e cioè quella di affermare la realtà e la concretezza della risurrezione. Gesù risorto ha un vero corpo. Entra di nuovo nel Cenacolo saluta, domanda e rimprovera, invita a rendersi conto della sua verità, mostra le mani e i piedi e, infine, mangia davanti ai discepoli.
Questi hanno una reazione umanamente comprensibile: sono sconcertati, impauriti, turbati, dubbiosi, stupiti e increduli. Sono anche presi dalla gioia, che se pure in modo diverso dalla paura, rende increduli: “Ancora non credevano per la gioia”. Dopo la risurrezione, i discepoli restarono dubbiosi e increduli, sia perché si trovavano davanti a un fatto assolutamente nuovo, sia perché si imbattono in una sorpresa troppo bella, desiderata, preannunciata da Cristo ma da loro ritenuta impossibile.
Finalmente, grazie alla riconoscenza (gratitudine) per l’amore manifestato dalle piaghe gloriose, dal pane eucaristicamente spezzato ad Emmaus, dalla pace effusa su di loro nel Cenacolo, i discepoli hanno riconosciuto che Cristo era davvero risorto e sentirono il “dovere” di testimoniarLo.
Visitati da Cristo che si manifestò loro con segni di misericordia, i discepoli hanno creduto al suo Amore appassionato, di cui Lui ha dato prova affrontando la passione, ha mostrando le ferite d’amore: le stigmate. Fu quindi naturale per loro seguire l’invito di diventare testimoni appassionati di questo amore. Perché l’amore si “paga” con l’amore.
Di conseguenza, la testimonianza della risurrezione di Cristo è efficace e credibile solo se anche noi, discepoli del Risorto, mostriamo al mondo le nostre mani e i nostri piedi segnati da opere di amore, dalle opere di misericordia.
Le tre letture della Messa di questa domenica sono unite da questo filo rosso: la conversione e il perdono dei peccati. Ambedue –conversione e perdono- hanno la loro radice nella Pasqua di Gesù e sono parte essenziale dell’annuncio missionario della Chiesa, come ha pure ricordato Papa Francesco nella Bolla di indizione dell’Anno della Misericordia (11 aprile 2015) . Negli Atti degli Apostoli, il giorno di Pentecoste San Pietro dichiara nella piazza pubblica: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19, Prima Lettura). L’Apostolo esorta in modo paterno i “figlioli” a non peccare, ma se ciò capitasse, ricorda che c'è sempre una tavola di misericordia: “abbiamo un avvocato... Gesù Cristo il giusto... vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo” (1 Gv, 2,1-2, Seconda Lettura).
Nella terza lettura, presa dal Vangelo di San Luca “la conversione e il perdono dei peccati” sono la bella notizia che i discepoli dovranno predicare “a tutte le genti”, nel nome, cioè per mandato di Gesù (Lc 24,47).
Un esempio particolare di questa evangelizzazione è dato dalle Vergini consacrate nel mondo, che - in una società che rischia di essere soffocata nel vortice dell'effimero e dell'utile, del calcolo e della rivalità -sono segno di gratuità e d’amore.
La vita consacrata si caratterizza per la sua assoluta gratuità: è un dono che si riceve da Dio, si vive per Dio solo, e a Dio ritorna passando attraverso la preghiera di lode e di supplica e il servizio di carità.
Le persone consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale l'uomo trova la propria salvezza. Esse tengono viva l’esperienza del perdono di Dio, perché hanno la consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato. Per questo, anche per l’uomo di oggi, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della “compunzione del cuore”2 (Benedetto XVI, 2 febbraio 2010). Queste donne testimoniano che, grazie alla verginità, è possibile vivere un amore consacrato nel mondo e che, grazie ad una vita lietamente e totalmente offerta, l’amore di Dio è davvero credibile.
La vergine consacrata nel mondo testimonia che la sua vita è Dio e Dio non è un discorso, non è un’idea: è una realtà della quale la persona consacrata vive e che fa presente agli uomini.

