domenica 22 marzo 2015

Vogliamo vedere l’Infinito: la sete del volto di Dio

V Domenica di Quaresima - Anno B –  22 marzo 2015.

Rito Romano
Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33[1]

Rito Ambrosiano – V Domenica di Quaresima – “di Lazzaro”
Dt 6,4a.20-25; Sal 104; Ef 5,15-20; Gv 11,1-53

            1) Vedere il Volto buono del Destino: Gesù Cristo.
            I giorni scorrono veloci ed anche i quaranta giorni della Quaresima stanno per finire. Domenica prossima sarà quella delle Palme e quella successiva, infine, sarà quella di Pasqua. In questo avvicinarsi della Settima Santa (che il rito ambrosiano chiama: Settimana Autentica, quindi vera e paradigmatica per le altre settimane dell’anno) e del giorno di Risurrezione, il Vangelo di oggi ci dice cosa bisogna fare per vedere[2] Gesù. In primo luogo, occorre averne il desiderio e andare da lui come hanno fatto alcuni “greci” (=pagani, quindi non ebrei). In secondo luogo, bisogna capire perché Cristo invece di dire “guardatemi”, risponde che “è venuta l’ora” (Gv 12, 23) della sua “morte che dà la morte alla morte” (cfr Os 13,14).
            In realtà, Gesù risponde, anzi va al cuore della richiesta fatta da dei pagani e presentata a Lui dagli Apostoli. Alla domanda di un incontro diretto, Gesù risponde in modo indiretto, annunciando la sua Passione, in cui spiega la sua morte come “glorificazione” del Suo amore appassionato per i suoi fratelli e sorelle in umanità. Cosa vuole dire ciò?  Vuol dire che chi vike vederLo potrà incontrarLo e vederLo  attraverso la croce, accettando anche di mettere in pratica la  parabola del chicco di grano che muore (Gv 12,24), per essere fonte di vita, seguendoLo (Gv 12,25-26) e lasciandosi attirare da Lui, che regna essendo stato elevato sul trono della Croce gloriosa: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
            Anche oggi, Gesù viene incontro al nostro desiderio di vederLo. Lui viene come chicco di grano che muore per portare frutto.
            Anche a noi, oggi, il Signore dice che se vogliamo incontrarLo, conoscerLo, avanzare sulla Via per avere la Vita, dobbiamo “morire”.
            È vero: il marito “muore” al suo egoismo per dedicarsi alla moglie.
            La madre “muore” sacrificando la sua libertà per dare alla luce un figlio.
            Il prete “muore”, mettendo quotidianamente la sua vita a disposizione delle pecore che Dio gli ha affidato.
            La persona consacrata “muore”, perché offre la sua vita a Cristo, totalmente. “La vocazione delle persone consacrate è, prima di ogni altra cosa, una chiamata alla conversione piena, nella rinuncia a se stessi per vivere totalmente del Signore, affinché Dio sia tutto in tutti” (S. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Post-Sin. Vita consecrata, n. 35).
            Questi quattro esempi di “morte”, sono esempi di gesti che danno luce ad una dimensione nuova dell’amore, ad una nuova creatura, che nasce a Dio ed alla comunione fraterna.
            L’immagine del parto dice bene questa logica intessuta nelle cose: le doglie sono necessarie per dare alla luce una nuova creatura.
            Certo: accettare questo discorso è difficile. Quando stiamo soffrendo, non pensiamo alla vita che ne scaturirà. Quando stiamo male, facciamo fatica a intravedere il dopo. Quando siamo al buio e al freddo della terra come il chicco, facciamo fatica a pensare a un Dio misericordioso e tenero. Ma se teniamo fisso in mente e nel cuore che Gesù è il seme che va nella terra (cioè che si dona sino alla morte) per portare frutto, anche noi capiremo la “necessità” di morire e accetteremo di morire come Lui: per amore, solo per amore.
            Vedendo questo Amore, sapendo di essere guardati da questo Amore incarnato e crocifisso, abbiamo il coraggio e la grazia di morire a noi stessi per Dio e per il prossimo, come ha fatto Gesù, l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, il Volto buono del Destino che dà la vita e che ci dà la vita.