1 Cfr Sant'Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, 2, 85-89: CCL 14, 69-72 (PL 15, 1666-1668)

2 La compunzione del cuore porta in sé il sigillo della carità divina, del puro amore a Dio. La vera compunzione, infatti, è dono dell'Altissimo, è il dolore soprannaturale che penetra nel cuore dell'uomo al pensiero della Passione di Cristo, al ricordo delle proprie colpe, alla constatazione del prolungarsi dell'esilio terreno che separa da Dio, unica felicità dell'anima viatrice. Tutto ciò fa sgorgare quelle salutari lacrime, dell’anima piuttosto che degli occhi, alle quali neppure Dio sa resistere.




Lettura Patristica
Guerric d’Igny,
Sermo I, in Pascha, 4-5


Cristo e la vera risurrezione e la vita

       Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26 Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.

       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...

       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».

       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».




venerdì 10 aprile 2015

La misericordia di un incontro

II Domenica di Pasqua – Domenica della Misericordia - Anno B –  12 aprile 2015
 
Rito Romano
At 4,32-35; Sal 117; 1 Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Rito Ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
Domenica II di Pasqua - (della Divina Misericordia)
(ormai tolte le vesti battesimali)
 

1) Un incontro che conferma la fede.
I discepoli avranno perso la fede a causa della passione e morte di Gesù? Poteva la fede di questi futuri pescatori di uomini venire meno del tutto? Certo i giorni drammatici culminati con Cristo morto in Croce, l’aveva resa debole, fragile, incrinata e il cuore era pieno di paura. Tant’è vero che, anche se restano a Gerusalemme, si sono rinchiusi nel Cenacolo con le porte sprangate per paura dei Giudei. Ma, ecco che alcune donne (come ci ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa) avevano annunciato loro che Cristo era risorto. Tuttavia questo annuncio non bastò loro. In effetti, è necessario, ma non sufficiente che qualcuno Lo abbia visto e annunciato: è necessario incontrarLo.
Nel luogo dove si erano rifugiati c’era ancora aria di paura. Paura dei Giudei, certo, ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Eppure, nonostante il loro cuore inaffidabile - e il nostro cuore lento – Gesù venne in quella casa e stette in mezzo a loro.
Gesù sapeva che la fede non poteva rifiorire, essere confermata solamente dal ricordo di Lui, di quanto Lui aveva detto e fatto nei tre anni trascorsi con i suoi apostoli. Il ricordo, per quanto vivo, non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola di vita e di pensiero.
Dunque Gesù, dopo aver lasciato il luogo di morte che era il sepolcro, entra in un luogo dove ci sono i suoi discepoli1 morti di paura, morti nel cuore, e sta in mezzo a loro, che - secondo me – non vuol dire solo al centro ma anche dentro.
Gesù risorto sta di nuovo con i suoi discepoli e cosa fa? Porta la sua pace. La prima esperienza di resurrezione è che nel luogo chiuso dove io mi trovo, nelle mie paure, Lui è lì presente al centro e mi annuncia la pace. E’ lì che Lo incontro, proprio nel chiuso delle mie paure.
Quindi, è importante questo incontro, perché è un fatto che cambia la vita. Dopo l’incontro della Maddalena, che cerca Cristo con santo amore e pura pietà, oggi siamo chiamati a celebrare l’incontro di amore e di pietà di Cristo che cerca noi. Il Risorto viene incontro a noi che siamo morti nelle nostre paure, nelle nostre fragilità, nel nostro peccato, nelle nostre chiusure, nel nostro buio, per farci risorgere attraverso la pace e la gioia.
La pace e la gioia sono un dono del Risorto, che affondano le loro radici nell’amore. Pace e gioia sono il dono del Risorto e, al tempo stesso, le tracce per riconoscerlo. Ma occorre frantumare l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili e si è liberati dalla paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali non è possibile alcuna esperienza della presenza del Risorto.
Il risorto Gesù, ricco di misericordia e di bontà e di pace, non è fermato dalle porte chiuse del Cenacolo. Sant’Agostino spiega che “le porte chiuse non hanno impedito l’entrata di quel corpo in cui abitava la divinità. Colui che nascendo aveva lasciata intatta la verginità della madre poté entrare nel cenacolo a porte chiuse” e confermare le debole fede mostrando le piaghe gloriose (cfr Inno ai Vespri di Pasqua).

2) Un gesto di misericordia.
Come ci è detto nel brano del Vangelo di oggi, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente”. Tommaso si inginocchia e fa una splendida professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il Risorto Gesù mostra i segni della passione, fino a concedere all’incredulo Tommaso di toccarli. La condiscendenza divina ci permette di imparare anche da Tommaso incredulo e non solamente dai discepoli credenti. Infatti, toccando le ferite del Signore, il discepolo esitante guarisce non solo la propria, ma anche la nostra diffidenza.
In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo, Cristo risorto tornò nel cenacolo, stette2 nel mezzo (Gv 20,19). Gesù sta in piedi, diritto (è la posizione del Vivente, il cui corpo “giaceva” nel sepolcro) e si rivolge alla comunità intera, infatti, dice: “Pace a voi”, nella quale ora c’è anche Tommaso, al quale Gesù si rivolge personalmente e –come ho citato poco sopra- gli dice: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Per farsi riconoscere è il Risorto stesso che sceglie i segni della crocifissione: il fianco e le mani trafitte. Gesù invita Tommaso a realizzare il suo desiderio: vedere e toccare i buchi provocati dai chiodi che avevano sostenuto Gesù in Croce, e la ferita che la lancia aveva aperto nel costato del Redentore.
La Risurrezione non abolisce la Croce: la trasfigura. Le tracce della crocifissione sono ancora visibili, perché sono proprio loro a indicare l’identità del Risorto e a indicare la strada che il discepolo deve percorrere per raggiungerlo. Il Risorto porta per sempre le ferite, ora gloriose, memoria perenne del suo amore immenso e misericordioso per noi. San Tommaso poté mettere il dito nel buco dei chiodi e spingere la mano nella ferita aperta dalla lancia, perché riteneva giustamente che segni qualificanti dell’identità di Gesù fossero soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela anche oggi fino a che punto Dio ci ha amati e che il Risorto è il Crocifisso. Le ferite di Cristo restano misteriosamente aperte anche dopo la risurrezione: sono la porta sempre spalancata, attraverso la quale il Figlio di Dio si apre a noi e noi entriamo in Lui. Come Tommaso, noi oggi siamo chiamati a vedere e toccare il Corpo di Cristo, per entrare in comunione con Lui.