            2) La Croce permette di vedere con il cuore.
            In questo mistero della morte in croce, per mezzo della “Parola della Croce” (cfr. 1 Cor 1,18) ci sono rivelate due verità intimamente connesse: la verità su Dio e la verità sull’uomo.
            Vediamo brevemente queste due verità, cominciando da quella su Dio. In ciò ci è di aiuto S. Bernardo di Chiaravalle che scrive: “Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore … E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo … appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78)” (Sermoni sul Cantico dei Cantici; Ser. LXI, 4). “E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore”: la Croce è la suprema rivelazione di ciò che dimora dentro al cuore di Dio. E pertanto l’apostolo Paolo scrive di “non sapere altri in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso” (1 Cor 2,2). Alla domanda più alta che l’essere umano possa fare: “Chi è Dio?”, la Chiesa alla luce del Vangelo ci risponde: “Cerca la risposta nel Crocefisso”. Al desiderio di cui è impastato il cuore umano, il desiderio di vedere Dio (cfr  San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica 1,2,q.3, a.8), il cristiano, cresciuto nel sequela di Cristo, Cristo risponde dicendo: “Fissa il Crocefisso, guardaLo con gli occhi del cuore, che umilmente domanda”.
La verità sull’uomo e del suo valore è mostrata agli occhi del nostro cuore dalla Croce, sulla quale se Cristo ha pagato con la Sua vita il riscatto della nostra. Ci ha cosi mostrato quale grande valore ha la nostra vita, perché per la vita dell’uomo Lui ha donato la Sua vita.
Cristo ha mostrato con il dono di sé che Lui crede nell’uomo e nel suo valore. La Croce però non mostra solo la “fede” di Cristo nell’uomo, ma mostra Cristo come modello di vita da seguire, imitandolo per assomigliargli.
E’ una chiamata alla grandezza vera, quella che viene dall’umiltà, dalla generosità, dall’amore, dal dono de sé a chi si ama, e non la grandezza che viene dalla violenza fisica o morale, che distrugge. La grandezza di Cristo e dell’uomo in Cristo non dipende dall’opinione degli altri, che si fonda sulla forza e, molto spesso, sul disprezzo. Non chiede l’“adorazione” degli altri, tant’è vero che soprattutto gli attori sono chiamati “divi”. La grandezza che Dio offre all’uomo, è di essere con Lui creatori, e non degli esaltati. Il Cristianesimo non è una religione che disumanizza, ci rende uomini e donne veri, capaci di dono e di costruire qualcosa di grande per Colui che ha costruito tutto.
            Quello che è accaduto sulla Croce, e che riaccade sacramentalmente a ogni Messa, ha cambiato alla radice la nostra condizione umana: noi non siamo più condannati alla morte, non siamo più “esseri per la morte” (Heiddeger), perché sulla croce Cristo morendo ha redento la nostra morte: siamo “esseri per la vita”. E la certezza che questo è realmente accaduto ci è donata dalla Risurrezione. A causa della Risurrezione, noi sappiamo con certezza che la nostra umanità, non ideale ma quella reale (in Cielo Gesù Risorto conserva le stigmate), è definitivamente entrata nella Trinità santa e sorgente inesauribile di felicità. Questo è il frutto della morte del Verbo Incarnato, poiché proprio “per questo Dio lo ha esaltato” (Fil 2,9a). Grazie alla Croce noi siamo per sempre in Dio.
            Nell’umanità crocifissa di Gesù risplende l’amore che Dio è, l’amore che è “vita della nostra vita” (Sant’Agostino). Continuiamo nel cammino penitenziale di quaresima affinché non opponiamo la nostra indifferenza a questo amore grande.
            Per proteggere e fare crescere la verità di questo amore, dobbiamo rinunciare a noi stessi.
Non è una rinuncia fine a se stessa, ma per accogliere Cristo completamente, per indicare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell'uomo.
            Insomma il Vangelo di oggi, ci ribadisce che il Cristianesimo nasce dalla Croce e non può prescindere da essa. Gesù diventa Re dell’Universo sulla croce e non dopo il successo della moltiplicazione dei pani. Il cristianesimo nasce da un cuore trafitto. Quando parliamo di potere del cuore, è al Cuore di Cristo che dobbiamo guardare: un Cuore, che è la misura dell’amore di Dio e di conseguenza del nostro. Il nostro agire da cristiani si deve misurare con quel Cuore.
            A questo punto, mi si potrebbe chiedere se ciò vale per tutti i cristiani, perché consacrarsi nella verginità? La risposta la prendo da San Giovanni Paolo II: “Nella vita consacrata non si tratta solo di seguire Cristo con tutto il cuore, amandolo «più del padre e della madre, più del figlio o della figlia» (cfr Mt 10, 37), come è chiesto ad ogni discepolo, ma di vivere ed esprimere ciò con l’adesione «conformativa» a Cristo dell'intera esistenza , in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo e secondo i vari carismi, la perfezione escatologica” (Esort. Post-Sinod., Vita consecrata, n. 16).
            Le vergini consacrate nel mondo testimoniano l’importanza di un cuore donato completamente a Dio, perché attraverso questo cuore offerto Lui ama l’umanità.
            “Se veramente ti sei donato, non puoi vivere più che nel suo cuore, non puoi vivere più che nel suo corpo, non puoi vivere più che in Lui, così come una madre vive nel sangue del figlio, nella carne del figlio, perché la carne del figlio, il sangue del figlio è il sangue della madre” (Divo Barsotti). In questo modo faremo esperienza della verità di questa frase: “Il Signore è vicino quanti lo cercano a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 145, 18). In effetti “non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupery, Il piccolo Principe)