3) L’Amore è missione.
Il brano del Vangelo di oggi non ci parla solo dell’incontro tra il Risorto e san Tommaso, ma va oltre, affinché tutti possano ricevere il dono della pace e della vita con il “Soffio creatore”. Infatti, per due volte Gesù disse ai discepoli: “Pace a voi!”, e aggiunse: “Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Detto questo, soffiò su di loro, dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. È questa la missione della Chiesa perennemente assistita dallo Spirito Santo: portare a tutti il lieto annuncio, la gioiosa realtà dell'Amore misericordioso di Dio.
L’amore è sempre missionario, perché manda la persona fuori di sé. Non nel senso di uscire di testa, cioè di impazzire, ma in quello di uscire dal proprio egoismo per affermare l’altro, perché l’altro viva. L’amore del Padre che ci offre il Figlio ci spinge verso i fratelli ( cfr 2 Cor 5, 14) perché anche loro scoprano questo amore divino e lo accolgano. Allora Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15, 28).
Perché possiamo compiere questa missione, Gesù ci dona il suo soffio di vita: la vita di Dio diventa la nostra vita. E’ lo spirito nuovo, che ci toglie il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne, capace di vivere secondo la parola di Dio e di “abitare” la terra (cfr Ez 36, 24 ss). E’ quel soffio che Dio alitò su Adamo (cfr Gn 2,7) e che il nuovo Adamo “spirò” dalla Croce, facendo scaturire dal suo fianco sangue (segno dell’Eucaristia) e acqua (segno del Battesimo). E’ lo Spirito del Figlio di Dio, che ci rende capaci di vivere da fratelli e sorelle, vincendo il male con il bene. Per questo la missione dei discepoli consiste nel perdonare i peccati. Il perdono fraterno realizza sulla terra l’amore del Padre. In questo modo la Chiesa, sacramento di salvezza per tutti, continua la missione dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Con il dono del suo Spirito, Gesù invia anche noi a continuare nel mondo la sua opera di misericordia e riconciliazione. A questo ministero di misericordia partecipano in modo molto significativo le Vergini consacrate nel mondo.
Quando una cosa viene consacrata, essa è sottratta ad ogni altro uso per essere adibita solo a uso sacro. Così è di un oggetto, quando è destinato al culto divino. Ma può esserlo anche di una persona, quando essa viene chiamata da Dio a rendergli un culto perfetto. Essere consacrate a Cristo, vuol dire lasciarsi condurre da Lui, fidarsi di Lui e portare il suo amore misericordioso nella vita di ogni giorno. “Preghiamo il Signore che moltiplichi sulle vergini consacrate la grazia, affinché compiano le dovute opere di misericordia, e tutti coloro che le vedono glorifichino il Padre della Misericordia che è nei Cieli” (Santa Faustina Kowalska.). Come, fra l’altro, è confermato nel Rituale delle Vergini Consacrate, il quale afferma che il loro compito e di “attendere, ognuna secondo il proprio stato e propri carismi, alle opere di penitenza e misericordia3, all’attività apostolica e alla preghiera” (Prenotanda, n. 2)
 
1 Il fatto che il Vangelo di oggi parli di “discepoli”, non di “apostoli” vuol dire che la cerchia è più ampia e comprende anche noi.

2 Il verbo greco che indica “stare”, in un suo composto significa “risorgere” (an-istemi: stare su). Il morto giace, messo a parte. Il Risorto sta diritto, nel mezzo della comunità dei credenti.

3 La Chiesa - servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza bimillenaria - riassume l'atteggiamento positivo verso chi è in difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle corporali e quelle spirituali.
Le sette opere di misericordia corporale sono:
1) Dar da mangiare agli affamati,
2) Dar da bere agli assetati,
3) Vestire gli ignudi,
4) Alloggiare i pellegrini,
5) Visitare gli infermi,
6) Visitare i carcerati,
7) Seppellire i morti.
Le sette opere di misericordia spirituale sono:
8) Consigliare i dubbiosi,
9) Insegnare agli ignoranti,
10) Ammonire i peccatori,
11) Consolare gli afflitti,
12) Perdonare le offese,
13) Sopportare pazientemente le persone moleste,
14) Pregare Dio per i vivi e per i morti.
Ricorrendo al numero sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero il valore simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel numero, che significa completezza, si vuol esprimere tutto ciò che riguarda l’aiuto verso il prossimo.


Lettura Patristica
San Gregorio Magno
Omelia 26, 7-9


Tommaso, modello di fede per noi

       "Ma Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24). Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano, ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del Signore) era stato custode della perfettissima verginità.

       [Tommaso] toccò, ed esclamò: "Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso, hai creduto" (Jn 20,28-29). Quando l’apostolo Paolo dice: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (He 11,1), parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò, perché gli viene detto: "Perché mi hai veduto, hai creduto?" Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era Dio, dicendo: "Mio Signore e mio Dio"! Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo, ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.

       Riempie di gioia ciò che segue: "Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto" (Jn 20,29). Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede. Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo afferma: "Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti" (Tt 1,16). E Jc aggiunge: "La fede senza le opere è morta" (Jc 2,26).

venerdì 3 aprile 2015

Pasqua: La logica dell’Amore ha vinto

Rito Romano - Domenica di Pasqua di Resurrezione – 5 aprile 2015.
At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9 o Mc 16, 1 - 8

Rito Ambrosiano –
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18


  1. L’amore ha vinto: Cristo, il Principe della vita (At 3,15) è risorto.
E’ Pasqua. In questo giorno di gioia facciamo nostra la preghiera di Papa Francesco: “Che il Signore ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle sorprese di Dio, tanto belle; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni, cari fratelli e sorelle, ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo”, affinché in Lui e per Lui possiamo vivere per sempre, nella consolazione e nella pace.
E’ Pasqua, lieto giorno del Triduo Pasquale, l’ultimo dei tre giorni santi, in cui la Chiesa fa memoria del mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù.
Il Giovedì Santo abbiamo fatto memoria dell’Ultima Cena, nella quale Gesù, il vero Agnello pasquale, offrì sé stesso per la nostra salvezza (cfr 1 Cor 5,7) offrendoci come cibo il suo corpo donato e come bevanda il suo sangue versato.
Il Venerdì Santo, abbiamo fatto memoria della passione e della morte del Signore Gesù. Abbiamo adorato Cristo Crocifisso, partecipando alle sue sofferenze con la penitenza e il digiuno. Volgendo “lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cfr Gv 19,37), abbiamo contemplato l’immenso amore che Gesù ha per noi.
Ma non ci si è fermati al Venerdì Santo, quando il Cristo, e con Lui l’amore e la dedizione di Dio per noi, è stato picchiato e ucciso sulla Croce. Non ci siamo fermati neppure al giorno del Sabato Santo, quando con Cristo morto, il mondo diventò desolazione di morte e Dio tacque.
Nella notte del Sabato Santo, abbiamo celebrato la Veglia Pasquale, nella quale ci è annunciata la risurrezione di Cristo, la sua vittoria definitiva sulla morte che ci chiede di essere in Lui uomini nuovi. “Io vivo e voi vivrete” (Gv 14, 19)dice Gesù ai suoi discepoli, quindi a noi. Grazie alla comunione esistenziale con Lui, grazie all’essere inseriti in Lui, che è la Vita, noi vivremo oggi e per l’eternità.
E’ arrivato il giorno in cui il “morto” Gesù è diventato un ricordo del passato. Cristo è risorto, vive per l’eternità e la morte è stata sconfitta: Lui ha “il potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1. 18)
Nel giorno di Pasqua facciamo memoria di Cristo risorto. E’ risorto Colui che – fino alla fine - era rimasto sulla Croce per noi. E’ risorto Colui che ora esiste e vive per noi e per noi “intercede fino alla fine” (cfr Rm 8,34).
La Risurrezione di Cristo è il varco aperto dall’amore che redime e assume su di sé tutti i peccati. La risurrezione è la vittoria dell’amore smisurato del Dio di misericordia sulla morte che Gesù, Agnello innocente, ha patito.
L’Agnello di Dio, immolato per i peccati del mondo, testimonia la verità grande e bella di questo Amore che non ci costringe a seguirlo. Dio muore nel Verbo incarnato per suscitare in noi una adesione completamente libera al suo Amore. Niente è più convincente dell’amore rivelato da Cristo in Croce, offerta divina per la nostra libertà. Niente è più attraente di Gesù, Sole di Pasqua, che mostra le piaghe ormai gloriose e chiama alla vera vita, effusa nei nostri cuori come frutto del Suo completo dono di sé.
2) Tre fedeltà.
La Risurrezione mostra che Dio vince sempre, ma con l’amore: un amore grazie al quale Cristo dona la sua vita, muore al nostro posto perché noi viviamo per sempre. Questo amore si rivelò alle donne, che per prime andarono al sepolcro, perché erano prime nell’amore e chi ama cerca perché la morte non uccide l’amore.
La risurrezione è anche il trionfo di tre fedeltà: quella del Padre che non abbandona Gesù nella morte, quella di Gesù che non abbandona i discepoli nella dispersione e quella delle donne che, di prima mattina vanno al sepolcro. In queste donne c'era tristezza, perché credevano che la loro grande avventura con Gesù fosse terminata e, prima di ritornare alla vita precedente, andarono alla tomba perché l’amore fedele continuava.