[1] Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. (Gv 12, 20-33)
[2] “Vedere” nel Vangelo di Giovanni ha un senso molto ricco: è un andare oltre le apparenze per raggiungere e conoscere il mistero che esse nascondono; allora "vedere" significa non solo incontrare il Messia, ma soprattutto riconoscerlo nella sua vera identità e credere in Lui.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona,
Commento al Vangelo di Giovanni, 51, 10



Amore e croce

       Il Signore ci esorta poi a seguire gli esempi che egli ci offre della sua passione: Chi ama la propria anima, la perderà (Jn 12,25).

       Queste parole si possono intendere in due modi: «Chi ama, perderà», cioè: se ami, non esitare a perdere, se desideri avere la vita in Cristo, non temere la morte per Cristo. E nel secondo modo: «Chi ama l’anima sua, la perderà», cioè: non amare in questa vita, se non vuoi perderti nella vita eterna. Questa seconda interpretazione ci sembra più conforme al senso del brano evangelico che leggiamo. Il seguito infatti dice: "E chi odia la propria anima in questo mondo, la serberà per la vita eterna"("ibid."). Quindi, la frase di prima: «Chi ama», sottintende: in questo mondo; cosi come poi dice: «Chi invece odia in questo mondo», la conserverà per la vita eterna.

       Grande e mirabile verità, nell’uomo c’è un amore per la sua anima che la perde, e un odio che la salva. Se hai amato smodatamente, hai odiato; se hai odiato gli eccessi, allora hai amato. Felici coloro che hanno odiato la loro anima salvandola, e non l’hanno perduta per averla amata troppo. Ma guardati bene dal farti venire l’idea di ucciderti da te stesso, avendo inteso che devi odiare in questo mondo la tua anima. Così intendono certi uomini perversi e male ispirati, crudeli e scellerati omicidi di sé stessi, che cercano la morte gettandosi nel fuoco, annegandosi in mare o precipitandosi da una vetta. Non è questo che insegna Cristo. Quando il diavolo gli suggerì di gettarsi nel precipizio, egli rispose: "Torna indietro, Satana; sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo" (Mt 4,7). E nello stesso senso disse a Pietro, per fargli intendere con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: "Quando eri più giovane, ti cingevi da te stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e di condurrà dove tu non vuoi" (Jn 21,18-19). Parole queste che chiaramente ci indicano che non da sé ma da altri, deve essere ucciso colui che segue Cristo. Quando dunque un uomo si trova nell’alternativa, e deve scegliere tra infrangere un comandamento divino, oppure abbandonare questa vita perché il persecutore gli minaccia la morte, ebbene egli scelga la morte per amore di Dio, piuttosto che la vita offendendo Dio; così avrà giustamente odiato la sua anima in questo mondo per salvarla per la vita eterna.

San Leone Magno,
Sermonw, 51, 3

Cristo ci ha fatto dono della sua vittoria

       Qual sacrificio fu mai più sacro di quello che il vero Pontefice posa sull’altare della croce immolando su di lei la propria carne? Benché, invero, la morte di molti santi sia stata preziosa agli occhi del Signore (Ps 115,15), mai tuttavia l’uccisione di un innocente ebbe come causa la propiziazione del mondo. I giusti hanno ricevuto la propria corona di gloria, non ne hanno donate, la forza d’animo dei fedeli ha prodotto esempi di pazienza, non doni di giustizia. La loro morte rimase propria a ciascuno di loro e nessuno con il proprio transito acquistò il debito di un altro; nostro Signore, invece, unico tra i figli degli uomini, è stato il solo in cui tutti sono stati crocifissi, tutti sono morti, tutti sono stati sepolti, tutti del pari sono risuscitati; ed è di loro che egli stesso diceva: "Quando sarò levato in alto attirerò tutto a me" (Jn 12,32). In effetti, la vera fede che giustifica gli empi (Rm 4,5) e crea i giusti (Ep 2,10 Ep 4,24), attratta a colui che condivide la sua natura, acquista in lui la salvezza, in lui nel quale essa si è ritrovata innocente; e poiché "non vi è che un unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5) è per la comunione con la sua stirpe che l’uomo ha ritrovato la pace con Dio; può così, in tutta libertà, gloriarsi (1Co 3,21 Ph 3,3 2Co 10,17) della potenza di colui che, nella infermità della nostra carne, ha affrontato un nemico superbo e ha fatto dono della sua vittoria a coloro nel cui corpo egli ha trionfato.





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