Spinte dall’amore andarono alla tomba e la videro vuota dell’Amato. Cercavano Cristo e incontrarono un Suo angelo (parola d’origine greca che vuol dire messaggero). Questo messaggero angelico disse loro che Gesù, il Crocifisso, era risorto. Queste donne, che erano rimaste fedeli all’Amore che avevano visto morire, avrebbero dovuto gioire, invece restarono impaurite e senza parole. San Marco (è il racconto secondo questo Evangelista che si legge quest’anno) probabilmente vuole dire che l’essere umano non soltanto ha paura della Croce, ma anche di fronte all’evento, che la capovolge e la trasforma in vita e gloria, resta stupito, immobile, come se non riuscisse a crederci. “Voi cercate Gesù il Nazareno, il Crocifisso, è risorto” (Mc 16,6): un annuncio, questo, che attira l’attenzione sul Crocifisso. La risurrezione è la manifestazione del senso vero, profondo e misterioso del cammino terreno di Gesù, che trova il suo culmine nella crocifissione. Fra i due momenti - il Gesù di Nazareth e il Gesù risorto - vi è un rapporto di profonda continuità, come tra ciò che è nascosto e ciò che è svelato. La Risurrezione è la verità della Croce. Non è cambiato il volto della dedizione, dell’amore e del servizio che Gesù ha mostrato nel suo cammino terreno, ma è divenuto luminoso e vittorioso. Senza la memoria della Croce la risurrezione perderebbe il suo significato.
La risurrezione di Gesù non è semplicemente la notizia di una generica vittoria della vita sulla morte. È una notizia molto più precisa: è l’Amore che vince la morte.
La risurrezione di Gesù inaugura un nuovo, preciso modo di vivere. Si tratta di una notizia lieta e impegnativa. Di più: la Croce dice il volto nuovo del Dio rivelato da Gesù: un volto rifiutato perché troppo distante da come gli uomini lo pensano. Qui si apre lo spazio per quella profonda conversione “teologica” a cui ogni cristiano è invitato. Dio ha veramente il volto che Gesù ha rivelato: in questo volto il Padre si è riconosciuto. È dunque la nostra immagine di Dio che va cambiata.
“Egli vi precede in Galilea, là lo vedrete, come vi ha detto” (16,7). Gesù, appena risorto, pensa ai discepoli. Lo hanno abbandonato, ma per lui sono sempre i “suoi discepoli”.
Di fronte alla novità, come gli apostoli, spesso abbiamo un momento di smarrimento: «spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze». “Abbiamo paura delle sorprese di Dio”. Anche quando si tratta di Gesù Cristo, abbiamo paura della Resurrezione perché, se crediamo veramente che sia risorto, allora la nostra vita cambia. Dunque preferiamo “fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato”.
Questo è il vero appello della Pasqua: “Non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui” (Papa Francesco, Pasqua 2013).
Le “pie” donne che per prime andarono al sepolcro al levar del sole, ebbero la reazione di paura trasformata in fiducia, l’istinto di fuga divenne sequela, il loro silenzio di fece annuncio e la loro vita venne trasfigurata.
Andiamo anche noi da Cristo risorto ed anche per noi la paura si trasformerà in fiducia, la fuga si convertirà in sequela, e il silenzio diventerà stupito annuncio di una Presenza incontrata.
Un esempio particolare di come oggi si possano imitare le donne fedeli che andarono alla tomba e furono le prime portatrici del vangelo della Risurrezione sono le Vergini consacrate nel mondo.
Il loro essersi donate completamente a Cristo, al quale hanno aderito come unico, indiviso amore, testimonia la fede nella Risurrezione dello Sposo regale e eterno. Il Signore Gesù nel vangelo presenta se stesso come lo Sposo ( Mt 9, 14-15, e par.), a cui si deve andare incontro (Mt 25, 1-13, qui 6), nella vigilanza continua. Sono nozze d’amore e dunque di Sangue, consumate, cioè portate a pienezza sulla Croce, l’Albero della Vita. Le vergini consacrate rispondendo di sì al Vescovo che ha chiesto loro: “Volete essere consacrate con solenne rito nuziale a Cristo , Figlio di Dio e nostro Signore?” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, n. 30), hanno accolto la chiamata a crescere ogni giorno di più nel loro rapporto con il Signore, accogliendo con fiducia il progetto di Dio nell’ordinarietà della vita quotidiana.

Lettura Patristica
San Massimo di Torino
Sermone 53, 1, 2, 4
CCL 23, 214-216.

Pasqua: giorno senza tramonto
Tutta la creazione è invitata ora ad esultare e a gioire, perché la resurrezione di Cristo ha spalancato le porte degli inferi, i nuovi battezzati hanno rinnovato la terra e lo Spirito Santo apre il cielo. L'inferno, a porte spalancate, lascia uscire i morti, dalla terra rimessa a nuovo germogliano i resuscitati, il cielo aperto accoglie coloro che ad esso salgono. Il ladrone è asceso in paradiso, i corpi dei santi hanno accesso alla città santa, i morti ritornano presso i vivi. In virtù di una specie di sviluppo della resurrezione di Cristo, tutti gli elementi son portati verso l'alto. L'inferno lascia risalire alla sommità quelli che deteneva, la terra invia verso il cielo coloro che aveva sepolto, il cielo presenta al Signore coloro che accoglie. Con un unico e medesimo movimento, la passione del Salvatore ci fa risalire dai bassifondi, ci solleva dalla terra e ci colloca nei cieli. La resurrezione di Cristo è vita per i defunti, perdono per i peccatori e gloria per i santi. Quando Davide dice che bisogna esultare e rallegrarci in questo giorno che il Signore fece (cf. Sal. 117, 24), egli esorta tutta la creazione a festeggiare la resurrezione di Cristo.
La luce di Cristo è un giorno senza notte, un giorno senza fine. Ovunque risplende, ovunque irraggia, ovunque è senza tramonto. Che cosa sia questo giorno di Cristo, ce lo dice l'Apostolo: La notte è già "inoltrata, il giorno s'avvicina (Rom. 13, 12). La notte è già inoltrata, non ritornerà più. Comprendilo: una volta apparsa la luce di Cristo, le tenebre del demonio si sono date alla fuga e l'oscurità del peccato non ritorna più; le foschie del passato sono disciolte dallo splendore eterno. Infatti il Figlio è questa stessa luce cui il giorno, suo Padre, ha comunicato l'intimo segreto della sua divinità (cf. Sal. 18, 3). Egli è la luce che ha detto per bocca di Salomone: Feci levare nel cielo una luce senza declino (Eccli. 24, 6). Come la notte non può succedere al giorno celeste, così le tenebre non possono succedere alla giustizia di Cristo. Il giorno celeste risplende, scintilla e sfolgora senza posa, e non può essere coperto da oscurità alcuna. La luce di Cristo splende, brilla e irraggia senza sosta, e non può essere coperta dalle ombre del peccato; da cui le parole dell'evangelista Giovanni: La luce risplende fra le tenebre; ma le tenebre non l'hanno ricevuta (Gv. 1, 5).
Questa è la ragione per cui, fratelli, noi tutti dobbiamo esultare in questo santo giorno. Nessuno si sottragga alla gioia comune a causa della consapevolezza dei propri peccati; nessuno si allontani dalle preghiere del popolo di Dio, a causa del peso dei propri errori. In questo giorno tanto privilegiato nessun peccatore deve perdere la speranza del perdono. perché. se il ladrone ha ricevuto la grazia del paradiso, come potrà mai il cristiano non avere quella del perdono?